In questo preciso momento storico, in cui quotidianamente salta fuori l’ennesimo progetto geniale, è difficile distinguere quelli con del vero potenziale. Secondo noi, uno di questi è Bounce Chair, nato dalla mente di Matteo De Clercq e sviluppato insieme a tre suoi collaboratori e amici, Ludovico Liberali, Giorgio Pecchio e Gabriele Petrecca.
Bounce Chair è un progetto interdisiplinare che abbraccia l’arte, il design, la moda, la cultura streetwear, riuscendo a fonderli alla perfezione in un oggetto sia bello esteticamente sia utile e funzionale che riesce a dare nuova vita al lavoro manuale, all’artigianato: un oggetto da seduta che si serve di una palla ginnica come supporto.
Affascinati sia dall’idea che dal risultato ci siamo fatti raccontare dallo stesso Matteo e dal suo socio Ludovico i dettagli di questo progetto e i loro piani per il futuro.
Raccontateci di voi, qual è il vostro background, cosa avete studiato e quali sono le vostre più grandi passioni?
M: Io sono di Roma e mi sono trasferito a Milano per frequentare l’università. Dopo il primo anno di Economia e Finanza in Bocconi ho deciso di cambiare, sono andato in Inghilterra per studiare Business and Management, una facoltà molto più incentrata sull’aspetto di gestione aziendale e con una major in Human Resources. Qualche settimana fa mi sono laureato e ad oggi posso dire che se tre anni fa avessi avuto l’idea di questo progetto, molto probabilmente avrei fatto scelte diverse.
L: Anche io ho frequentato l’università a Londra, ed è proprio lì che ho incontrato Matteo. Appena ho visto il suo progetto mi sono subito interessato, l’ho contattato e ci siamo messi d’accordo su come potevamo collaborare. Tutto questo è successo nel novembre del 2018. Così, insieme, abbiamo strutturato il progetto, da come avremmo voluto lanciarlo, alla distribuzione, per finire con la strategia di promozione.
In questi sette mesi abbiamo prodotto tre nuovi palloni, oltre al primo di Stone Island, e abbiamo iniziato a parlare con possibili futuri collaboratori. In questo preciso momento stiamo facendo un mapping di tutte le persone che vogliamo raggiungere.
Come vi è venuta in mente l’idea per questo progetto e come è stato sviluppato?
M: Il pallone ginnico proposto come sedia è una cosa già vista, ci sono tanti brand che lo hanno fatto, alcuni meglio di altri.
Io, il pallone, lo trovo figo, innanzi tutto perché è una palla e quindi rappresenta anche un elemento giocoso per tutti, sia grandi che piccini. In secondo luogo permette una seduta benevola, terapeutica, che ti permette di mantenere la schiena dritta e di tenere i muscoli e gli addominali contratti, ma senza che tu te ne accorga. Così, stando seduto a lavorare il tuo addome lavora.
Poi, neanche a dirlo, si collega perfettamente al mondo dello streetwear, noi semplicemente cerchiamo di portarlo in altri ambienti.
A voler essere sincero, il vero input iniziale fu un ragazzo cinese, trovato mentre facevo un po’ di ricerca sulla cultura streetwear, che partendo dalle scarpe le smonta e crea delle mascherine. Nasce così l’idea di decostruire qualcosa. Personalmente, io non sono per niente un fan delle sneakers e penso che l’eccitamento che sta dietro alla sneaker sia completamente sbagliato. Sono molto più amante delle giacche e quindi sono partito da quello che mi piaceva, appunto le giacche e i capi d’abbigliamento in generale, e li ho trasformati. C’è anche da dire che a livello progettuale alcuni capi sono migliori di altri perché bisogna scegliere con attenzione il tipo di tessuto che deve essere elastico, o che possa essere reso tale, e che sia abbastanza resistente.
La sfida rimane sempre quella di usare un capo solo e non di fare un patchwork di tanti indumenti. Cerchiamo di utilizzare tutti i pezzi di un capo, mantenendo così un’idea di upcycling dietro ad ogni progetto. Vorremmo arrivare a prendere i fondi di magazzino e dargli una nuova locazione, una nuova vita attraverso i palloni.
Per ora la strategia è quella di produrre pezzi, come quelli che abbiamo già, e considerarli degli omaggi, in modo tale da metterci in contatto con una decina di persone.
L: Per il momento ci stiamo concentrando su creativi, fotografi, art designer e persone che hanno effettivamente creato dei prodotti che possiamo utilizzare per le nostre customizzazioni.
Raccontateci brevemente quello che avete fatto finora?
M: Per il momento abbiamo il primo, il Proto. Seat Stone Island, seguito dal Proto . Seat Adidas. Con il terzo, il Proto. Seat Maurizio Cattelan, abbiamo fatto qualcosa di un po’ diverso. Abbiamo utilizzato un accessorio, ovvero le sciarpe della sua collezione Museums League. A noi piacerebbe molto incontrarlo per consegnargliela a mano, in modo tale da trasformare il momento della consegna in un momento di incontro e di scambio, che è poi il vero obiettivo finale del nostro progetto, ovvero di avere un feedback e costruire un network.
L’ultimo pezzo che abbiamo creato, il Proto. Seat Lacoste, ci è stato richiesto da Julien Boudet aka “Bleumode”, fotografo della scena parigina. Questa è stata la prima vera commissione, gli abbiamo mandato degli sketch iniziali, lui ci ha mostrato le sue modifiche e così via. Ovviamente è lui che ha scelto Lacoste, ed essendo lui un grande appassionato di tennis, abbiamo cercato di includere un po’ di questo aspetto nel prodotto, inserendo una cerniera bianca che riprende le linee del campo. Inoltre la scelta del colore è dovuta al grande amore di Julien per il blu di Klein.
Tra i progetti futuri ce n’è uno per Clara Berry, modella e brand ambassador di adidas Francia, con cui siamo in contatto. Inoltre, siamo in contatto anche con Ji Won Choi, una designer sud coreana/americana che ha creato una collezione con adidas, anche lei molto interessata al nostro prodotto. Ecco, per loro due che sono legate allo stesso brand, vorremmo creare due prodotti gemelli.

Quanto tempo si impiega per realizzarne una, dallo sviluppo dell’idea al prodotto finito?
M: Il vero lavoro di manifattura non viene fatto da noi. Noi abbiamo individuato un artigiano esperto in tappezzeria a cui noi passiamo i nostri disegni e lui si occupa, poi, di esplodere il capo.
Durante il processo di produzione io sono sempre presente e quando creiamo un pallone è un continuo brainstorming in cui vediamo se riusciamo a seguire il disegno o se bisogna fare delle modifiche. Ad esempio per il Proto. Seat Lacoste abbiamo dovuto rinforzare il tessuto perché era troppo elastico e troppo leggero.
Il risultato finale è una cover di un pallone che può essere tolta e rimessa. Il prodotto finito comprende il pallone, la cover, una pompetta per gonfiarlo e le informazioni utili sul lavaggio. Bisogna specificare che questo pack non esiste ancora, ma è in corso d’opera.
Avete mai pensato o vi è mai stato chiesto di usare questo tipo di customizzazione su altri prodotti?
M: Per il momento il nostro è ancora un tentativo, quindi aggiungere ora un nuovo prodotto alla nostra produzione sarebbe un vero suicidio. Prima vogliamo che quello di ora diventi un prodotto finito e sistemato.
Poi rimane il fatto che il nostro non è un brand, ma un progetto. Se da questo vogliamo fare un salto in avanti, evolverci e trasformarci, possiamo sempre farlo, ma ci siamo distaccati un po’ dall’idea che aprire un brand sia facile. Abbiamo pensato di fare qualcosa di diverso, ma non di nuovo perché, ad esempio, in Asia è pieno di gente che customizza e crea pezzi personalizzati.
Quali sono i vostri progetti futuri?
M: A breve termine, quindi per il prossimo anno e mezzo, prevediamo un periodo di seeding in cui realizziamo il maggior numero di palloni e puntiamo ad acquisire visibilità e a creare un network di creativi che possano darci un aiuto. Puntiamo a incontrare qualcuno talmente interessato da promuoverci un’esibizione, una mostra in cui noi portiamo quindici o venti palloni inediti. Può essere un evento solo nostro o essere inserito in un progetto più grande. L’idea è comunque di riuscire a realizzarla.
Dopodiché, l’obiettivo è quello di cominciare ad accettare ordini e realizzarli, sempre se sono in linea con il nostro gusto e la nostra idea. In ogni caso la vendita non avverrà prima di dicembre o inizio 2020, sempre se le cose vanno bene.
Ovviamente la priorità è trovare un lavoro primario, anche per imparare qualcosa di utile da applicare a questo progetto collaterale, a cui comunque continueremo a dedicare del tempo e per il quale abbiamo degli obiettivi. Poi, chissà, se crescerà potrebbe diventare un lavoro full time.







