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Nei paesaggi mozzafiato del Kenya, compaiono due meravigliose e gigantesche opere di Saype, pioniere della land art. Un drone ci permette di ammirare le due figure infantili che, in quella che appare come una visione a metà tra la realtà e la fantasia, si inseriscono all’interno di un paesaggio lunare. Le opere sono concepite da Saype per Swatch, che sceglie l’artista in occasione del lancio della nuova collezione Bioceramic MoonSwatch.
Le opere raffigurano due bambini stupiti e curiosi nei confronti dell’universo. La bambina disegna il mondo con un gessetto, il bambino punta una torcia verso il cielo. Le due figure sono connesse tra loro, infatti, se guardate dall’alto, si nota che i due bambini sono rivolti l’uno verso l’altro. D’altronde, la visione aerea è l’unica che ci permette di poterne fruire. Le opere hanno dimensioni stupefacenti: la bambina è alta 60 metri e larga 120, mentre il bambino è alto 120 metri e largo 50. Ma la particolarità delle opere di Saype, oltre alla loro larga scala, è senza dubbio la fugacità. I bellissimi “affreschi” sono infatti realizzati direttamente sul terreno con materiali ecosostenibili creati dall’artista stesso. L’origine biologica dei pigmenti rende le opere temporanee. Sensibili agli agenti atmosferici, possono essere cancellate rapidamente da un temporale o da un forte vento. Questo è quello che è accaduto alle due opere del Kenya. I due bambini, “His Bright Dream” (Il brillante sogno di lui) e “Her Bold Dream” (Il sogno audace di lei), poco dopo la realizzazione sono stati cancellati da una pioggia imprevista, sopravvivendo solo nelle fotografie scattate dai droni.
Saype, ispirato all’universo evocato dalla Bioceramic MoonSwatch, omaggia la magia dello Spazio, da sempre di grande fascino e mistero per l’uomo. Lui stesso afferma: “E anche se, grazie alla scienza, il cielo non è più il tetto divino ma la vertigine dell’infinito, la magia è rimasta intatta. È nel bel mezzo dei paesaggi lunari del Kenya che ho scelto di esprimermi, in un luogo talmente surreale da far perdere ogni punto di riferimento terrestre”.
Copyright © Saype 2023
Courtesy Saype and Swatch
Avete mai sentito la parola Yoni? Probabilmente i più spirituali di voi sì. Yoni è infatti il termine sanscrito (lingua sacra e antica dell’India) che si riferisce ai genitali femminili, ma non solo, più in generale indica un luogo sacro che veniva associato proprio alla vagina, culla primordiale da cui ha origine la vita. Oggi parleremo della forte simbologia che da millenni è custodita nell’organo femminile e della sua rappresentazione nel corso dei secoli. Come siamo passati da una venerazione della vulva a una sua totale censura? Come siamo arrivati oggi a pseudo liberare la vulva dai riferimenti sessuali?
Facendo un salto molto indietro nel tempo, arrivando al Paleolitico e al Neolitico, ci accorgiamo di come la rappresentazione femminile, legata alla fertilità, appaia ben prima rispetto a quella maschile. Per gli antichi indiani la Yoni, ovvero la vulva sacra, era oggetto di venerazione. Le incisioni murarie della Yoni, scolpite sulle rocce e rappresentate da un triangolo con la punta verso il basso, sono tra le più arcaiche manifestazioni umane di sacro. La più antica e conosciuta è senza dubbio la Venere di Willendorf del 24.000 a.C. – nel 2018 diventata tema di scandalo perché Facebook, considerandola un’immagine pornografica, la rimosse dalla piattaforma – in cui è ben visibile la vulva sacra.
Per secoli dunque la Yoni è stata venerata in diverse culture, soprattutto da quelle orientali, ma con la nascita di nuove religioni di stampo patriarcale, queste pratiche divennero minori, segrete e acquistarono una componente esoterica. Soprattutto in Occidente, con la nascita del Cristianesimo, assistiamo a una completa censura della yoni e, più in generale, del corpo femminile in un’ottica sessuale. Ci toccò aspettare il trascorrere di lunghi secoli di oppressione femminile, per giungere a una pseudo liberazione della simbologia della yoni, o vulva, o vagina. Ora non più associato a qualcosa di proibito, da tenere nascosto per pudore, ma associato invece alla femminilità e alla forza della vita.
Un momento di svolta avvenne sul finire dell’Ottocento con una serie di scandali legati all’arte e alla rappresentazione dell’anatomia femminile. Basti pensare alla famosissima Olympia di Édouard Manet, che ritrae una prostituta completamente nuda, in una posizione fiera e sfacciata. Manet in quel periodo era diventato il re degli scandali, su tutti con l’opera Le déjeuner sur l’herbe. Attenzione, ciò non significa che fino ad allora i nudi femminili fossero inesistenti, anzi, ma erano tutti legati alla sfera divina (dee, ninfe, allegorie, vizi o virtù) o a quella mitologica, che rendevano il tutto più tollerabile. In Manet ad essere nuda è una donna comune, addirittura una prostituta. C’è da dire che nell’opera di Manet la nostra Yoni non si vede, il pittore pre-impresionista non azzarda del tutto ma mantiene un certo pudore, infatti la mano dell’Olympia compre i genitali.
Appena tre anni dopo, l’asticella si alza: Gustave Courbet rappresenta il primo piano di una vulva e la intitola L’origine del mondo (1866). La particolarità dell’opera è senza dubbio il suo potere seduttivo, che però si discosta da una sfera pornografica e maliziosa. Un momento privato e quotidiano viene mostrato in modo realistico al grande pubblico. L’opera è esposta al Musée d’Orsay di Parigi e testimonia come ancora oggi una nudità così esplicita possa destare un certo scandalo. Quasi 150 anni dopo, l’artista tedesca Rosemerie Trockel rielabora l’opera di Courbet, realizzando il fotomontaggio Replace me (2009) in cui i peli pubici sono sostituiti da una tarantola. La figura dell’animale, considerato mortale, crea un parallelismo tra la vulva e qualcosa di pericoloso, evidenziando come ancora nel nuovo millennio faccia “paura” parlare apertamente dei genitali femminili.
Possiamo dire che da Courbet, bisognerà attendere quasi cent’anni per assistere a una presa di posizione che porterà ad una liberazione della Yoni nella sfera visiva e nella cultura di massa. A partire dagli anni sessanta e settanta del ‘900, una serie di artisti, soprattutto donne, iniziarono a praticare performance, installazioni e più in generale a creare opere d’arte di ogni tipo, con protagonista la vulva. Il lato proibito venne rivelato. La vulva si svincola da riferimenti sessuali e diventa il veicolo di messaggi rivoluzionari in un’ottica femminista.
Partiamo con elencarne alcuni e a soffermarci sui più interessanti e singolari.
Nel 1965 l’artista Shigeko Kubota realizza il Vagina Painting, utilizzando la propria vagina per guidare il pennello e tracciare in questo modo linee rosse su un foglio di carta. Più recentemente, nel 2015, è l’artista svizzera Milo Moiré, in una posizione simile, a realizzare una serie di performance che prevedono la creazione di tele attraverso la caduta di uova colorate, espulse direttamente dalla sua vagina.
L’arte è sempre di più a servizio dell’emancipazione femminile, o meglio, la nostra yoni diventa strumento e soggetto di una serie di ricerche artistiche volte allo scardinamento di certezze patriarcali e maschiliste. In questo senso, non è più solo la rappresentazione del corpo o l’utilizzo dello stesso ad essere il protagonista, ma prendono piede diverse declinazioni, soprattutto legati a tabù come le mestruazioni. In quest’ottica è Judy Chicago nel 1971 a realizzare l’opera Red Flag, una foto-litografia che riprende una donna nell’atto di rimuovere il tampone insanguinato, successivamente anche Carolee Schneeman tratta del tema con la performance del 1983 dal titolo Fresh Blood: a Drewam Morphology, così come Tamara Wyndham che nei suoi Vulva Prints realizza impronte della sua vulva insanguinata.
Parlando di contemporaneità, sono molti gli artisti a realizzare illustrazioni e opere di ogni genere sul tema, oggi in maniera più libera, potendosi permettere un linguaggio più leggero, a volte ironico, a volte informativo. In questo senso è interessante citare il primo museo dedicato alla vagina, situato all’interno del Camden Market di Londra. Aperto nel 2019, il Vagina Museum celebra “qualsiasi persona con una vagina” con uno sguardo transfemminista e inclusivo, invitando soprattutto ad un’informazione accurata sul tema. Per l’occasione, l’illustratrice Charlotte Willcox realizza dieci illustrazioni divertenti e informative, con l’intenzione di sdoganare dei falsi miti. Sulla stessa scia, Hilde Sam Atalanta crea la pagina Instagram educativa @the.vulva.gallery.
La strada è ancora lunga ma, forse, un giorno riusciremo liberarci completamente dalla malizia, tornando a quella purezza che avevano i nostri antenati induisti nel concepire la forza della yoni. Intanto, continueremo a seguire tutti quegli gli artisti che la celebrano, rappresentandola nella sua bellezza e svelandone i “misteri”.
Siamo stati alla diciassettesima edizione del MI AMI all’Idroscalo di Milano fra veterani del festival e nuovi arrivati insieme a molte sorprese. L’appuntamento di quest’anno è stato lanciato come una vera e propria caccia la tesoro per l’unitissima community del festival. Il MI AMI rivendica anche quest’anno la propria vocazione come motore di cose nuove, accelleratore di incontri ed esperienze.
Una line-up infinita e costellata di artisti appartenenti a generi diversissimi fra cui i Verdena, L’Officina della Camomilla ma anche Ginevra con il suo pop elettronico. Imperdibili le performance di Lovegang126, Giuse The Lizia e Drast venerdì e Coez, Nayt e Mecna insieme ai Coma Cose e Fulminacci nella giornata di sabato insieme a Rondodasosa, per la sua prima data italiana dopo le controversie. Ci sono stati anche degli ospiti a sorpesa fra cui gli Ex Otago la prima sera, Willie Peyote sul palco con Fulminacci e Coez e Frah Quintale sul palco Dr. Martens.
Per altri scatti dal MI AMI qui il loro profilo Instagram.
Ph. courtesy Andrés Juan Suarez
Con un approccio foto-giornalistico, il fotografo Luca Marino ricerca l’assurdo delle situazioni. Nato a Londra da padre italiano e da madre colombiana, Marino è attratto da quei dettagli che spesso passano inosservati, “guardo dove nessun altro guarda” dice lui stesso. Tra le strade della grande metropoli londinese, Luca Marino realizza due progetti: “Oxford Street Paradox” e “Transport for London”.
Nel primo progetto – “Oxford Street Paradox” – è evidente quell’assurdo tanto ricercato dal fotografo, che, a tratti, inganna lo spettatore. Le fotografie catturano i passanti della via dello shopping più frequentata della città – Oxford Street – che appaiono totalmente deformati. Questo effetto non è realizzato in post produzione, Marino infatti scatta la superficie riflettente di un chiostro che crea buffe immagini alterate. Con ironia e leggerezza, il fotografo sfrutta questa “alterazione” naturale per sottolineare come le nostre abitudini di acquisto siano ormai diventate folli, al limite del compulsivo.
Anche nel secondo progetto – “Transport for London” – Luca Marino mostra ciò che spesso non viene guardato ma anzi, ignorato. In questo caso i protagonisti sono i dipendenti dei trasporti di Londra, dagli autobus alla metropolitana. Persone a cui non prestiamo attenzione ma che sono responsabili della viabilità cittadina. Ci permettono di spostarci da un lato all’altro della città, ma rimangono in penombra. Luca Marino, in collaborazione con l’azienda, entra a contatto con il lato nascosto della famosa Underground, fotografando i dipendenti nei loro uffici e nelle loro stanze adibite al riposo. Cattura momenti di pulizia, tra cui la santificazione delle carrozze durante il periodo di emergenza sanitaria dettata dal covid-19.
Ph Credits Luca Marino
Courtesy Luca Marino