L’arte pubblica di CHEAP Street Poster Art a Roma

L’arte pubblica di CHEAP Street Poster Art a Roma

Giulia Guido · 2 anni fa · Art

Pochi giorni fa è iniziato a Roma la 16ª edizione di Short Theatre, il festival internazionale dedicato alla creazione contemporanea e alle performing Arts. Diversi luoghi della capitale si trasformeranno e faranno da sfondo a iniziative, installazioni e performance dal vivo: dal Teatro Argentina al Teatro India, dal Teatro del Lido di Ostia a La Pelanda – Mattatoio di Roma e molti altri spazi urbani. 
L’edizione di quest’anno prende il titolo di The Voice This Time e vede tra i protagonisti CHEAP Street Poster Art, collettivo bolognese nato nel 2013 dall’idea di 6 donne come festival di poster art ed evolutosi negli anni in un progetto più grande. 

CHEAP ha inaugurato il 6 settembre a la Pelanda Reclaim Your Future, un’installazione composta da diverse bandiere realizzate da diversi artisti. In occasione della loro partecipazione a Short Theatre abbiamo avuto la fortuna di fare qualche domanda al collettivo e farci raccontare la loro opera. Leggete l’intervista qui sotto e seguite CHEAP e Short Theatre su Instagram. 

Ciao, vi seguiamo da tanto tempo e abbiamo già parlato di CHEAP Street Poster Art su Collater.al, però spiegateci voi come è nato questo progetto e quali sono i vostri background.

CHEAP nasce dall’intesa creativa di 6 donne. Nel 2012, eravamo interessate a lavorare sul paesaggio urbano e a farlo indagando il paste up, l’attacchinaggio di poster e tutte le modalità di stare in strada utilizzando la carta come strumento: un modo di attraversare lo spazio pubblico che per noi era la definizione dell’effimero, di una serie di gesti anti monumentali, un’idea del contemporaneo che ha molto a che fare con la temporaneità – la public art non si misura solo in centimetri, ma anche in secondi.
Dal 2013 al 2017, per 5 edizioni, CHEAP ha lavorato con la carta, ha flirtato con l’effimero, ha sollecitato narrazioni contemporanee sul paesaggio urbano, ha contribuito al discorso sullo spazio pubblico. E lo ha fatto con il format del festival: ogni maggio e per dieci giorni, accoglievamo 5 guest artist internazionali invitati a realizzare interventi site specific, in quartieri diversi della città. 

Allo stesso tempo, installavamo un migliaio di poster arrivati in risposta alla call for artist nelle bacheche delle strade del centro; a queste azioni si aggiungevano block party in strada e una serie di eventi all’interno di in una rete di luoghi dati all’indipendenza.

CHEAP Street Poster Art

Nel gennaio del 2018 è stata annunciata la fine di questa esperienza. Abbiamo mantenuto la call for artist annuale, un segmento ereditato dal festival che per noi rimaneva importante perché aperto e partecipativo. Abbiamo modificato la modalità in cui interveniamo in strada: non ci annunciamo, non ci diamo scadenze, lavoriamo in maniera più progettuale e mirata, con la sensazione di essere sfuggite al tritacarne del festival e alle sue dinamiche non esattamente virtuose. Oggi siamo un laboratorio permanente, esprimiamo una visione più complessa, stiamo nello spazio pubblico con una consapevolezza diversa: la nostra azione è diventata più affilata.

In cosa consiste l’istallazione presentata a Short Theatre 2021?

L’installazione per Short Theatre riprende il concept di un’installazione già realizzata a Bologna, nel gennaio del 2020 durante la settimana di ArteFiera e Art City: avevamo aperto per 4 giorni uno spazio privato vuoto da anni, uno dei tanti presenti nel centro della città, un centro storico ormai carsico, dove gli spazi inutilizzati si moltiplicano a dispetto di un mercato immobiliare sempre in crescita e slegato dal piano del reale.

Per l’occasione avevamo ricoperto l’ambiente di coperte termiche, spesso il primo supporto che d’emergenza che le persone migranti ricevono dalle imbarcazioni di soccorso presenti nel Mediterraneo che ONG, associazioni e liber* cittadin* organizzano e finanziano per cercare di salvarci da questa follia dei respingimenti: le coperte sono un oggetto che è entrato nel nostro ipertesto visivo come simbolo di alcune forme di accoglienza, di solidarietà e di cura nei confronti di chi attraversa il mare e arriva sulle coste italiane, ai margini dell’Europa.

Lo spazio così allestito era diventato una scatola dorata, riverberante e luminosa, la cui superficie era ambigua, attraente e respingente allo stesso tempo, unheimlich. All’interno di questo set straniante, avevamo installato delle bandiere realizzate per l’occasione da alcune decine di artist*, a cui era stato chiesto come suggestione curatoriale di tentare di cortocircuitare le strutture di senso della bandiera, un supporto a cui solitamente è affidata una narrazione fatta di confini, identità nazionali e visioni post coloniali: le bandiere installate ci proponevano come corpi, come ponti, mai come muri, nello spazio fisico del temporary che già replicava un’immaginario di attraversamenti di frontiere, forse anche di frontiere come proiezioni, quindi di proiezioni da decostruire.

CHEAP Street Poster Art

Oggi riprendiamo questa conversazione iniziata a Gennaio del 2020, una dialogo reso intermittente dalla pestilenza che abbiamo vissuto subito dopo: portiamo a Roma per Short Theatre lo stesso concept, con un set adattato al contesto che ci ospita e ci viene chiesto di infestare.

Cambiano le bandiere che questa volta sono state selezionate tra i lavori di alcun* artist* che hanno partecipato alla call for artists annuale organizzata da CHEAP, un invito che rivolgiamo da anni a artist* visiv* internazionali alla realizzazione di poster che selezioniamo e affiggiamo nelle strade di Bologna: i poster, per l’occasione adattati a bandiere, sono di Angie Russo, Bbraio, Carol, Giorgia Lancellotti, Infinite, La Catrina, Laura Berdusco, Noe Gamma, Pamela Rotondi, Pride Off, Rita Colosimo, Valeria Quadri.

Possiamo definire RECLAIM YOUR FUTURE uno spazio di condivisione? L’arte ha bisogno di più esperienze di aggregazione?

Non sapremmo dire se all’arte va chiesto di fare aggregazione. Noi ci relazioniamo con il mezzo artistico anche per aprire dialoghi, data la specificità del nostro contesto di intervento: lavoriamo nello spazio pubblico, uno spazio in cui la cittadinanza è espressa, proiettata, performata; uno spazio che è vuoto se manca chi lo attraversa e lo abita, la condivisione è la conditio sine qua non del nostro agire.

È forse l’arte pubblica come quella di CHEAP una delle ultime forme di attivismo?

CHEAP agisce anche dell’attivismo. Nel nostro comune sentire, l’arte (contemporanea o meno) può anche questo: mettere in discussione lo status quo, esprimere conflitto, condividere visioni.

La nostra pratica ha in sé anche una dimensione politica: CHEAP agisce una riappropriazione dello spazio pubblico e lo fa infestando i muri di poster, ridefinendo nuovi linguaggi visivi contemporanei, generando inaspettati dialoghi con chi attraversa e abita l’ambiente urbano.

Nel nostro progetto scorrono energie femministe, desideri decoloniali e strategie contro egemoniche: dove la città oppone barriere sulla base del genere della classe e della razza, CHEAP pratica un conflitto simbolico facendo dell’arte pubblica (anche) un luogo di lotta.

CHEAP Street Poster Art
CHEAP Street Poster Art
CHEAP Street Poster Art

PH: Claudia Pajewksi

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Il futuro del fotogiornalismo: lo smartphone, ma non uno qualunque 

Il futuro del fotogiornalismo: lo smartphone, ma non uno qualunque 

Giulia Guido · 1 giorno fa · Photography

In una società in cui tutti hanno a disposizione un dispositivo in grado di fare foto, qual è il futuro del fotogiornalismo? È una domanda lecita quando, ogni giorno, qualsiasi notizia è correlata da fotografie o video realizzati da chiunque. Dovrebbe essere forse lo smartphone lo strumento dei fotoreporter? Sembra che, con il suo ultimo lancio, avvenuto a Berlino lo scorso 26 settembre, Xiaomi voglia dirci di sì. 

Si chiama Xiaomi 13T Pro il nuovo arrivato all’interno della gamma del colosso cinese della tecnologia e questa volta ha puntato tutto proprio sulla caratteristica che porta gran parte dei consumatori a scegliere un device, la fotocamera. Non lo ha fatto in sordina, però. Ha deciso di farlo con Leica, che da anni è al fianco di alcuni dei più conosciuti foto reporter di tutto il mondo. 

Noi abbiamo avuto la fortuna di testare la sua potenza di persona, ma per dimostrare a tutti che lo Xiaomi 13T Pro può davvero fare la differenza nel mondo della fotografia, Xiaomi ha chiamato un foto reporter e gli ha lanciato una sfida, realizzare un intero progetto con il loro nuovo smartphone. 

Giuseppe Nucci, foto reporter italiano e Istruttore di Leica Akademie, ha raccolto la sfida e con il suo Xiaomi 13T Pro è partito per la Maiella per raccontare l’entroterra e le montagne abruzzesi, il loro territorio e le persone che vivono questo piccolo gioiello italiano. Ha scelto questo luogo perché “tante mie storie partono dall’Italia interna, quella depopolata, quasi dimenticata, spesso abitata da chi tende a sopravvivere più che a vivere. Venendo da un paese e conoscendo la dinamica dei paesi e dei territori come questo cerco di raccontarli con la mia voce”, ci ha raccontato Giuseppe Nucci.

Fin dal primo scatto “mi hanno colpito la velocità operativa e la gestione della gamma dinamica – ha continuato il fotografo -, perché non è così facile per uno smartphone poter gestire delle scene che nel fotogiornalismo non sono settate, lavorando sempre con la luce naturale, che a volte è forte, a volte è debole o c’è molto contrasto”.

Basta uno sguardo veloce agli scatti di Giuseppe Nucci per percepire il livello qualitativo. “Abbiamo raccolto questa sfida per dimostrare che si può avere una narrativa utilizzando uno strumento che ognuno di noi può avere in tasca. Ovviamente è uno strumento pensato per un pubblico professionale, che ha nella qualità un punto di arrivo. L’experience che il fotografo ha è molto simile a quella che si ha mentre si usa la macchina fotografica”.

xiaomi

È a questo punto, dopo aver visto il risultato che si può ottenere con uno smartphone che ci siamo posti il quesito iniziale, qual è il futuro del fotogiornalismo? Tutti possono essere foto reporter? Lo abbiamo chiesto direttamente a Nucci che su questo argomento ha le idee molto chiare: “La differenza maggiore la fa chi sta dietro alla camera, the man behind the camera, la differenza è come ci sia approccia alla realtà, come si catturano le immagini. Quella che il foto giornalista ha è una differenza di approccio, si attiene a una determinata etica. Non tutti possono essere foto giornalisti, ma i foto giornalisti possono cominciare a pensare di poter lavorare con lo smartphone, soprattutto quando si ha a disposizione un oggetto come questo. Il lavoro che è stato fatto da Xiaomi e Leica è di un livello superiore, c’è stata tantissima attenzione alla fotocamera, all’ottica, al colore a come risulta essere il bianco e nero”.

Giuseppe Nucci è altrettanto convinto nel dire che la macchina fotografica non diventerà un oggetto obsoleto come i cd o le videocassette, ma che può e dovrà coesistere con i device più all’avanguardia aprendo nuove possibilità al foto giornalismo. 

A Berlino, in occasione del lancio di Xiaomi 13T Pro sono stati presentati anche i nuovissimi wearable Xiaomi Watch 2 Pro e Xiaomi Smart Band 8. Visita il sito di Xiaomi per scoprire tutte le caratteristiche di questi dispositivi. 

Ph courtesy: Xiaomi, Paola Mangiarotti

Il futuro del fotogiornalismo: lo smartphone, ma non uno qualunque 
Photography
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Lo straordinario quotidiano di Yosigo

Lo straordinario quotidiano di Yosigo

Giulia Tofi · 20 ore fa · Photography

Quando si inizia a provare interesse per la fotografia e a scattare, l’ambizione ci porta a voler realizzare fotografie belle da vedere. Accade sempre, accade a tutti. È così che comincia la ricerca ostinata di ciò che per definizione è ritenuto bello. C’è chi dedica un’intera carriera a questa indagine e chi invece sente il bisogno di spingersi oltre il tradizionale concetto di bellezza per trovare nuove sfumature. Tutto a un tratto non ci si chiede più «cos’è bello?», ma «cosa lo rende bello?». Una domanda decisiva perché è proprio a questo punto che entra in gioco un fattore fondamentale nella fotografia, la sensibilità di ciascuno nel cogliere il bello in un determinato soggetto rispetto a un altro o, per tornare alla domanda di prima, nel rendere bello un soggetto piuttosto che un altro. E se almeno una volta nella vostra vita avete preso in mano una fotocamera, immaginerete quanto sia difficile costruire diversi livelli di lettura in una fotografia, figuriamoci se il soggetto in questione appartiene al nostro quotidiano ed è considerato ordinario.

Una sfida, ma non per tutti. Basta un attimo infatti per capire che per José Javier Serrano, in arte Yosigo, non lo è mai stata perché è proprio nei luoghi che abitiamo da sempre e che la routine ci porta a guardare distrattamente che ha trovato i soggetti ideali per la sua ricerca. Nel suo caso si tratta della spiaggia di La Concha a San Sebastián, un punto di riferimento per chi come lui è cresciuto nella costa nord della Spagna, ma soprattutto il luogo in cui tutto ha avuto inizio. È proprio lì che Yosigo ha mosso i suoi primi passi nella fotografia e, ricordando la poesia scritta dal padre che lo incoraggiava a non fermarsi mai e ha poi ispirato il nome «Yosigo», letteralmente «vai avanti», ha raggiunto la consapevolezza di dover mettere fine al suo percorso come graphic designer per intraprendere quello come fotografo. 

Oggi quella stessa spiaggia e quello stesso mare fanno da sfondo a gran parte dei suoi scatti, questo perché con le sue foto José Javier vuole farci comprendere che non è tanto quello che si guarda, ma come lo si guarda, spingendoci così a cambiare il modo in cui vediamo un luogo nel tempo. Lui per primo, osservando La Concha quotidianamente, ha potuto approfondire la sua indagine fino a individuare degli schemi che si ripetevano: i bagnanti in riva al mare, i bambini intenti a giocare, i nuotatori, i fanatici di tuffi. Quel tempo gli ha poi permesso di scoprire che è esattamente dove la terra e il mare s’incontrano che le persone si lasciano andare, mostrando chi sono davvero e diventando più vulnerabili. 

E così, giorno dopo giorno, quelle persone che abitualmente passano inosservate sono diventate elementi fondamentali nella poetica di Yosigo e hanno trovato spazio nelle sue meticolose inquadrature – figlie indiscusse del suo passato da graphic designer – dove l’equilibrio tra pieni e vuoti è perfettamente studiato. Ripresi da soli o in gruppo, vediamo i bagnanti intrecciarsi al paesaggio che stanno momentaneamente invadendo, diventando macchie di colore nell’azzurro del mare e nell’ocra della sabbia rovente. 

A caratterizzare ulteriormente le sue fotografie sono infatti i colori pastello che enfatizzano le qualità formali dei soggetti e l’utilizzo la luce che trasforma di volta in volta la spiaggia di La Concha. Questa commistione di colori e luci dà poi vita ad atmosfere sospese, al di là del tempo, che portano gli occhi dell’osservatore a scovare, nascosta nei paesaggi più comuni, una bellezza inedita che da un lato ritrae fedelmente la società contemporanea, dall’altro si lascia plasmare dalla sua personale percezione di quegli spazi. E chissà, forse è per questa ragione che il fotografo spagnolo ha confessato di non riuscire ad allontanarsi da quella spiaggia, da quel mare.

Ph Credits Yosigo

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Marta Blue e l’Anatomia del Male 

Marta Blue e l’Anatomia del Male 

Giorgia Massari · 53 minuti fa · Photography

Quando si parla di Male, non si può far altro che parlare anche di Bene. Un’antitesi indagata fin dai tempi più remoti. Da un punto di vista metafisico, filosofi come Platone e, molto tempo dopo, George Wilhelm F. Hegel, consideravano il Male come totale negazione del Bene. Altre scuole di pensiero, come quella di Thomas Hobbes o Immanuel Kant, introducono invece il soggettivismo, ponendo il Bene e il Male nella sfera dell’esperienza umana. Non sono realtà indipendenti, ma si sviluppano sulla volontà, o meglio, sul desiderio umano. Da un punto di vista letterario, è significante in questo discorso citare il poeta italiano Giacomo Leopardi e la sua affermazione «Tutto è male» ovvero tutto è ordinato dal Male. O ancora di più, una prova di estremizzazione la dà Ugo Foscolo che, ne Le Ultime lettere di Jacopo Ortis, conduce il protagonista a reagire al Male negandogli ogni possibilità di Bene. Il suicidio diventa qui un atto positivo, di estrema libertà. 

Se filosofi, letterati e poeti hanno provato a concretizzare in forma scritta due entità tanto astratte quanto tangibili, la fotografa Marta Blue prova invece a restituirne un’immagine, più precisamente, un’anatomia. Il suo linguaggio oscuro e surreale, a tratti esoterico, riflette sul rapporto tra la vita e la morte, tra l’amore e il dolore e, ancora di più, tra la natura e l’occulto. È evidente come Marta Blue scelga di ricercare quanto più un’anatomia del Male, che non prescinde dall’esistenza del Bene, ma ne esalta la sua stessa negazione. Attraverso una serie di scatti che la vedono spesso come protagonista, la fotografa rincorre ossessivamente la natura del Male, ricercandola nella materia del corpo, negli ossimori e nelle simbologie. Secondo Marta Blue, il Male risiede nell’intimo, nei dolori subiti e inflitti, che cullano a ritmo costante l’esistenza umana. L’impassibilità dei soggetti, talvolta trafitti, talvolta segnati da un precedente dolore, contribuisce a creare un forte contrasto che comunica una diffusa atrofizzazione nei confronti del Male. Immobili, non curanti, i soggetti osservano il dolore defluire, pronti ad accoglierne una nuova dose.

Marta Blue ragiona sul concetto di Male inteso come oscurità. «Letteralmente significa mancanza di luce.» – riflette la fotografa – «Con il tempo ho capito che non posso produrre un concetto migliore di questo. Non posso lavorare sulla gioia di vivere se so che esiste un limbo nella nostra mente, una zona d’ombra, che contiene tutte le nostre paure. Una zona indefinita tra buio e luce, dove tutti i nostri peggiori incubi si confondono». La serie Anatomy of Evil diventa una sorta di archivio emozionale, intimo e personale, in cui Bene e Male coesistono, si sfiorano, quasi corteggiandosi, fino ad amalgamarsi in un’unica immagine. «La solitudine, la morte e la paura dialogano con temi ingenui come la giovinezza, l’occultismo e la seduzione». Il confine tra piacere e dolore, tra amore e odio, si fa labile. Il fiore, spesso ricorrente negli scatti di Marta Blue, esplicita al meglio questo concetto. Se da un lato il gambo della rosa trafigge il ventre, come si osserva in Forget me not, o le labbra, come in Circle of Love, dall’altro la sua forte accezione positiva e la sua simbologia di rinascita “spezzano” la funzione occupata, diventando un prolungamento del corpo, in un atto di liberazione. 

Nelle opere di Marta Blue il Male va ricercato su due piani, spesso inconsci. Il primo è astratto, intangibile, dalle molteplici manifestazioni, come l’assenza e la non-presenza, che diventa percepibile solo attraverso l’anima. Il secondo invece è visibile, materico. Emerge dalle viscere e si esplicita attraverso innesti sottocutanei che l’artista tenta di rimuovere, inserendo strumenti chirurgici. In entrambi i casi, Marta Blue tenta di trasporre, e allo stesso tempo di liberare, timori e ansie intrappolate nella psiche umana, creando segni e anatomie tanto surreali e oniriche quanto reali e condivise.

Courtesy Marta Blue

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Damon Baker: il segreto è l’empatia

Damon Baker: il segreto è l’empatia

Anna Frattini · 3 giorni fa · Photography

Damon Baker è famoso per i suoi celebrity portrait, ma al fotografo inglese non piace accostare la sua fotografia alla celebrity culture. I personaggi famosi che ritrae non sono altro che esseri umani, amici e persone con cui instaura una connessione vera. Sembra essere questo il dono di Damon: leggere dentro l’anima dei suoi soggetti riportandone la genuinità attraverso la forza empatica dei suoi scatti.

Ogni progetto scattato da Damon Baker è una storia. La grande forza comunicativa del fotografo si accosta a una vera e propria vocazione per lo storytelling. «Danzo con il mio soggetto, metaforicamente», dice Baker riferendosi alla genesi dei suoi lavori, per ottenere due versioni della stessa storia dentro i suoi scatti. Anche le dipendenze e le esperienze del fotografo relative a questo tema doloroso hanno un loro spazio all’interno degli scatti – a partire dalle atmosfere cupe che ritroviamo sullo sfondo di molte fotografie – lanciando un messaggio di rinascita e apertura.

Nella serie “There’s Something Beautiful”, uno degli scatti più potenti è quello dove il soggetto dorme abbracciato da un maglione in mohair, un elemento che Damon dice provenire proprio dal suo armadio, un pezzo di abbigliamento che lo fa sentire al sicuro. È proprio in questa fotografia che si riconosce tutta la forza empatica del fotografo, infallibile nel raccontare le emozioni dei suoi soggetti, chiunque essi siano.

Nelle fotografie c’è moltissimo anche di Baker stesso, soprattutto quando cerca il modo di raccontarsi attraverso i suoi soggetti. Prima scattando i soggetti in momenti di euforia o esaltazione, poi in momenti di vulnerabilità. La sua ricerca parla del modo di vedere il mondo e di salute mentale secondo la lente di un fotografo in grado di guardarsi e guardare dentro.

ph. courtesy Damon Baker

Damon Baker: il segreto è l’empatia
Photography
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