Myth of the Flat Earth (il mito della Terra piatta) è una serie fotografica concettuale dal fotografo John Clang, ritratti di figure galleggianti in una piscina invisibile, metafora del tentativo di sopravvivere alle aspettative della società.
Clang esplora lo stato di essere contemporaneamente svegli e sognare, la tensione tra illusione e realtà, e un dialogo risultante tra diverse visioni e prospettive.
Un senso di paranoia pervade ogni scatto, le figure calpestano acque invisibili costantemente in lotta per rimanere a galla. Soggetti alla deriva nel flusso della vita, che arrancano tra la loro vita quotidiana e il loro subconscio.
«Ma che cosa ci farai con tutte le foto che mi fai, per il cimitero ne basta una sola, lo sai!» commenta la nonna della fotografaAlessia Spina, che l’ha resa protagonista indiscussa del suo ultimo progetto. Nonnetta è il titolo del progetto fotografico che segna il legame transgenerazionale. Un’esplorazione dell’intimità guidata da una nipote armata di macchina fotografica analogica, ancorata alla sua famiglia e alle tradizioni. Nelle fotografie di Alessia Spina, Nonna Elvira incarna l’essenza di tutte le nonne, e attraverso queste immagini, assistiamo a un tessuto di sguardi, risate, gesti, sapori, atti di cura e rituali quotidiani, ognuno pervaso da una profondità emotiva che sfida la cattura. Il progetto di Spina sarà in mostra a Milano dall’1 al 13 ottobre nella cornice del PhotoFestival in via Laghetto 2.
Nonna Elvira rappresenta non solo se stessa, ma tutte le nonne. Afferra la vita con entrambe le mani, assaporando le sue gioie e le risate. È un porto sicuro, proprio come la sua amata San Benedetto del Tronto, la sua città natale. È un cassetto pieno di bontà, da aprire quando necessario, quando fuori fa freddo e dentro fa male. È un deposito di ricordi, colmo dei sapori unici dei suoi cannelloni e di una fragranza che riempie la mente e il cuore, lenendo persino le ferite più profonde, proprio come la madeleine di Proust.
Nei fotogrammi catturati da Alessia Spina, assistiamo alla bellezza eterna del legame transgenerazionale, a un tessuto intessuto dai fili dell’amore, dei ricordi e dell’essenza della famiglia. Nonnetta non è solo un progetto fotografico; è una testimonianza del potere dell’amore e delle connessioni senza tempo che legano le generazioni.
Il tempismo è tutto. Lo sanno bene i fotografi street che passano ore ad aspettare il momento giusto per realizzare uno scatto sensazionale. Per creare una composizione che agli occhi del pubblico potrebbe sembrare “fortunata” e casuale. In realtà, dietro questi scatti c’è uno straordinario sincronismo tra occhio, mente e macchina fotografica. Oggi abbiamo selezionato cinque scatti per esplorare l’abilità di questi fotografi, testimoniando come abbiano saputo cogliere istanti fugaci che trasformano una semplice immagine in una storia senza tempo.
Quando si parla di Male, non si può far altro che parlare anche di Bene. Un’antitesi indagata fin dai tempi più remoti. Da un punto di vista metafisico, filosofi come Platone e, molto tempo dopo, George Wilhelm F. Hegel, consideravano il Male come totale negazione del Bene. Altre scuole di pensiero, come quella di Thomas Hobbes o Immanuel Kant, introducono invece il soggettivismo, ponendo il Bene e il Male nella sfera dell’esperienza umana. Non sono realtà indipendenti, ma si sviluppano sulla volontà, o meglio, sul desiderio umano. Da un punto di vista letterario, è significante in questo discorso citare il poeta italiano Giacomo Leopardi e la sua affermazione «Tutto è male» ovvero tutto è ordinato dal Male. O ancora di più, una prova di estremizzazione la dà Ugo Foscolo che, ne Le Ultime lettere di Jacopo Ortis, conduce il protagonista a reagire al Male negandogli ogni possibilità di Bene. Il suicidio diventa qui un atto positivo, di estrema libertà.
Se filosofi, letterati e poeti hanno provato a concretizzare in forma scritta due entità tanto astratte quanto tangibili, la fotografa Marta Blue prova invece a restituirne un’immagine, più precisamente, un’anatomia. Il suo linguaggio oscuro e surreale, a tratti esoterico, riflette sul rapporto tra la vita e la morte, tra l’amore e il dolore e, ancora di più, tra la natura e l’occulto. È evidente come Marta Blue scelga di ricercare quanto più un’anatomia del Male, che non prescinde dall’esistenza del Bene, ma ne esalta la sua stessa negazione. Attraverso una serie di scatti che la vedono spesso come protagonista, la fotografa rincorre ossessivamente la natura del Male, ricercandola nella materia del corpo, negli ossimori e nelle simbologie. Secondo Marta Blue, il Male risiede nell’intimo, nei dolori subiti e inflitti, che cullano a ritmo costante l’esistenza umana. L’impassibilità dei soggetti, talvolta trafitti, talvolta segnati da un precedente dolore, contribuisce a creare un forte contrasto che comunica una diffusa atrofizzazione nei confronti del Male. Immobili, non curanti, i soggetti osservano il dolore defluire, pronti ad accoglierne una nuova dose.
Marta Blue ragiona sul concetto di Male inteso come oscurità. «Letteralmente significa mancanza di luce.» – riflette la fotografa – «Con il tempo ho capito che non posso produrre un concetto migliore di questo. Non posso lavorare sulla gioia di vivere se so che esiste un limbo nella nostra mente, una zona d’ombra, che contiene tutte le nostre paure. Una zona indefinita tra buio e luce, dove tutti i nostri peggiori incubi si confondono». La serie Anatomy of Evil diventa una sorta di archivio emozionale, intimo e personale, in cui Bene e Male coesistono, si sfiorano, quasi corteggiandosi, fino ad amalgamarsi in un’unica immagine. «La solitudine, la morte e la paura dialogano con temi ingenui come la giovinezza, l’occultismo e la seduzione». Il confine tra piacere e dolore, tra amore e odio, si fa labile. Il fiore, spesso ricorrente negli scatti di Marta Blue, esplicita al meglio questo concetto. Se da un lato il gambo della rosa trafigge il ventre, come si osserva in Forget me not, o le labbra, come in Circle of Love, dall’altro la sua forte accezione positiva e la sua simbologia di rinascita “spezzano” la funzione occupata, diventando un prolungamento del corpo, in un atto di liberazione.
Nelle opere di Marta Blue il Male va ricercato su due piani, spesso inconsci. Il primo è astratto, intangibile, dalle molteplici manifestazioni, come l’assenza e la non-presenza, che diventa percepibile solo attraverso l’anima. Il secondo invece è visibile, materico. Emerge dalle viscere e si esplicita attraverso innesti sottocutanei che l’artista tenta di rimuovere, inserendo strumenti chirurgici. In entrambi i casi, Marta Blue tenta di trasporre, e allo stesso tempo di liberare, timori e ansie intrappolate nella psiche umana, creando segni e anatomie tanto surreali e oniriche quanto reali e condivise.
Quando si inizia a provare interesse per la fotografia e a scattare, l’ambizione ci porta a voler realizzare fotografie belle da vedere. Accade sempre, accade a tutti. È così che comincia la ricerca ostinata di ciò che per definizione è ritenuto bello. C’è chi dedica un’intera carriera a questa indagine e chi invece sente il bisogno di spingersi oltre il tradizionale concetto di bellezza per trovare nuove sfumature. Tutto a un tratto non ci si chiede più «cos’è bello?», ma «cosa lo rende bello?». Una domanda decisiva perché è proprio a questo punto che entra in gioco un fattore fondamentale nella fotografia, la sensibilità di ciascuno nel cogliere il bello in un determinato soggetto rispetto a un altro o, per tornare alla domanda di prima, nel rendere bello un soggetto piuttosto che un altro. E se almeno una volta nella vostra vita avete preso in mano una fotocamera, immaginerete quanto sia difficile costruire diversi livelli di lettura in una fotografia, figuriamoci se il soggetto in questione appartiene al nostro quotidiano ed è considerato ordinario.
Una sfida, ma non per tutti. Basta un attimo infatti per capire che per José Javier Serrano, in arte Yosigo, non lo è mai stata perché è proprio nei luoghi che abitiamo da sempre e che la routine ci porta a guardare distrattamente che ha trovato i soggetti ideali per la sua ricerca. Nel suo caso si tratta della spiaggia di La Concha a San Sebastián, un punto di riferimento per chi come lui è cresciuto nella costa nord della Spagna, ma soprattutto il luogo in cui tutto ha avuto inizio. È proprio lì che Yosigo ha mosso i suoi primi passi nella fotografia e, ricordando la poesia scritta dal padre che lo incoraggiava a non fermarsi mai e ha poi ispirato il nome «Yosigo», letteralmente «vai avanti», ha raggiunto la consapevolezza di dover mettere fine al suo percorso come graphic designer per intraprendere quello come fotografo.
Oggi quella stessa spiaggia e quello stesso mare fanno da sfondo a gran parte dei suoi scatti, questo perché con le sue foto José Javier vuole farci comprendere che non è tanto quello che si guarda, ma come lo si guarda, spingendoci così a cambiare il modo in cui vediamo un luogo nel tempo. Lui per primo, osservando La Concha quotidianamente, ha potuto approfondire la sua indagine fino a individuare degli schemi che si ripetevano: i bagnanti in riva al mare, i bambini intenti a giocare, i nuotatori, i fanatici di tuffi. Quel tempo gli ha poi permesso di scoprire che è esattamente dove la terra e il mare s’incontrano che le persone si lasciano andare, mostrando chi sono davvero e diventando più vulnerabili.
E così, giorno dopo giorno, quelle persone che abitualmente passano inosservate sono diventate elementi fondamentali nella poetica di Yosigo e hanno trovato spazio nelle sue meticolose inquadrature – figlie indiscusse del suo passato da graphic designer – dove l’equilibrio tra pieni e vuoti è perfettamente studiato. Ripresi da soli o in gruppo, vediamo i bagnanti intrecciarsi al paesaggio che stanno momentaneamente invadendo, diventando macchie di colore nell’azzurro del mare e nell’ocra della sabbia rovente.
A caratterizzare ulteriormente le sue fotografie sono infatti i colori pastello che enfatizzano le qualità formali dei soggetti e l’utilizzo la luce che trasforma di volta in volta la spiaggia di La Concha. Questa commistione di colori e luci dà poi vita ad atmosfere sospese, al di là del tempo, che portano gli occhi dell’osservatore a scovare, nascosta nei paesaggi più comuni, una bellezza inedita che da un lato ritrae fedelmente la società contemporanea, dall’altro si lascia plasmare dalla sua personale percezione di quegli spazi. E chissà, forse è per questa ragione che il fotografo spagnolo ha confessato di non riuscire ad allontanarsi da quella spiaggia, da quel mare.