Rainbow Roads, le strade arcobaleno di Daniel Mercadante
Daniel e Katina sono i TheMercadantes, una coppia di creativi a dir poco speciale di cui vi avevamo già raccontato le proprie meraviglie qui e qui.
Recentemente la componente maschile della coppia ha deciso di dare vita ad un piccolo progetto fotografico ancora in divenire, Rainbow Roads: nelle foto di Daniel, scie luminose dai colori arcobaleno diventano strade impossibili da non notare nel bel mezzo di luoghi naturali immersi nell’oscurità della notte.
Difficile dire dove ci potrebbero portare, più facile ammettere che la tentazione di scoprirlo è tanta.
IsabellaStåhl è una fotografa svedese che si è trovata a riscoprire i paesaggi della propria infanzia dopo aver viaggiato in tutto il mondo, partendo da Stoccolma fino a New York, Parigi e Berlino. Il Nord rappresenta il punto cardinale dal quale si è spostata inizialmente, tornando poi una volta affinata la propria maturità artistica, che le ha permesso di guardare sotto una nuova luce i paesaggi rurali e malinconici della propria infanzia. Nelle foto di Isabella Ståhl a dominare è la natura con i suoi vasti campi e gli animali selvatici e selvaggi avvolti nella nebbia, che nasconde anche tutto il resto del paesaggio come una coperta bianca. La straordinaria solitudine delle composizioni e la malinconia che entra dritta negli occhi degli spettatori sono due tra le caratteristiche principali del lavoro di Ståhl, fotografa affermata che nel corso della sua carriera artistica ha collaborato con alcuni dei più importanti brand ed editori internazionali. La sua capacità non è solamente quella di saper costruire una storia dietro ai momenti che sceglie di scattare, ma anche restituire come delle sensazioni fisiche di calore, freddezza, dei brividi che rendono protagonisti tutti coloro che si fermano a guardare le fotografie.
IsabellaStåhl è stata recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.
Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
Basta ascoltare le conversazioni che nascono dentro la propria testa a CecilieMengel per immaginarsi come potrebbero essere rappresentate fotograficamente. L’artista danese e ora residente a New York realizza scatti che sono dialoghi interiori nati dagli stimoli che lei stessa riceve da ciò che la circonda e dalle persone con cui si trova a vivere momenti molto quotidiani. Il risultato è una produzione artistica che è contraddistinta da una forte varietà nei soggetti e nelle ambientazioni, così come nello stile, una volta documentaristico, altre volte più vicino a una certa fotografia posata e teatrale. Si passa da scatti rubati in casa durante una conversazione a dettagli di una latta di salsa Heinz trovata nel porta oggetti di un taxi, tutto ricostruisce una storia comune e quotidiana. Anche la tecnica di Cecilie Mengel rispecchia questa stessa idea di varietà. L’artista infatti combina fotografia digitale e analogica, in altri casi la post produzione aggiunge segni grafici alle immagini. Le luci talvolta sono naturali altre volte forzatamente create con il flash, creando un senso d’insieme magari meno omogeneo ma ricco di suggestioni e raconti personali.
CecilieMengel è stato recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.
Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
Photography
Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
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Diego Dominici e il velo di Maya
Un velo delicato, quasi trasparente e impercettibile, fluttua davanti ai nostri occhi e filtra la realtà, che diventa soggettiva e mai assoluta. Il filosofo Schopenhauer lo chiamava “il velo di Maya”, quell’impedimento che vieta all’uomo di fare esperienza del reale, che ci illude di conoscere la Verità. Il fotografoDiego Dominici lo pone tra lo spettatore e i suoi soggetti, trasformandolo in effettivo protagonista delle serieAtman e Red Clouds. Le figure – uomini e donne – sono intrappolate nel velo, lottano con esso tentando di evadere, aggrappandosi con forza, cercando di penetrarlo, in altri casi invece lo accolgono, adagiandosi e uniformandosi alla sua morbidezza che persuade. Allo spettatore è permesso solo intravedere le forme dei loro corpi nudi e le loro ossa impresse sulla superficie, in una danza di luci e ombre che trasmettono sensualità e solitudine allo stesso tempo.
Diego Dominici tenta di rompere la bidimensionalità della fotografia, creando due piani di profondità: quello dettato dal tessuto e dalle sue increspature e quello in cui è posizionato il soggetto. L’occhio dello spettatore è portato a muoversi continuamente sulla superficie, cercando di superarla e raggiungere così il soggetto e le sue forme dunque, in altre parole, la Verità. L’analogia con la psicologia umana è dichiarata dal fotografo che vuole “squarciare la bidimensionalità per indagare i grovigli dell’interiorità umana”. Come nei suoi scatti, l’uomo può scegliere di farsi cullare dal velo dell’illusione, farsi accarezzare da una fittizia realtà e rimanere fermo sul suo punto di vista, oppure può scegliere di romperla, raggiungendo così l’altro lato e guardare la realtà da un’altra prospettiva. Il tessuto, o meglio il velo, diventa l’emblema delle barriere relazionali, quegli ostacoli che si interpongono tra noi e gli altri, che ci impediscono di comprendere le ragioni altrui e che creano distanze incolmabili. Allo stesso tempo, il velo diventa parte di noi, una sorta di involucro che ci avvolge e ci plasma, impedendoci di andare oltre. Ma, come diceva Schopenhauer, il velo di Maya dev’essere abbattuto, squarciato come una tela di Fontana, l’uomo deve abbandonare l’involucro come un serpente che cambia la propria pelle, per potersi aprire all’altro. Del resto, cos’è l’amore se non “l’annullamento dell’ego, il crollo di ogni discriminazione cosciente e la rinuncia a ogni metodica scelta”? diceva Salvador Dalì ne La mia vita segreta. Le opere di Diego Dominici invitano quindi a una profonda riflessione intima ma, grazie alla sua estetica attentamente curata, possono anche semplicemente appagare la vista e apparire come opere sensuali, in cui il velo diventa un preludio al piacere intimo.
Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale
Il 21 marzo, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, dialogica vuole indagare la capacità delle immagini di contribuire, attraverso un’azione di alfabetizzazione visuale interculturale, all’abbattimento dei preconcetti legati ai fenomeni della migrazione o della diversità culturale. Da quando a cavallo degli anni ’60 e ’70 Gordon Parks ha iniziato a raccontare con dignità e sensibilità la povertà, l’ingiustizia sociale e l’emarginazione vissute dagli afroamericani negli Stati Uniti, una nuova modalità narrativa ha affiancato il fotogiornalismo d’assalto, contribuendo a delineare una nuova iconografia capace di restituire una visione de-colonizzata, più realistica e meno stereotipata della figura del migrante o, più in generale, delle comunità nere. All’approccio puramente documentaristico le nuove generazioni di autori che lavorano con le immagini preferiscono un’indagine che si focalizzi più sul territorio in cui vivono, ricorrendo a linguaggi più ricercati o che approfondiscono le implicazioni sociali del fenomeno della migrazione.
Il lavoro “Nowhere Near” dell’autrice Alisa Martynova si concentra proprio sulla necessità di restituire un’identità peculiare all’erroneamente monolitica visione del migrante. Alisa ricorre a metafore e similitudini per raccontare le testimonianze di giovani migranti, intervistati in Italia (e non solo) nell’arco di oltre tre anni. I gruppi di migranti, protagonisti di viaggi estenuanti, vengono metaforicamente paragonati a costellazioni di stelle fuggitive, ovvero corpi celesti intrappolati sul confine dei buchi neri, una sorta di limbo da cui possono sottrarsi sono grazie a uno scontro tra due buchi neri: un evento eccezionale che proietta le stelle lontane da un equilibrio precario per raggiungere destinazioni non note.
Così, il Sogno di una vita migliore, del raggiungimento di un Eldorado a lungo immaginato, ma mai realmente visualizzato, viene poeticamente reso attraverso scatti realizzati in notturna in cui la luce svela per qualche secondo ciò che è nascosto, mostrando tessuti e vestiti iconograficamente legati alla cultura afro/orientale, ma catturati in luoghi altri, in cui spesso è presente quel mare attraversato coraggiosamente per raggiungere una vita migliore, o il bosco/foresta in cui nascondersi per diventare fantasmi in terra straniera.
Un cortocircuito visivo che ribadisce l’insistere di una cultura altra in un territorio sconosciuto, ma che accende una riflessione sul mondo interiore dei migranti con l’intento di suscitare reazioni in chi guarda e sottolineare l’individualità e peculiarità di ogni soggetto ritratto, portatore di storie, vissuti e racconti unici e irripetibili.
Sul pericolo di un appiattimento culturale delle comunità di colore si concentra anche il progetto “Black skin white algorithms” dell’autrice di origini angolane Alice Marcelino. Alice, il cui lavoro esplora la dimensione dell’appartenenza a partire dai concetti di cultura, tradizione, migrazione e identità, denuncia le anomalie presenti nelle tecnologie di rilevamento facciale nel momento in cui queste interagiscono con soggetti di pelle nera. Essendo principalmente programmate dall’uomo occidentale per rilevare pelle chiara, queste tecnologie non individuano in maniera ugualmente accurata le tonalità di pelle più scura, restituendo visioni sommarie o approssimative dei soggetti riconosciuti.
L’idea di inferiorità viene perpetrata quindi non solo in pregiudizi sociali inconsci, ma è alimentata anche dalle tecnologie, programmate da mani bianche occidentali, con una conseguente fornitura di potenziali false dichiarazioni. A sottolineare questo livellamento, Alice sostituisce la foto segnaletica dei soggetti con l’equivalente traduzione in codice ASCII (un set di caratteri standard compreso da tutti i computer) – che ne riduce l’identità a un risultato binario, privo di significato e complessità: la lettura del volto viene così annullata totalmente e resa illeggibile sia dall’uomo che dal sistema di riconoscimento facciale.