Fino all’1 maggio 2023, la Fondazione MAST di Bologna ospita i progetti finalisti del “Mast Photo Grant on Industry and Work”, una selezione biennale di giovani fotografi che ha lo scopo di documentare e sostenere l’attività di ricerca sull’immagine, la trasformazione che essa induce nella società e nel territorio e il ruolo del lavoro per lo sviluppo economico e produttivo.
Gli spazi del MAST, aperto dal 2013, sono accessibili gratuitamente e presentano una serie di opere e interventi permanenti, cui sono associati progetti temporanei che analizzano la tematica del lavoro principalmente attraverso l’indagine fotografica.
Sotto la curatela di Urs Stahel, i cinque autori finalisti del Grant, portano negli spazi dell’istituto di ricerca un’analisi kaleidoscopica il cui campo di indagine si muove tra presente, passato e futuro della relazione tra lavoro, uomo e società.
Stahel spiega come lo sguardo di artisti più giovani costringa a “scontrarci con incongruenze, fratture, fenomeni e forse perfino abissi che finora avevamo trascurato o cercato di non vedere”.
Concentrare il campo di ricerca sul lavoro è sintomatico di quanto questo influenzi la vita delle generazioni che si sono succedute scuotendole nelle loro fondamenta: assistiamo negli ultimi 250 anni a una “Rivoluzione permanente”, evoluzione di quella “Industriale”, in cui l’innovazione si pone come paradigma da perseguire a tutti i costi e in cui si delinea una nuova figura, quella del “Lavoratore permanente”, che necessita di un apprendimento costante e continuativa, pena la sua stessa sparizione.
I progetti dei 5 lavori finalisti, esposti con un’impeccabile attenzione per i set up e gli allestimenti, affrontano i mutamenti che interessano la rapida trasformazione del mondo del lavoro.
Il poetico racconto di Keep the Light Faithfully e delle storie mancate/reali messe in scena dalla fotografa sudafricana Lebohang Kganye si realizza in un teatro di ombre cinesi esteticamente perfetto, grazie a un’illuminazione che avvolge sagome di personaggi comuni fotografati, ritagliati e applicati su cartone.
Dall’emozione si passa all’analisi chirurgica e precisa di Salvatore Vitale che in Death by GPS analizza il legame tra la gig economy e l’attività mineraria nella regione del Gauteng, in Sudafrica. Nell’allestimento, curato dall’exhibit designer Andrea Isola, il blu elettrico delle pareti ricorrente in ambito tecnologico, dialoga con i colori fluo delle cornici realizzate da una stampante 3d, richiamando così il mondo industriale e suggerendo una riflessione sul ruolo dell’uomo nello sperimentare l’avvento di una nuova rivoluzione tecnologica.


Visioni e analisi contrastanti che restituiscono una lettura dell’universo-lavoro, delineandone anche le evoluzioni nel tempo e l’influenza sul tessuto sociale e territoriale: ne sono un esempio il progetto vincitore di questa settima edizione, In Praise of Slowness di Hicham Gardaf e quello di Farah Al Qasimi.
Nel primo, l’elogio della lentezza diventa lo strumento analitico attraverso cui indagare le contraddizioni di Tangeri (città natale del fotografo) che vive una forte tensione tra la sua parte più prospera, florida e in espansione e il fascino antico del suo centro storico. Il ritmo lento e l’ampio respiro dell’allestimento restituiscono visivamente il passo calmo e riflessivo delle persone e dei venditori ambulanti che popolano il cuore della città marocchina, così come le tonalità calde scelte a corredo cromatico degli spazi.
Verte sul concetto di coesistenza invece, l’indagine di Red River Blues (Dearborn) di Farah Al Qasimi, che si concentra sulla grande comunità araba di Dearborn, nel Michigan, città natale di Henry Ford nonché sede storica della Ford Motor Company: anche questa realtà urbana mostra un carattere ibrido, espressione di due culture, quella araba e quella statunitense. L’autrice trasmette negli spazi allestitivi un sentimento di rinegoziazione continua delle identità culturali e territoriali attraverso un collage che ricorda la pittura murale urbana. Sono presenti le medesime sovrapposizioni e codificazioni personali e culturali, capaci di ridefinire continuamente la propria permanenza nel luogo.


Di impatto è il progetto di Maria Mavropoulou In their own image, in the image of God they created them. Il tema della relazione tra uomo e tecnologia è caro all’autrice greca che nel corso degli anni ha indagato e continua a indagare le modalità di creazione delle immagini attraverso le nuove tecnologie. Nel progetto, la fotografa ricorre all’intelligenza artificiale, inserendo una serie di prompt di testo in un algoritmo text-to-image: ‘Una struttura complessa e sofisticata di tubi, valvole, manometri, usati nelle raffinerie di petrolio’. Vengono così generate immagini che attingono a un database iconografico praticamente infinito. Una volta scelta l’immagine più idonea, Mavropoulou giunge al risultato finale moltiplicando le tessere, specchiandole, sdoppiandole e moltiplicandole fino a creare qualcosa che sia allo stesso familiare e perturbante per l’osservatore. I grandi formati delle stampe catapultano il visitatore all’interno dell’immagine, facendolo sentire parte di un ingranaggio meccanico e suscitando la riflessione sugli sviluppi futuri delle intelligenze artificiali in relazione al mondo del lavoro.
La mostra raccoglie anche i vincitori del Grant delle passate edizioni ed è visitabile gratuitamente fino all’1 maggio.
