Ancora fino all’11 marzo sarà possibile scoprire il lavoro dell’artista Mosa87 presentato nel nuovo negozio milanese di Spectrum. In occasione della mostra Collater.al ha chiesto all’artista cosa intenda per “neo-archeologia” e dell’apparente difficile rapporto tra graffiti art e street art, e della tendenza di quest’ultima ad essere diventata sempre più un fenomeno da galleria d’arte legandosi sempre meno alle strade.
1. La tua ricerca è strettamente legata alla scena underground e urban. Come ti sei avvicinato a questo mondo?
Ho iniziato a fare graffiti all’età di 13, 14 anni. Sono stato quindi affascinato molto presto da ambienti come la metropolitana, i luoghi abbandonati dalle grandi città. Per me la cultura urbana è la cultura dominante, è presente nella nostra vita e mi ispira quotidianamente. La tag è per definizione underground, perché realizzata da sconosciuti che non si preoccupano di fare soldi, in opposizione alla street art che vediamo ovunque oggi.
2. Qual è stato il tuo primo approccio all’arte? Ha iniziato subito con le bombolette spray sui muri della città come writer e street artist?
Il mio primo approccio è stato cercando di copiare ciò che vedevo per strada. A poco a poco ho capito le regole del gioco e ho iniziato a dipingere il nome Mosa sui muri.
3. La strada è il segno del nostro passaggio sulla Terra. La struttura stessa delle città riflette la nostra cultura, le nostre abitudini e il nostro progresso. Con la bomboletta spray lasci il tuo segno personale, cosa intende comunicare Mosa87 utilizzando questo stile?
Dipingere con la bomboletta spray è legato soprattutto al mio piacere personale. La linea, il corpo, il movimento sono gli interessi principali della mia pratica. Sono un tagger. Ciò che mi interessa è soprattutto il movimento, ed è per questo che ho voluto sviluppare un sistema coreografico intorno alla pratica del tag. Per molto tempo il mio interesse è stato quello di scioccare e di andare sempre oltre nei modi di scrivere il mio nome in ogni città del mondo. Ora ciò che mi interessa sono le tag politiche di natura sociale, che si distinguono dalla qualità estetica ma hanno un messaggio profondo, questa è una nuova apertura del mio lavoro.

4. Sappiamo che sei un artista eclettico. Oltre alle opere su muro, realizzi anche sculture, dipinti e video. Come scegli i diversi tipi di medium?
Viviamo in un’epoca in cui è facile trovare il mezzo di comunicazione più adatto a noi. Con questo intendo dire che le tecnologie ci aiutano a liberare la nostra creatività e io provo a utilizzare gli strumenti più in linea con le mie idee. Ci sono così tanti modi per trascrivere la nostra sensibilità che non voglio imprigionarla in una scatola.
Penso che sia importante che gli artisti della cultura underground siano in grado di liberarsi dai codici e di offrire al pubblico, soprattutto a quello dell’arte contemporanea, una visione più ampia, aperta e sensibile del mondo urban. Essere un tagger è una filosofia, è un modo di vivere molto completo e quindi quando entra nel campo dell’arte contemporanea deve riportare tutte le sfaccettature di questo ambiente poco conosciuto e per certi aspetti anche ostile. Gli street artist vorrebbero farci credere che fare street art sia divertente e cool, in realtà è l’opposto. Vagare per le strade di notte attraversare spazi abbandonati, incontrare tossicodipendenti, prostitute che bevono alcolici per scaldarsi non è cool.Voglio che la mia arte rifletta questa realtà e per farlo uso tutti i mezzi a mia disposizione per trascrivere questo modo di vivere e questa energia. Questo è ciò che voglio dare al pubblico, la visione di un adulto di 35 anni che vive nel 2023.

5. Cosa ne pensi del crescente fenomeno della street art che si sposta in luoghi più istituzionali come le gallerie?
Per me la street art è un cesto in cui mettiamo gli artisti che fanno graffiti, i pochoir, i muralisti… È un mosaico di diverse attività urbane. Molto spesso è utilizzata dalle istituzioni per descrivere un movimento mainstream. A causa della mia pratica di tagger, mi trovo in opposizione con certi valori, anche se ci sono molti punti in comune, come per esempio l’utilizzo degli stessi materiali e l’uso del corpo per dipingere su grandi pareti. Da parte mia ho cercato di evitare il più possibile di entrare in questo movimento. Quello che manca nella street art è il pensiero concettuale, la messa in discussione del movimento stesso e troppo spesso la mancanza di proposta estetica quando si passa dalla strada alla galleria. A mio avviso, troppi street artist e graffitari pensano che il loro passato di graffitari sia sufficiente a legittimare il loro status di artisti da galleria ma bisogna rinnovarsi mantenendo la propria etica, come tagger, per me la sfida è lì.

6. Che cosa intendi per neo-archeologia? Il titolo della serie di opere presentata a Milano nello store di SPECTRUM.
Neo-archeologia è una serie di sculture. L’idea è quella di trovare frammenti di oggetti nei luoghi abbandonati che attraverso mentre vado a taggare. Questi oggetti vengono poi riportati in laboratorio e trasformati per dare loro una nuova vita. Questa forma di archeologia contemporanea mi permette quindi di creare opere di fantascienza intorno agli oggetti e di poter così creare scenari che vengono ad alimentare il mio lavoro artistico. Storia, archeologia, fantascienza sono i temi centrali di questa serie di Neo-archéologia, a Milano presento la versione 3.0.
Neo-archéologia vuole essere un ciclo di lavoro, un metodo, un modo per rendere visibili e vivi i luoghi abbandonati soprattutto a causa della gentrificazione delle nostre città. È un modo per me di parlare di tag, patrimonio e, in ultima analisi, del rapporto con gli spazi delle nostre grandi città, nonché del rapporto con gli oggetti. È un processo di lavoro che mi permette di camminare per le strade di diverse città e di restituire la loro unicità, il mio modo di lavorare mi permette di adattarmi a ogni geografia, scoprire la cultura e l’eredità del nostro passato.
7. Puoi rivelarci qualcosa sul tuo prossimo progetto? Quale città vorresti “segnare” con una tua opera e perché?
Il mio prossimo grande progetto è una mostra personale a Parigi. Mi piacerebbe viaggiare in Sud America. Da quello che vedo, da quello che so, in questo continente ci sono una cultura e un’identità nazionale molto forte. È una regione del mondo che mi piacerebbe conoscere. Spero molto presto.
