CTM Festival 2020: music beyond borders


CTM Festival 2020: music beyond borders


Collater.al Contributors · 3 anni fa · Art

L’edizione 2020 del CTM Festival celebra ed evolve il concetto di liminalità, ibridizzazione e trasgressione considerando comprensivamente questi concetti né come autoesplicativi né esaustivi.
Il Festival –  fortemente improntato su musica e arte contemporanea –  offre innumerevoli spunti per espandere le considerazioni ben oltre queste discipline evolvendo il concetto stesso di confini – nella loro accezione legata a sfaccettate pratiche e rituali sociali, così come esperienze estetiche, psichedeliche e trasformative.

Gli spazi liminali sono per definizione zone (e idee astratte) i cui limiti e scopi restano incerti; cosa significa godere con consapevolezza di una performance musicale nei sui picchi e nei sui limiti? Cosa significa interpretare arbitrariamente l’arte? Cosa rappresenta vivere a 360° un’esperienza di clubbing? Può forse essere esaustivo nell’interpretazione esaminare chirurgicamente in anticipo line-up e performers o la chiave è immergersi genuinamente in un viaggio scevro da preconcetti?

Sulla base di queste riflessioni preliminari, è iniziata la mia esperienza al CTM 2020 di Berlino.

L’acclamata serie HBO Chernobyl è diventata celebre anche grazie alla sua impressionante colonna sonora – a cura dell’artista islandese Hildur Gudnadottir.
I suoni, catturati da una vera e propria centrale elettrica (Ignalina – Lituania), includono reattori, turbine, pompe e generano un costante senso di ansia e allucinazione.
Bethonalle – Silent Garden, un ex forno crematorio (che ha operato per soli 6 mesi prima di esser definitivamente chiuso) si conferma una venue austera e più che mai calzante per questo tipo di performance.
L’intera esperienza è stata impreziosita da strumentazioni acustiche, field recordings e da un sapiente light design combinato a effetti fumo stranianti.

È già stato scritto pressochè tutto sul Berghain: dalle fantomatiche teorie circa le strategie di selezione dei bouncers, alle descrizioni del club come un incantato universo black denso di scale, angoli bui e posti nascosti. Puoi fare tutto ciò che vuoi in questo club e comunque nessuno lo saprà – semmai fosse una fonte di preoccupazione.
Ad ogni modo, giovedì sera, la lineup proponeva una serata di clubbing dalle venature techno piuttosto soft.
Ho trovato interessante la percezione che ogni persona, trovandosi e perdendosi in questi enormi spazi ambigui, trovi sé stessa in maniera più chiara; mi è parso che un non-luogo altamente precario tra un passato non afferrabile e un futuro in costante divenire possa aiutare a stimolare immaginazione e libertà – anche questa è liminalità, forse.

Interstial Spaces

Le proposte artistiche presentate in questa mostra aprono a interpretazioni sottili e – per certi versi – contrastanti: i luoghi, anche più intimi – intesi come veri e concreti – possono produrre una coesistenza senza alcuna ambiguità? Che genere di esperienza sarà per due persone sconosciute ascoltare un vinile – su un divano di casa – con due cuffie distinte? Isolamento, condivisione, liminalità?
Questa mostra pone la questione del tema centrale di CTM Festival oltre i margini delle stessa musica attraverso un’accurata selezione di atmosfere distinte e stanze immersive.

Inferno

Tra le teorie catastrofiste sul ruolo nefasto della tecnologia e del controllo, gli artisti Louis-Philippe Demers e Bill Vorn immaginano e producono “Inferno,” una rappresentazione robotica partecipata che riproduce l’esperienza dell’inferno e della punizione. Solleticando tutte le ansie riguardanti la relazione tra uomo e tecnologia rinegoziandone i confini; “Inferno” immagina una punizione infinita imposta come costante automazione e subordinazione alle macchine, offrendo ai partecipanti la sperimentazione e l’eccitazione di questa sottomissione. I presenti, una volta indossato un esoscheletro di 20kg, restano in controllo parziale del proprio corpo. Potremmo definire quest’esperienza come un momento liminale assimilabile al Purgatorio; l’appannata prospettiva di salvezza  crea un seducente ed ambigua prospettiva al di sopra delle teste dei partecipanti, sottomessi volontariamente allo spettacolo della sofferenza. 

La seconda notte al Berghain è caratterizzata da una line-up fitta di nu-gabberismi, evoluzioni drum’n’bass, suoni a metà tra l’ansia e l’estasi, il panico e l’after arricchiti da esplosive connessioni multi-genere; decisamente suggestiva la commistione tra l’ugandese Nyege Nyege Festival e CTM: Gabber Modus Operandi assieme a Wahono (di Uwalmassa, un progetto con sede a Jakarta che esplora le connessioni tra elettronica contemporanea e suoni indonesiani tradizionali), e l’ugandese Nakibembe Xylophone Troupe, uno dei rari gruppi rimasti a performare ancora con l’embaire – rarissimo e gigante xilofono in legno suonato contemporaneamente da 8 musicisti.

You Will Go Away One Day But I Will Not

Attraverso questa  avvolgente installazione all’interno di un orto botanico tropicale, Alves e Dalt tentano di dar spazio alla moltitudine di voci della foresta, organiche e non organiche, umane e non umane, speculative e naturali – offrendo un’esperienza dall’impatto politico e culturale non banale: dar voce al ruolo delle comunità più silenziose e controverse.
L’interrogativo sotteso è la comprensione se sia sufficiente sperimentare questo genere di esperimenti politici in uno spazio liminale senza che confluiscano in (in)tangibili utopie? 

Transmediale – The Eternal Network

The Eternal Network è il gruppo di opere principali di Transmediale riguardo all’esistenza e persistenza del ruolo dei network, con un’angolatura sui potenziali limiti in risposta alle correnti sociali e ai cambiamenti tecnologici.
In tempi di turbolenza ambientale e politica, i network hanno perso il loro appeal a larga gittata diventano fulcro di reazioni contrastanti: blackout, propaganda, discorsi d’odio, dipendenza e il desiderio umano di svincolarsi dalle piattaforme attraverso cui il capitalismo sorveglia e ordina.
Ciò nonostante i network hanno una certa ubiquità al di là della tradizionale definizione: la mostra investiga su come effettivamente rispondere ai futuri modelli di socialità, tecnologia e politica; tra le varie opere viene tratteggiato un loop tra i momenti pre e post-internet attraverso una disamina sulla rilevanza emancipatoria del futuro ruolo dei network.

CTM 2020 – come dallo stesso Festival sottolineato – si getta a capofitto in un limbo di stimolanti (e speranzose?) discussioni critiche sul presente e sui possibili futuri.
Attraverso il concetto di liminalità si viene inevitabilmente catapultati in zone grigie a metà di una presunta chiara linea di demarcazione.

Al termine di questi intensi giorni a Berlino – mi sento come fossi esattamente in un terreno di mezzo. Tra l’ambivalenza di presente e futuro e la perpetua evoluzione, fluttuando senza alcuna assicurazione né certezza – un filo frastornato.
Come e in quale forma emergeremo da tutto questo? Cosa e chi incontreremo nel nostro percorso? Esiste altro oltre questa zona liminale?
Ci sentiamo al gate di Berlino-Tegel come forme volteggianti, menti e copri allo stesso rigenerati e deflagrati dal presente, dal futuro.

CTM Festival | Collater.al 3

Testo di Marco Gardenale
Pictures by CTM

CTM Festival 2020: music beyond borders

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Brice Gelot, per l’amor di Dio

Brice Gelot, per l’amor di Dio

Tommaso Berra · 7 ore fa · Photography

Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società.
“For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista francese Brice Gelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.

Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano.
Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.

Brice Gelot | Collater.al
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
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I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

Giorgia Massari · 2 giorni fa · Photography

La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografa Tetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista.
Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.

Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 
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La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

Laura Tota · 2 giorni fa · Photography

Abitare un corpo, vuol dire percepirlo, riconoscersi ed essere riconosciuti. Significa sentirsi familiari verso se stessi e gli altri, rapportarsi al Mondo attraverso terminazioni nervose, adipe e sensi.
Il corpo è il centro nevralgico della nostra identità e volontà, e il nudo in particolare è stato a lungo uno dei soggetti preferiti dai fotografi sin dalla nascita del mezzo fotografico. Tuttavia, parlando di nudo maschile, la sua diffusione risulta inferiore, salvo alcuni casi particolari, poiché ritenuto meno interessante (se non addirittura disturbante) dal dominante “Male Gaze” (ovvero la raffigurazione dell’universo femminile, nelle arti visive e nella letteratura, da un punto di vista non solo maschile, ma eterosessuale, che rappresenta le donne come meri oggetti sessuali finalizzati alla mera soddisfazione del pubblico maschile). Solo dalla fine degli anni ’70, grazie alla nascita del movimento di liberazione omosessuale e del mercato pubblicitario, abbiamo assistito a una sua nuova nuova vita, capace di trasformare il corpo maschile in oggetto erotico e di contemplazione edonistica. 

 
 
 
 
 
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Ne sono un esempio gli iconici scatti di Robert Mapplethorpe, attratto dal nudo maschile sin dall’infanzia, che rievocano le nudità classiche e restituiscono dignità e bellezza a una categoria di persone considerate allora degradanti, o i più recenti ritratti del fotografo Florian Hetz che, attraverso serrati close up, immortalano la vera essenza e l’innata sensualità del corpo maschile.

Ed è proprio sul confine tra arte ed erotismo che si gioca la narrazione di “Bodies”, l’ultimo progetto di Francesco Paolo Gassi, giovane autore pugliese che nella sua pratica si confronta con la fisicità del corpo. Francesco è letteralmente ossessionato dalle imperfezioni e dalla naturalezza della sbavatura, lontana dai cliché estetici patinati: peli, pelle e fluidi corporei sono il suo terreno di gioco, dettagli e particolari i suoi punti di vista preferiti. Si muove con attenzione attorno al corpo maschile, ovvero ciò che è per lui più familiare, ma che allo stesso tempo è stato a lungo motivo di vergogna da parte di una comunità cui ha dovuto per anni nascondere la propria sessualità.

Arte, pornografia e tassonomia dialogano nello spazio fotografico. Le pose, studiate meticolosamente, proprio come l’illuminazione e la relazione del corpo con lo spazio, suggeriscono e alludono a un’erotizzazione del corpo che non è mai esplicita, orientano l’anatomia umana per enfatizzare l’insignificante e il banale, elevandolo a oggetto del desiderio. Il suo è un approccio quasi scientifico che, attraverso l’immagine fotografica, mira a rendere eterna la materia organica di cui l’uomo è costituito e a raggiungere l’essenza di ogni soggetto ritratto.
Così, i corpi maschili diventano il terreno da gioco ideale su cui rinegoziare l’identità, scevra da sovrastrutture sociali e libera da condizionamenti, presentata all’occhio dell’osservatore nella sua totale, disturbante e ambivalente autenticità. Il progetto abbina fotografie digitali a istantanee: nell’unicità di una polaroid si perpetua infatti l’irripetibilità del corpo, così come nella qualità dell’immagine digitale si riflette ogni singolo dettaglio della specificità epidermica di ogni corpo fotografato.

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi
Photography
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 3 giorni fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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