Selezione Angelo Live Art – Gloria Pizzilli

Selezione Angelo Live Art – Gloria Pizzilli

Giulia Ficicchia · 8 anni fa · Art

Prendete un web magazine come Picame, un gran produttore di birra come il Birrificio Angelo Poretti e una simpatica e creativa illustratrice come Gloria Pizzili. Ora potreste cominciare a capire cosa è successo il 25 marzo quando siamo andati al Vinitaly a trovarli.

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Ovviamente in questo racconto è scontato dire che di birra ne è stata bevuta tanta, così  come tanti sono stati i colori usati dalla geniale Gloria nella realizzazione live della sua opera. E mentre tutto ciò accadeva, ci siamo messi vicino a lei, ci siamo impicciati, ci siamo raccontati una storia, la sua in particolare.

Di Gloria vi avevamo detto qualcosa qui, ma abbiamo nuove informazioni interessanti.

Nasce in Toscana, a Prato per la precisione, quanti anni fa non ve lo diciamo, siamo degli amanti del Galateo noi. Poi, dopo aver studiato Design all’università e aver tentato di farsi andar bene una strada che poi fino in fondo non le piaceva, la scelta prima di buttarsi nel mondo dell’illustrazione e poi anche quella di andar via dal suo paese e arrivare a mettere radici a Tolosa. Quest’ultima avventura arriva per dare l’opportunità ai suoi figli di studiare in scuole migliori, di imparare due lingue, di assaporare meglio il mondo. Proprio con la nascita dell’ultimo, Gloria ci racconta che ha creato il lavoro a cui è più legata, insieme lo definiamo il migliore, ma ammette che se lo potesse rifare, lo rifarebbe meglio, in modo diverso sicuramente, ma quello che conta era quel momento, quel sentimento là, perciò va bene così. Per i più curiosi, il lavoro è questo.

Poi siamo passati ai massimi sistemi, siamo entrati più a fondo nella sua anima da artista.

Che colore vorresti essere? 
Il rosso, senza dubbio, perchè è come la sfrontatezza  di chi decide di seguire nonostante tutto la sua strada.

Perchè la scelta di questo soggetto per il tuo Live Art? 
Mi avevano assegnato un ‘tema’. Le materie prime…della birra Poretti, ovviamente. Per cui avevo luppoli, malto e acqua sorgiva come parole chiave. E in più l’Angelo. L’associazione acqua sorgiva – ragazza – angelo è stata immediata, e malto e luppolo a incorniciare sono venuti da sé.

Ci sono delle commissioni che ti stimolano di più, dei lavori ideali, magari anche dei momenti in cui lavorare alle tue creazioni non ti pesa affatto?
Sì, ci sono commissioni che mi stimolano di più rispetto ad altre. In genere dipende dalla portata e dal grado di libertà che comportano. E dalla sintonia con l’art director. Quando l’art director ha fatto bene il lavoro a monte, prima di contattare colui che illustrerà, e cioè ha scelto con esattezza colui che,  a suo avviso, può interpretare al meglio il lavoro assegnato, tutto va liscio come l’olio. Perché il livello di fiducia reciproca è al massimo, per cui l’art director vuole che l’illustratore sia nient’altro che se stesso, cosa che all’illustratore viene naturale. E in quest’atmosfera la libertà è maggiore, si possono fare proposte, anche azzardate, perché c’è un buon clima di apertura. Non c’è un’ora del giorno migliore, ci si adatta, anche se ovviamente è meglio avviare un progetto nuovo al mattino, quando si è più freschi.

C’è un mito dell’illustrazione che ti ispira? 
Attualmente non ho miti nell’illustrazione. È un percorso strano quello dell’arte visiva (e forse di tutte le arti): l’arroganza è direttamente proporzionale all’esperienza. Mi spiego meglio: all’inizio, prima di metterti in gioco, hai il sentore di poter fare qualcosa di grande/bello/importante. Lo sai, ma non hai dimostrato ancora niente, agli altri e a te stesso. Vedi le immagini pubblicate degli altri e pensi (a torto) ‘questo potrei farlo anch’io’. È l’arroganza del dilettante. Poi cominci e ti accorgi che non era proprio così vero che ‘potevi farlo anche tu’, e che anche un’immagine non eccezionale ha bisogno di un certo grado di talento e competenza. In questa fase forse puoi avere ‘miti’. Ma poi, se sei testardo abbastanza e non ti arrendi prima, tutto si sblocca e le cose cominciano ad andare per il verso giusto. Le immagini iniziano a somigliare a se stesse, a come le avevi immaginate, e capisci che un trucco c’è: sono la costanza e la fiducia in se stessi, così come l’autocritica e l’allenamento costante a fare l’illustratore. E allora non ci sono più miti. Ci sono persone che, se davanti a te, conoscono questo gioco semplicemente da più tempo o un po’ meglio di te. Hanno superato più paure e ostacoli e questo li rende migliori artisticamente, ma non irraggiungibili.

Bene, dopo tutto questo nostro parlare, direi che risulta impossibile non innamorarsi di Gloria. Noi abbiamo già iniziato a farlo, non sentitevi soli.

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Gloria Pizzili

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Brice Gelot, per l’amor di Dio

Brice Gelot, per l’amor di Dio

Tommaso Berra · 7 ore fa · Photography

Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società.
“For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista francese Brice Gelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.

Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano.
Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.

Brice Gelot | Collater.al
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
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I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

Giorgia Massari · 2 giorni fa · Photography

La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografa Tetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista.
Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.

Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 
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La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

Laura Tota · 2 giorni fa · Photography

Abitare un corpo, vuol dire percepirlo, riconoscersi ed essere riconosciuti. Significa sentirsi familiari verso se stessi e gli altri, rapportarsi al Mondo attraverso terminazioni nervose, adipe e sensi.
Il corpo è il centro nevralgico della nostra identità e volontà, e il nudo in particolare è stato a lungo uno dei soggetti preferiti dai fotografi sin dalla nascita del mezzo fotografico. Tuttavia, parlando di nudo maschile, la sua diffusione risulta inferiore, salvo alcuni casi particolari, poiché ritenuto meno interessante (se non addirittura disturbante) dal dominante “Male Gaze” (ovvero la raffigurazione dell’universo femminile, nelle arti visive e nella letteratura, da un punto di vista non solo maschile, ma eterosessuale, che rappresenta le donne come meri oggetti sessuali finalizzati alla mera soddisfazione del pubblico maschile). Solo dalla fine degli anni ’70, grazie alla nascita del movimento di liberazione omosessuale e del mercato pubblicitario, abbiamo assistito a una sua nuova nuova vita, capace di trasformare il corpo maschile in oggetto erotico e di contemplazione edonistica. 

 
 
 
 
 
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Ne sono un esempio gli iconici scatti di Robert Mapplethorpe, attratto dal nudo maschile sin dall’infanzia, che rievocano le nudità classiche e restituiscono dignità e bellezza a una categoria di persone considerate allora degradanti, o i più recenti ritratti del fotografo Florian Hetz che, attraverso serrati close up, immortalano la vera essenza e l’innata sensualità del corpo maschile.

Ed è proprio sul confine tra arte ed erotismo che si gioca la narrazione di “Bodies”, l’ultimo progetto di Francesco Paolo Gassi, giovane autore pugliese che nella sua pratica si confronta con la fisicità del corpo. Francesco è letteralmente ossessionato dalle imperfezioni e dalla naturalezza della sbavatura, lontana dai cliché estetici patinati: peli, pelle e fluidi corporei sono il suo terreno di gioco, dettagli e particolari i suoi punti di vista preferiti. Si muove con attenzione attorno al corpo maschile, ovvero ciò che è per lui più familiare, ma che allo stesso tempo è stato a lungo motivo di vergogna da parte di una comunità cui ha dovuto per anni nascondere la propria sessualità.

Arte, pornografia e tassonomia dialogano nello spazio fotografico. Le pose, studiate meticolosamente, proprio come l’illuminazione e la relazione del corpo con lo spazio, suggeriscono e alludono a un’erotizzazione del corpo che non è mai esplicita, orientano l’anatomia umana per enfatizzare l’insignificante e il banale, elevandolo a oggetto del desiderio. Il suo è un approccio quasi scientifico che, attraverso l’immagine fotografica, mira a rendere eterna la materia organica di cui l’uomo è costituito e a raggiungere l’essenza di ogni soggetto ritratto.
Così, i corpi maschili diventano il terreno da gioco ideale su cui rinegoziare l’identità, scevra da sovrastrutture sociali e libera da condizionamenti, presentata all’occhio dell’osservatore nella sua totale, disturbante e ambivalente autenticità. Il progetto abbina fotografie digitali a istantanee: nell’unicità di una polaroid si perpetua infatti l’irripetibilità del corpo, così come nella qualità dell’immagine digitale si riflette ogni singolo dettaglio della specificità epidermica di ogni corpo fotografato.

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi
Photography
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 3 giorni fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

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