Dondrapersayswhat – Uptown Funk Sung by The Movies
1 brano, 280 film, 541 parole, quelle che con cura certosina Dondrapersayswhat si è divertito a mettere a tempo.
Parliamo di Uptown Funk Sung by The Movie: 4 minuti e 28 di mashup da oscar con cui farsi i film. Preparate i popcorn e alzate il volume.
Buona visione.
Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società. “For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista franceseBriceGelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.
Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano. Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.
La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografaTetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista. Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.
Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.”
La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi
Abitare un corpo, vuol dire percepirlo, riconoscersi ed essere riconosciuti. Significa sentirsi familiari verso se stessi e gli altri, rapportarsi al Mondo attraverso terminazioni nervose, adipe e sensi. Il corpo è il centro nevralgico della nostra identità e volontà, e il nudo in particolare è stato a lungo uno dei soggetti preferiti dai fotografi sin dalla nascita del mezzo fotografico. Tuttavia, parlando di nudo maschile, la sua diffusione risulta inferiore, salvo alcuni casi particolari, poiché ritenuto meno interessante (se non addirittura disturbante) dal dominante “Male Gaze” (ovvero la raffigurazione dell’universo femminile, nelle arti visive e nella letteratura, da un punto di vista non solo maschile, ma eterosessuale, che rappresenta le donne come meri oggetti sessuali finalizzati alla mera soddisfazione del pubblico maschile). Solo dalla fine degli anni ’70, grazie alla nascita del movimento di liberazione omosessuale e del mercato pubblicitario, abbiamo assistito a una sua nuova nuova vita, capace di trasformare il corpo maschile in oggetto erotico e di contemplazione edonistica.
Ne sono un esempio gli iconici scatti di Robert Mapplethorpe, attratto dal nudo maschile sin dall’infanzia, che rievocano le nudità classiche e restituiscono dignità e bellezza a una categoria di persone considerate allora degradanti, o i più recenti ritratti del fotografo Florian Hetz che, attraverso serrati close up, immortalano la vera essenza e l’innata sensualità del corpo maschile.
Ed è proprio sul confine tra arte ed erotismo che si gioca la narrazione di “Bodies”, l’ultimo progetto di Francesco Paolo Gassi, giovane autore pugliese che nella sua pratica si confronta con la fisicità del corpo. Francesco è letteralmente ossessionato dalle imperfezioni e dalla naturalezza della sbavatura, lontana dai cliché estetici patinati: peli, pelle e fluidi corporei sono il suo terreno di gioco, dettagli e particolari i suoi punti di vista preferiti. Si muove con attenzione attorno al corpo maschile, ovvero ciò che è per lui più familiare, ma che allo stesso tempo è stato a lungo motivo di vergogna da parte di una comunità cui ha dovuto per anni nascondere la propria sessualità.
Arte, pornografia e tassonomia dialogano nello spazio fotografico. Le pose, studiate meticolosamente, proprio come l’illuminazione e la relazione del corpo con lo spazio, suggeriscono e alludono a un’erotizzazione del corpo che non è mai esplicita, orientano l’anatomia umana per enfatizzare l’insignificante e il banale, elevandolo a oggetto del desiderio. Il suo è un approccio quasi scientifico che, attraverso l’immagine fotografica, mira a rendere eterna la materia organica di cui l’uomo è costituito e a raggiungere l’essenza di ogni soggetto ritratto. Così, i corpi maschili diventano il terreno da gioco ideale su cui rinegoziare l’identità, scevra da sovrastrutture sociali e libera da condizionamenti, presentata all’occhio dell’osservatore nella sua totale, disturbante e ambivalente autenticità. Il progetto abbina fotografie digitali a istantanee: nell’unicità di una polaroid si perpetua infatti l’irripetibilità del corpo, così come nella qualità dell’immagine digitale si riflette ogni singolo dettaglio della specificità epidermica di ogni corpo fotografato.
La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi
Photography
La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi
La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa daneseLise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.
Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri. Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.