Creators – Le residenze futuristiche e le installazioni immersive di Cyril Lancelin

Creators – Le residenze futuristiche e le installazioni immersive di Cyril Lancelin

Claire Lescot · 5 anni fa · Design

Giganti nodi di gomma rosa dove le linee sembrano non toccarsi mai, vertiginose piramidi di palloncini, sfere composte da donuts e residenze futuristiche.

Per tutto questo c’è bisogno di una fervida fantasia ed audacia, qualità che l’architetto/artista Cyril Lancelin (fondatore dello studio ‘Town And Concrete’) ha chiaramente in abbondanza. La sua mente visionaria e creativa non ha confini, come non hanno confini i suoi spazi domestici privi di corridoi nei quali non si comprende il limite tra interno ed esterno.

Cerchi, triangoli e quadrati: forme elementari che acquistano volume e si moltiplicano. Una ripetitività che ritroviamo anche nelle installazioni, nelle quali ci si sente immersi, a livello visivo e tattile, in una geometria armoniosa dalla quale si viene piacevolmente disorientati.

Abbiamo parlato con Cyril prima dell’inaugurazione della sua ultima mostra: ‘’Sphere’’, aperta fino al 29 di aprile presso la galleria MR80 di Parigi

La progettazione parametrica per noi è: ‘’La ricerca della bellezza che c’è nella giusta proporzione’’. Perché l’hai scelta per i tuoi edifici e le tue installazioni?
Quando progetti un edificio o un’installazione la cosa importante, al pari dell’avere un’idea originale, è la ricerca della giusta scala. Il solo modo per trovarla è fare delle prove. Con la progettazione parametrica posso fare 50 tentativi quando prima potevo farne al massimo 5 . Tu decidi le regole e poi cambi la scala, la forma ed i parametri. In questo modo posso progettare cose che prima potevo avere solo nella mia testa.

Stessa scelta progettuale per la tua casa di Lione?
Si, l’ho progettata in modo che fosse aperta sul giardino, mantenendo alcuni muri e trovando il giusto equilibrio tra interno ed esterno. Ho voluto che da ogni spazio si potesse vedere la stanza accanto ed ho cercato di rendere la struttura il più semplice possibile.

Oltre ad essere architetto sei anche un’artista. Qual è stata la motivazione che ti ha fatto iniziare con l’arte?
L’arte ti permette di sperimentare idee con più libertà rispetto alla costruzione architettonica, nella quale si è più vincolati dal costo dettato dal cliente. Nell’arte non è necessario avere un cliente e puoi proporre idee senza restrizioni. Immagino installazioni o “immagini” di installazioni senza vincoli. L’installazione può rimanere nello stadio dell’immagine o essere realizzata, l’idea in questo modo è viva. Ho iniziato facendo molte ricerche e pubblicando alcuni progetti prima che venissero costruiti per ottenere un pre-feedback. In questo modo si ha meno pressione ed anche il tempo di fare degli aggiustamenti. La fortuna è che molti dei miei lavori, dopo la pubblicazione, hanno preso vita.

Quale filosofia c’è dietro le tue installazioni immersive?
Cerco un’esperienza spaziale. La transizione da uno spazio all’altro dev’essere come una scoperta. Il visitatore si interrogherà sui suoi movimenti all’interno dell’installazione.

Da cosa sei stato influenzato ultimamente?
Mi piacciono i classici. Ultimamente sono stato a Marfa in Texas per visitare la Donald Judd Foundation, è stata veramente una grande esperienza. Navigo su molti siti web, leggo molte riviste per avere influenze da campi differenti e scoprire nuovi artisti.

Ci sono tendenze che segui?
Mi guardo intorno a 360° ma in particolare amo le installazioni immersive.

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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 5 ore fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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Diego Dominici e il velo di Maya

Diego Dominici e il velo di Maya

Giorgia Massari · 4 giorni fa · Photography

Un velo delicato, quasi trasparente e impercettibile, fluttua davanti ai nostri occhi e filtra la realtà, che diventa soggettiva e mai assoluta. Il filosofo Schopenhauer lo chiamava “il velo di Maya”, quell’impedimento che vieta all’uomo di fare esperienza del reale, che ci illude di conoscere la Verità. Il fotografo Diego Dominici lo pone tra lo spettatore e i suoi soggetti, trasformandolo in effettivo protagonista delle serie Atman e Red Clouds. Le figure – uomini e donne – sono intrappolate nel velo, lottano con esso tentando di evadere, aggrappandosi con forza, cercando di penetrarlo, in altri casi invece lo accolgono, adagiandosi e uniformandosi alla sua morbidezza che persuade. Allo spettatore è permesso solo intravedere le forme dei loro corpi nudi e le loro ossa impresse sulla superficie, in una danza di luci e ombre che trasmettono sensualità e solitudine allo stesso tempo.


Diego Dominici tenta di rompere la bidimensionalità della fotografia, creando due piani di profondità: quello dettato dal tessuto e dalle sue increspature e quello in cui è posizionato il soggetto. L’occhio dello spettatore è portato a muoversi continuamente sulla superficie, cercando di superarla e raggiungere così il soggetto e le sue forme dunque, in altre parole, la Verità.
L’analogia con la psicologia umana è dichiarata dal fotografo che vuole “squarciare la bidimensionalità per indagare i grovigli dell’interiorità umana”. Come nei suoi scatti, l’uomo può scegliere di farsi cullare dal velo dell’illusione, farsi accarezzare da una fittizia realtà e rimanere fermo sul suo punto di vista, oppure può scegliere di romperla, raggiungendo così l’altro lato e guardare la realtà da un’altra prospettiva. Il tessuto, o meglio il velo, diventa l’emblema delle barriere relazionali, quegli ostacoli che si interpongono tra noi e gli altri, che ci impediscono di comprendere le ragioni altrui e che creano distanze incolmabili. Allo stesso tempo, il velo diventa parte di noi, una sorta di involucro che ci avvolge e ci plasma, impedendoci di andare oltre. Ma, come diceva Schopenhauer, il velo di Maya dev’essere abbattuto, squarciato come una tela di Fontana, l’uomo deve abbandonare l’involucro come un serpente che cambia la propria pelle, per potersi aprire all’altro. Del resto, cos’è l’amore se non “l’annullamento dell’ego, il crollo di ogni discriminazione cosciente e la rinuncia a ogni metodica scelta”? diceva Salvador Dalì ne La mia vita segreta. Le opere di Diego Dominici invitano quindi a una profonda riflessione intima ma, grazie alla sua estetica attentamente curata, possono anche semplicemente appagare la vista e apparire come opere sensuali, in cui il velo diventa un preludio al piacere intimo.

Diego Dominici | Collater.al
Diego Dominici e il velo di Maya
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Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Tommaso Berra · 4 giorni fa · Photography

Basta ascoltare le conversazioni che nascono dentro la propria testa a Cecilie Mengel per immaginarsi come potrebbero essere rappresentate fotograficamente. L’artista danese e ora residente a New York realizza scatti che sono dialoghi interiori nati dagli stimoli che lei stessa riceve da ciò che la circonda e dalle persone con cui si trova a vivere momenti molto quotidiani.
Il risultato è una produzione artistica che è contraddistinta da una forte varietà nei soggetti e nelle ambientazioni, così come nello stile, una volta documentaristico, altre volte più vicino a una certa fotografia posata e teatrale. Si passa da scatti rubati in casa durante una conversazione a dettagli di una latta di salsa Heinz trovata nel porta oggetti di un taxi, tutto ricostruisce una storia comune e quotidiana.
Anche la tecnica di Cecilie Mengel rispecchia questa stessa idea di varietà. L’artista infatti combina fotografia digitale e analogica, in altri casi la post produzione aggiunge segni grafici alle immagini. Le luci talvolta sono naturali altre volte forzatamente create con il flash, creando un senso d’insieme magari meno omogeneo ma ricco di suggestioni e raconti personali.

Cecilie Mengel è stato recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Cecilie Mengel | Collater.al
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Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
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Isabella Ståhl è tornata a Nord

Isabella Ståhl è tornata a Nord

Tommaso Berra · 5 giorni fa · Photography

Isabella Ståhl è una fotografa svedese che si è trovata a riscoprire i paesaggi della propria infanzia dopo aver viaggiato in tutto il mondo, partendo da Stoccolma fino a New York, Parigi e Berlino. Il Nord rappresenta il punto cardinale dal quale si è spostata inizialmente, tornando poi una volta affinata la propria maturità artistica, che le ha permesso di guardare sotto una nuova luce i paesaggi rurali e malinconici della propria infanzia.
Nelle foto di Isabella Ståhl a dominare è la natura con i suoi vasti campi e gli animali selvatici e selvaggi avvolti nella nebbia, che nasconde anche tutto il resto del paesaggio come una coperta bianca. La straordinaria solitudine delle composizioni e la malinconia che entra dritta negli occhi degli spettatori sono due tra le caratteristiche principali del lavoro di Ståhl, fotografa affermata che nel corso della sua carriera artistica ha collaborato con alcuni dei più importanti brand ed editori internazionali. La sua capacità non è solamente quella di saper costruire una storia dietro ai momenti che sceglie di scattare, ma anche restituire come delle sensazioni fisiche di calore, freddezza, dei brividi che rendono protagonisti tutti coloro che si fermano a guardare le fotografie.

Isabella Ståhl è stata recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Isabella Ståhl | Collater.al
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