Re:Humanism, la mostra sul rapporto tra  arte contemporanea e Intelligenza Artificiale

Re:Humanism, la mostra sul rapporto tra arte contemporanea e Intelligenza Artificiale

Giulia Guido · 3 anni fa · Art

Da mercoledì 5 a domenica 30 maggio, lo Spazio CORNER MAXXI del Museo nazionale delle Arti del XXI secolo, a Roma, aprirà le sue porte per ospitare la seconda edizione della mostra Re:Humanism – Re:define the Boundaries.

Dieci artisti indagheranno il rapporto tra Intelligenza Artificiale e arte contemporanea invitando a riflettere su un futuro sempre più legato alla tecnologia in ogni suo aspetto. Per questo motivo le opere toccheranno temi legati alla società, ma anche alla biodiversità, alla coscienza ecologica, all’identità di genere. 

COSA:
Re:Humanism – Re:define the Boundaries
QUANDO:
5 – 30 MAG
DOVE:
Spazio CORNER MAXXI del Museo nazionale delle Arti del XXI secolo (Roma)

Gli artisti in mostra saranno gli Entangled Others, Yuguang Zhang, Johanna Bruckner, Irene Fenara, il collettivo Umanesimo Artificiale, il duo formato da Elizabeth Christoforetti & Romy El Sayah, Mariagrazia Pontorno, Egor Kraft, Numero Cromatico e Carola Bonfili, e i loro progetti in mostra sono i vincitori di Re:Humanism Art Prize

Quello del rapporto tra l’arte contemporanea e l’Intelligenza Artificiale è un tema che non può essere ignorato e, oltre a farci scoprire mondi e tecnologie lontane dal nostro quotidiano, può far nascere un dibattito sano sul futuro dell’arte e non solo.
Noi di Collater.al abbiamo avuto la fortuna di poter fare qualche domanda a Daniela Cotimbo, curatrice e Presidente dell’associazione Re:Humanism, che ci ha raccontato cosa troveremo in mostra e il suo punto di vista sull’argomento. Non perdetevi l’intervista qui sotto e alcune immagini delle opere e per saperne di più visitate il sito ufficiale!

Prima di parlare della mostra parliamo un po’ di te. Da sempre la tua ricerca si concentra sull’analisi e l’indagine di problematiche legate al presente attraverso diversi e nuovi mezzi espressivi e attraverso le nuove tecnologie. Da dove nasce l’interesse per questa materia e queste tematiche? 

La fascinazione per il mondo delle tecnologie ha sempre fatto parte di me credo. Appartengo a quella generazione di persone che ha visto diffondersi internet e le successive tecnologie connesse tramite device quali smartphone, pc e altro. Dietro quelli che sembrano semplici strumenti leggo tutta la complessità del progresso umano e delle sue implicazioni sociali. Se l’arte mi ha accompagnato in tutta la carriera scolastica, la tecnologia è entrata in maniera importante nelle mie ricerche, a partire dal mio percorso di tesi triennale, dove esploravo i mondi dell’arte all’interno di Second Life. L’approccio all’intelligenza artificiale nasce invece dall’incontro con Alan Advantage, azienda promotrice del premio che fin dall’inizio mi ha stimolato con temi trasversali e con conoscenze tecniche più approfondite. Oggi credo sia davvero difficile tener fuori la tecnologia dai discorsi umanistici.

Dal 5 al 30 maggio aprirà le sue porte “Re:Humanism – Re:define the boundaries”, cosa troverà davanti a sé una persona che deciderà di visitare la mostra? 

Bella domanda, sicuramente non una mostra canonica, nel senso che se ci si aspetta di essere circondati da robot, cavi e computer (sebbene io ami l’estetica della tecnologia) si potrebbe rimanere delusi. In realtà questo premio testimonia come i linguaggi tecnologici come quello dell’IA stiano pian piano penetrando sempre di più nel tessuto dell’arte contemporanea. Gli artisti li utilizzano sia in maniera fine a sé stessa, per capirne meglio la natura e le implicazioni, sia come strumento a supporto delle loro idee o immaginando nuove tipologie di interfacce. Così potrà capitare di vedere in mostra un arazzo che ci fa riflettere sul concetto di estinzione delle tigri (Irene Fenara), un acquario popolato da una barriera corallina generata da algoritmi (Entangled Others), un letto animato da una gestualità non umana (Yuguang Zhang) o il richiamo sonoro di un DNA modificato (Umanesimo Artificiale). Al contrario ci sono altre opere che raccontano come l’intelligenza artificiale ci aiuti a rivisitare linguaggi antichissimi come quello della pittura cinese (Egor Kraft), l’intraducibile manoscritto Voynich (Mariagrazia Pontorno) o i versi poetici contenuti negli epitaffi (Numero Cromatico). Infine, ci sono opere che sfruttano il linguaggio e la cultura che ruotano intorno all’IA per immaginare nuove forme di relazione tra specie (Johanna Bruckner), tra corpo e spazio (Elizabeth Christoforetti & Romy El Sayah) e di esistenza all’interno del digitale (Carola Bonfili). 

re:humanism
Molecular Sex, Johanna Bruckner

Quando si cerca di mettere in relazione discipline distanti e separate, come l’arte e le nuove tecnologie, spesso nasce qualcosa di straordinario, ma che non tutti riescono a capire subito. Come spiegheresti a queste persone la necessità di creare nuovi modi di produzione artistica? 

Su questo occorre fare una premessa, l’arte è sempre andata di pari passo con quella che prima chiamavamo tecnica e che oggi per mezzo dell’avanzamento tecnologico è diventato un vero e proprio linguaggio. Quando ad esempio è nata la pittura rupestre, qualcuno ha capito che poteva usare degli strumenti o il suo stesso corpo per comunicare con l’altro in un linguaggio simbolico. Se pensiamo questo in relazione alle tecnologie, ci rendiamo conto che quello a cui stiamo assistendo altro non è che un naturale processo di evoluzione dell’arte come espressione della realtà che ci circonda. Sicuramente la tecnologia oggi corre più veloce che mai e non è sempre facile stare al passo con le nuove scoperte e i più recenti sviluppi. Tuttavia, è uno sforzo che occorre fare perché le implicazioni, e qui mi riferisco soprattutto all’IA, sono tantissime e ci riguardano ormai molto da vicino. Forse è vero il contrario, ossia che è l’arte che, sovvertendo le regole del gioco, ci aiuta a comprendere meglio la tecnologia.

Tra le opere che saranno in mostra quella che ha attirato maggiormente la mia attenzione è “Epitaphs for the human artist” di Numero Cromatico. Si tratta di una sorta di epitaffio che decreta definitivamente la morte dell’artista umano. Pensi che questa figura in futuro scomparirà completamente o credi che l’artista umano resisterà nel tempo ma dovrà dividere il ruolo di creatore con apparati tecnologici, intelligenza artificiale e algoritmi? 

L’opera dei Numero Cromatico agisce su più livelli semantici. Sicuramente ci aiuta a riflettere su come forme poetiche che si sono tramandate spontaneamente, come possono essere i versi normalmente contenuti negli epitaffi, in un futuro molto vicino saranno totalmente appannaggio degli algoritmi. Il punto, ancora una volta, non è se sarà l’artista umano a scomparire ma come si riverseranno su di noi queste forme di espressione. Siamo disposti ad affidare una memoria intima come quella che accompagna il nostro vissuto ad una IA? E in tal caso come ne faremo esperienza? Per rispondere ancor meglio alla tua domanda, gli algoritmi di IA hanno già un potenziale “creativo” molto sviluppato, la così detta Black Box, uno spazio semantico latente che non ci è ancora ben chiaro come sia in grado di elaborare i dati che gli forniamo. Tutto questo è molto affascinante ma la vera domanda che dovremmo porci è: a cosa “serve” l’arte e perché un’IA dovrebbe sostituirsi a un artista in questo senso? La risposta che so darmi oggi è che l’IA potenzia le possibilità creative di un artista in tanti modi che sono molto curiosa di esplorare.

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Epitaphs For The Human Artist, Numero Cromatico

Negli ultimi anni, e soprattutto negli ultimi mesi, stiamo notando come non solo la produzione artistica si stia legando sempre di più al mondo tecnologico, ma anche la vendita e la fruizione dell’arte si stiano digitalizzando.
Credi che in questo modo, a lungo andare, l’arte sarà più alla portata di tutti o al contrario diventerà più esclusiva? 

Immagino che tu ti riferisca in particolare all’ascesa degli NFT (Non-fungible token) che in questo momento rappresentano un fenomeno molto interessante all’interno del mondo dell’arte e non solo. Personalmente non amo le settorializzazioni, credo che la tecnologia faccia ormai parte degli strumenti a disposizione degli artisti ma sicuramente, non essendo strumenti neutri, ogni volta che ne introduciamo uno dobbiamo ampliare lo sguardo al contesto di produzione. Cito gli NFT perché in effetti rappresentano un bel cambio di paradigma, ci spingono a concepire l’arte non più come un oggetto, qualcosa da possedere necessariamente in maniera fisica, nella maggior parte dei casi parliamo di formati digitali che possono essere presentati su schermi ma anche semplicemente essere conservati in una cartella sul nostro pc. Sicuramente una tecnologia di questo tipo sta rivoluzionando anche il modo di approcciarsi all’arte, favorendo l’ascesa di nuove tipologie di collezionisti e appassionati. Occorre però specificare che questi fenomeni collettivi potrebbero essere temporanei e dovuti all’entusiasmo iniziale, quello che facilmente potrebbe accadere è che tutto ritorni nei canoni del mercato dell’arte tradizionale. Dunque, per risponderti, devo dire che la complessità dell’arte contemporanea non è qualcosa a cui possiamo rinunciare e non è detto che le tecnologie facilitino l’accesso ai contenuti complessi, tuttavia credo in un più grande bisogno da parte degli artisti di misurarsi con i temi del nostro tempo e questo, probabilmente può davvero facilitare questo incontro con il pubblico.

Re:Humanism
(Non-)Human: The Moving Bedsheet, Yuguang Zhang
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Body As Building, Elizabeth Bowie Christoforetti & Romy El Sayah
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Moncler sposa il futurismo di Rick Owens

Moncler sposa il futurismo di Rick Owens

Anna Frattini · 8 ore fa · Style

La collaborazione annunciata oggi fra Moncler e Rick Owens ci porta in una dimensione nuova, vestita di capi meticolosamente progettati per adattarsi all’ambiente ricreato da Owens. Uno scenario sicuramente innovativo e fuori dal comune, uno “Sleep Pod” che fa da sfondo a tutti i look della campagna di lancio. Dalle foto sembra di vedere una tenda dal carattere arrivata dal futuro, un backdrop confortante e straniante allo stesso tempo.

Moncler x Rick Owens: i dettagli della collezione

Un progetto intimo, fortemente introspettivo, che ritroviamo nel concetto di silent sleeping pod ricreato da Owens. «A metà fra un meat locker e una tomba egizia» si legge sul comunicato stampa rilasciato dal designer americano. Un concept sicuramente accattivante che arriva con outfit matchy-matchy da indossare all’interno di questa realtà isolata da tutto ma non solo. In più, sullo sfondo delle foto di campagna è possibile intravedere il logo co-branded che vedremo su tutti i capi.

Usciamo un attimo da questo Sleep Pod e parliamo della collezione: le silhouette sono allungate e le imbottiture presentano un motivo a raggera interessantissimo. La palette, chiaramente, gioca su toni scurissimi con l’aggiunta di denim in cotone tinto e jersey di cotone organico insieme a nylon e cashmere sfumati dal blu al giallo acido. La varietà dei capi rimane uno degli aspetti più interessanti: flight jacket, puffer e piumini insieme a cappotti extra lunghi accompagnano gonne, pantaloni corti e top. Il denim, invece, è tagliato per realizzare tuniche, abiti e gonne, sciarpe ad anello e stivali shaggy insieme a una coperta trapuntata. Insomma, c’é tutto quello che potevamo aspettarci da una collaborazione di questo calibro in questa collezione.

Moncler sposa il futurismo di Rick Owens
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Moncler sposa il futurismo di Rick Owens
Moncler sposa il futurismo di Rick Owens
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Swatch rende omaggio al mondo dei Simpson

Swatch rende omaggio al mondo dei Simpson

Collater.al Contributors · 1 giorno fa · Style

I donut dei Simpson, i preferiti di Homer, sono entrati nel nostro immaginario come le ciambelle iconiche per eccellenza. Tanto da convincere Swatch a riprodurle su un orologio. SECONDS OF SWEETNESS é un omaggio al mondo dei Simpson e ai donut tipicamente americani amati da Homer. Insomma, questo Swatch ci fa subito venir voglia di fare il rewatch del diciannovesimo episodio dalla nona stagione dei Simpson dove Homer viene processato da Giant Donut.

Parliamo dell’orologio. Si tratta di un oggetto che gioca con il tema donut diventando immediatamente riconoscibile per gli amanti della serie tv. Il quadrante a forma di ciambella morsicata aggiunge un tocco divertente al modo in cui indossiamo Swatch, in questa occasione vestito di zuccherini. In più, l’orologio é disponibile anche con la funzionalità SwatchPAY!, utilissima nella vita di tutti i giorni.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è The_Simpsons_and_Swatch_Seconds_of_Sweetness_PR_2-1024x1024.jpg

Disponibile a partire dal 2 novembre, proprio in concomitanza con l’arrivo della 35esima stagione dei Simpson. Ma le sorprese non finiscono qui, i fan di Swatch e della serie animata saranno sorpresi da altri progetti che coinvolgeranno tutti i protagonisti della serie tv. Questo orologio arriva insieme al lancio di altri due prodotti sempre ispirati al mondo dei Simpson: WONDROUS WINTER WONDERLAND e TIDINGS OF JOY. Il primo riunisce i personaggi del cartone in versione pan di zenzero mentre danzano sul cinturino tempestato di neve, mentre il secondo immortala la famiglia Simpson mentre canta insieme in occasione della stagione natalizia. I due modelli sono già disponibili nei negozi Swatch e sul sito.

Swatch rende omaggio al mondo dei Simpson
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Swatch rende omaggio al mondo dei Simpson
Swatch rende omaggio al mondo dei Simpson
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A cosa ci fa pensare la Birkin fatta di Lego

A cosa ci fa pensare la Birkin fatta di Lego

Anna Frattini · 2 giorni fa · Design, Style

Su Instagram circola da giorni l’immagine di una Birkin fatta di mattoncini Lego. La ricetta ideale per un contenuto virale. L’arancione che associamo a Hermès riproposto in una chiave nuova, straniante. La Birkin circolata ovunque e tutti gli altri luxury goods trasformati in Lego li potete trovare su @glam.tol, il profilo che ha fatto scoppiare questo fenomeno. Tutti i contenuti, però, sono confezionati grazie al prezioso aiuto dell’AI.

Molti degli oggetti pensati da @glam.tol e andati virali appartengono saldamente al concetto di quiet luxury, un aspetto interessante di questo fenomeno che ci ricorda quanto ancora siamo attratti da borse costosissime e accessori brandizzati – quindi riconoscibilissimi – come il cappellino firmato Ralph Lauren. Secondo alcuni, l’intenzione di queste immagini potrebbe voler annunciare l’arrivo di una collaborazione fra Lego e Hermès. Mentre su TikTok, altri non pensano sia possibile vista la rarità con cui la maison francese ha attivato partnership nel corso della sua storia.

@thebrandblueprint Hermès and Lego partnership is sadly never going to happen because Hermes doesn’t partner with brands #collaboration #hermes #legos #marketing #brand #branding #rollsroyce #mcclaren #greenscreen ♬ original sound – Brooke💡Marketing, Brand, Ecom

Insomma, tanto fumo e niente arrosto, se non l’ennesima conferma di quanto sia facile creare immagini iperrealistiche grazie all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale, un tema di cui si è dibattuto anche quest’anno da PhotoVogue ma che continua a essere rilevante non solo nel mondo della fotografia ma anche in quello del marketing. La viralità di queste immagini ne è la prova.

courtesy @glam.tol

A cosa ci fa pensare la Birkin fatta di Lego
Design
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IN STUDIO con Astrid Luglio – ep. 4

IN STUDIO con Astrid Luglio – ep. 4

Giorgia Massari · 2 giorni fa · Design

Per il quarto episodio di IN STUDIO, siamo andati a trovare la product designer Astrid Luglio. Co-founder del collettivo The Ladies’ Room insieme a Ilaria Bianchi, Agustina Bottoni e Sara Ricciardi, Astrid si specializza in una specifica branca del design, quella legata alla cultura culinaria. Provenendo da una famiglia di ristoratori e a seguito di un viaggio in Australia durato un anno, Astrid entra sempre più in contatto con la ristorazione e in particolare con gli ingredienti nel mondo della gastronomia, che la ispirano nella creazione di oggetti volti alla loro esaltazione. Siamo andati a trovarla nel suo studio a Milano, per scoprire di più sul suo percorso, sulla sua ricerca e sulla sua metodologia.

Chi è Astrid Luglio?

Classe ’88, Astrid Luglio nasce a Napoli per poi trasferirsi a Milano per studiare Product Design alla Nuova Accademia di Belle Arti. La dimensione del viaggio è stata parte integrante della sua formazione, in particolare quello in Australia che l’ha portata a interfacciarsi con il mondo della ristorazione. Tornata in Italia, dopo aver vissuto tre mesi in Vietnam, Astrid inizia a collaborare con TourDeFork di Milano, uno studio di design ispirato al cibo e alla cultura culinaria. Nel 2018 apre il suo studio indipendente e inizia a insegnare Design of Small Objects agli studenti internazionali del triennio della NABA. Con il collettivo The Ladies’ Room avvia una riflessione sul design contemporaneo, per indagare il bisogno di un coinvolgimento sensoriale. Proprio sulla sensorialità, Astrid Luglio sviluppa la sua ricerca legata alla cultura culinaria. Partendo dallo studio e dalla conoscenza approfondita di un preciso ingrediente, progetta una serie di oggetti che possano esaltare le proprietà del prodotto e, in senso più ampio, poter generare un’esperienza percettiva.

Lo studio

Ci troviamo alla fine di via Padova, sulla Martesana. Un quartiere un po’ lontano dal centro che senza dubbio lascia spazio alla concentrazione. Lo studio di Astrid Luglio è in realtà ibrido, qui lavora con i suoi collaboratori e vive con il suo compagno Sirio Vanelli, Direttore della Fotografia, e con la loro piccola figlia Lea, Blu. Il complesso che accoglie la casa-studio è già di per sé molto curioso. Si tratta della ex fabbrica Gio’Style ristrutturata dall’architetto Gianluigi Mutti. L’identità del luogo è stata mantenuta, dalle grandi vetrate industriali ai piccoli dettagli, come i campanelli che sono veri e propri pulsanti. Appena entrati nell’appartamento, siamo sorpresi dalla luminosità e dal respiro degli spazi. Una musica di sottofondo e piante sparse qua e là, ci accolgono in un ambiente rilassato e sereno, che ci proietta nel micro ecosistema della designer.

Da quanto tempo sei in questo studio? Come lo concepisci?

Siamo qui da poco, da un anno e mezzo. Stiamo capendo ancora come organizzarci, è tutto in divenire.
Con Sirio abbiamo cercato apposta uno spazio che potesse essere casa-studio. Prima lavoravo in un co-working alla Fabbrica del Vapore, ma sentivo la necessità di avere più spazio, sia per fotografare e, in generale, per espandermi. Per questo abbiamo cercato uno spazio che potesse essere versatile. Per esempio, ho progettato appositamente dei tavoli con le ruote per rendere lo spazio adattabile alle nostre esigenze. È uno ambiente conviviale, sempre in evoluzione ed è proprio la caratteristica che per me deve avere lo studio.

Com’è stato il passaggio da uno studio esterno a casa-studio?

All’inizio è stato un po’ difficile perché sono un po’ gelosa del mio spazio-tempo. Con l’evoluzione della vita però l’ho trovato un super vantaggio perché prima di tutto ho la possibilità di gestire lo spazio come voglio. Poi il fatto che lo viviamo anche in modo molto famigliare è una cosa che mi piace molto. Mi piace l’idea di creare un ambiente in cui chi lavora con me si senta a casa. Con il fatto che abbiamo una figlia questo aspetto diventa fondamentale. Essere una madre freelance in una società che non ci mette nelle condizioni di far convivere l’aspetto lavorativo e quello famigliare non è facile, quindi ci siamo creati noi una dimensione in cui invece diventa gestibile. Ricrei quella micro società che vorresti in macro, con le proprie regole.

Nel concreto come vivi lo studio? Ti piace avere visite?

Abbiamo suddiviso l’area di lavoro in modo che ci sia sempre uno spazio super flessibile nella parte centrale. Quando dobbiamo scattare, usiamo i tavoli per gli still life, mentre in altre situazioni diventano luogo di cene con amici, designer e creativi in generale. La configurazione è ibrida anche per questo, chi viene, viene a mangiare in una casa-studio che è anche un ambiente produttivo e lavorativo. Chi passa magari ha anche piacere a lavorare qua, l’idea è questa. La porta è sempre aperta.

Questa dimensione casalinga ti fa sentire alienata in questo spazio?

Questa è una bolla, io qui perdo completamente la concezione del tempo e dello spazio. Sarà forse il contesto architettonico che invita ad isolarsi. La dimensione Martesana è un po’ a sé rispetto al resto di Milano. Per me tutta questa area è un po’ una bolla nella quale a volte mi perdo. Perdo la dimensione del tempo e dello spazio ma la cosa bellissima è che, in poco, se voglio riconnettermi con il mondo posso farlo. Per me è una novità perché prima eravamo in Sarpi, nel quartiere di Chinatown, in pieno casino. Indubbiamente un quartiere più vivo, però questo per me è un tempio della concentrazione entro cui lavoro molto bene. Poi in realtà le distrazioni ci raggiungono. 

Parlando più di te invece, qual è stato il progetto che ha segnato una svolta nella tua carriera?

Ce ne sono due in realtà. Il primo è quello iniziale che mi ha fatto capire che potevo avere una visione su questa nicchia e che poteva funzionare. Si tratta del progetto Camere Olfattive, un calice per la degustazione olfattiva che ho progettato per il Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP. In pratica è un bicchiere che enfatizza le proprietà organolettiche del balsamico tradizionale o di qualsiasi liquido versato al suo interno, come fragranze, olio, caffè e vino. La cosa significativa di questo progetto è che fu il mio primo autonomo. Il Consorzio aveva indetto un bando per il quale bisognava progettare delle esperienze intorno al balsamico tradizionale. La prima cosa che ho notato è che la degustazione avveniva nei calici di vino o in cucchiaini in plastica, quindi con strumenti che non erano concepiti per questa funzione e non erano adatti a enfatizzarlo. Per cui io ho proposto questo calice che è in realtà una bolla di vetro borosilicato. La cosa interessante è che loro erano rimasti particolarmente colpiti da come gli odori riuscivano a esprimersi. Con questa esperienza ho capito come ci siano una serie di ingredienti che appartengono alla nostra cultura culinaria che mancano di una serie di strumentazione apposita, quindi quale pretesto migliore per progettare proprio partendo dal loro studio e arrivare a enfatizzazione alcune loro qualità.

Il secondo progetto che segna una svolta è uno degli ultimi che ho fatto, in cui c’è stato un cambio di scala completo. Io parto come progettista del prodotto, però il Panificio di Davide Longoni mi ha chiesto di affrontare una progettazione in scala maggiore, ripensando a uno spazio all’interno del panificio. In realtà, il processo creativo è uguale perché parto sempre dalla ricerca dell’ingrediente, in questo caso il pane. Siamo partiti dal back del magazzino, che loro usano per panificare. Qui c’era uno spazio inutilizzato nel quale Longoni voleva creare una situazione di scambio e di intimità intorno al tema della panificazione, che abbiamo chiamato Il Circolino del Pane. Una cucina in cui poter invitare pochissime persone, fare cene, talk e workshop. Il punto di partenza di questo progetto è stato capire come esprimere la miscela del pane attraverso i materiali, esprimendo al contempo anche la milanesità del panificio, essendo Longoni un punto di riferimento su Milano. Per cui siamo andati ad indagare un po’ quello che è la tecnica del cotto lombardo variegato, che mescola argille differenti. Con questa tecnica abbiamo realizzato delle piastrelle che sono alla base del progetto della cucina, realizzato con Very Simple Kitchen. Il risultato estetico vede la miscela di tre ingredienti che simbolicamente rimandano alla farina, all’acqua e al grano. Tra l’altro, le piastrelle si tagliano proprio come delle fette di pane. È un blocco di argilla in cui si mescolano tutte e tre e poi vengono affettate. Questo progetto mi ha aperto tutto un altro mondo, che è quello della progettazione di spazi, una cosa che fino ad adesso non avevo considerato. Mi è sembrato un altro punto di svolta perché c’è stato un passaggio dal prodotto allo spazio e ho capito che, se si parte comunque da un ingrediente, alla fine la progettazione può evolversi in altri modi. 

Come avviene la tua fase di ricerca?

Se si parla di ingredienti, molto spesso devi andare a trovare questi ingredienti nel loro habitat naturale o comunque dove nascono e vengono prodotti. Per esempio, un progetto che ho disegnato due anni fa per la valorizzazione dell’olio extra vergine d’oliva, richiedeva che ci fosse un lavoro di ricerca a partire dai frantoi. Invece di partire qui dalla scrivania, siamo andati in Costiera dove si coltiva e lavora l’oliva campana. C’è una parte del lavoro che ha un output molto artigianale e poi ci sono anche progetti che sono completamente industriali, prodotti di massa che necessitano una progettazione differente. In entrambi i casi cerco sempre di tenere uno storytelling e una poetica comune, nonostante i processi produttivi diversi. Oltre alla parte sul campo, per me è molto importante avere un riferimento bibliografico e materico, ogni progetto prevede l’acquisto di una moltitudine di libri sull’argomento, oltre che di oggetti curiosi legati ad esso.

Tornando allo studio, qual è lo strumento che non può mancare qui?

La cosa che posso definire imprescindibile è l’archivio dei sample, dei materiali che ho collezionato nel tempo. Mi servono tantissimo di volta in volta per creare moodboard materici dai quali partono le ispirazioni per i progetti. Poi anche la vecchia radio a transistor di mio padre, di cui amo la casualità con la quale sceglie i brani. 

Anche se la risposta sembra scontata, te lo chiediamo lo stesso: te ne andresti domani da questo studio? 

In realtà ti sorprenderò, sì. Mi piace pensare che questo sia lo spazio che va bene in questo periodo della mia vita. Un giorno potrebbe non rispettare più la mia metodologia. Sono molto aperta al cambiamento rispetto all’ambiente lavorativo. Anzi, io mi annoio spesso, per questo i tavoli hanno le ruote, perché tutto deve poter cambiare sempre, anche proprio dove mi posiziono nello spazio. La metodologia troppo rigida non mi appartiene, nonostante mi nutra di una serie di ossessioni per quanto riguarda il metodo di ricerca, però poi mi piace poterle mescolare in modo più randomico. Mi piace pensare che ci sia sempre un’evoluzione.

Come ultima domanda vogliamo un piccolo spoiler. A cosa stai lavorando al momento?

Sto lavorando per il team italiano del Bocuse d’Or, un concorso di alta cucina che si tiene ogni due anni a Lione. Ogni team studia e progetta un grande vassoio con quattordici portate, che sfila davanti a una giuria di giudici esperti. Il vassoio dev’essere molto sontuoso e avere una relazione stretta con quello che lo chef va a cucinare. Ogni anno ci sono chef emergenti che si presentano per la prima volta al pubblico internazionale. Se vincono il Bocuse d’Or è un po’ come per noi vincere il Compasso d’Oro. Per il progetto di quest’anno siamo partiti dalla ricerca sul mosaico fiorentino, sulle sue origini e sulla sua tecnica di applicazione. Quello che succede in questo concorso è che partecipando un po’ da tutti i Paesi del mondo, è importante valorizzare il Paese di provenienza. Di volta in volta, c’è una ricerca specifica su una tecnica o un mondo di riferimento che possa richiamare l’italianità in modo fine, senza essere troppo didascalici.

Ph Credits Andrés Juan Suarez

IN STUDIO con Astrid Luglio – ep. 4
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IN STUDIO con Astrid Luglio – ep. 4
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