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Come si diventa fotografi in carcere

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Giorgia Massari
adriano alia

Incontro Adriano Alia in un parchetto di Porta Romana. Lui è seduto su una panchina, mi aspetta con un grosso libro appoggiato accanto a lui e tra le mani ha una piccola macchina fotografica analogica. Ho chiesto ad Adriano di incontrarci incuriosita dal suo insolito primo approccio alla fotografia. Conoscevo già il suo lavoro tramite i social, a Milano si è fatto un nome soprattutto per aver scattato alcuni tra i rapper più famosi, oltre a numerose modelle. Chi frequenta la Milano notturna, soprattutto i release party, lo avrà sicuramente incontrato o per lo meno sentito nominare. Vengo a sapere solo in un secondo momento che Alia è stato in carcere e che proprio lì si è avvicinato per la prima volta alla fotografia. Facendo qualche ricerca scopro di un progetto realizzato tra le sbarre ma, soprattutto, che alcune di queste fotografie sono state esposte in una mostra del PAC di Milano. Preparo quindi qualche domanda e incontro Adriano. Lui mi mostra subito il grande libro appoggiato sulla panchina, è il catalogo della mostra del PAC – intitolata Ri-scatti. Per me si va tra la perduta gente tenutasi nell’autunno del 2022 -, che rappresenta un po’ l’inizio di tutto il suo percorso. Parliamo del suo arresto, dei numerosi trasferimenti prima di arrivare al carcere di Bollate che, come dice lui, gli ha cambiato la vita. Fino ad arrivare a oggi, alla sua carriera e al suo successo. Durante la conversazione non sono mancati momenti di forte emotività – soprattutto miei – che sottolineano la grande capacità di adattamento e di redenzione che l’essere umano può dimostrare anche in situazioni difficili. In questo senso, circoscrivendo questa forza di volontà all’interno delle mura di un carcere, l’aiuto però deve arrivare prima dall’alto o, come accade in molti casi, da fuori, permettendo ma soprattutto credendo in una possibile redenzione dei detenuti.

adriano alia | Collater.al

Senza dubbio la storia che raccontiamo oggi è una delle poche a lieto fine. Come Adriano ci tiene a sottolineare, senza questo corso, ideato e organizzato dal PAC di Milano e da Ri-scatti Onlus – l’associazione di volontariato che dal 2014 crea eventi e iniziative di riscatto sociale attraverso la fotografia – e promosso dal Comune di Milano con il sostegno di Tod’s e il contributo di LCA Studio Legale, tutto questo non sarebbe successo. Iniziamo con l’intervista e scopriamo come si diventa fotografi in carcere.

Partiamo dall’inizio. Come ti sei avvicinato alla fotografia in carcere?

AA: Durante il periodo di detenzione ho avuto la possibilità di imparare a scattare. Un giorno sono arrivati nel carcere di Bollate Amedeo Novelli di Sony e Diego Sileo del PAC di Milano, proponendoci un corso di fotografia. Il corso è durato un paio di mesi, durante i quali ci hanno dato l’opportunità di imparare a usare la macchina fotografica e di usarla all’interno del carcere, negli spazi da noi accessibili, quindi anche nelle celle, nelle zone d’aria, nei corridoi e negli spazi comuni. Mi sono divertito, ho trovato la mia passione, da quel momento non ho più smesso di fare foto.

I tuoi scatti coprono un periodo di due anni. Come sei riuscito a scattare anche dopo la fine del corso?

AA: Anche dopo la fine del corso ho potuto continuare a fare fotografie proponendomi come fotografo del giornale del carcere, carteBollate. Ma è stato solo dopo l’ok della direttrice del giornale Susanna Ripamonti che ho ufficialmente continuato a scattare. Facevo le foto durante i colloqui con i familiari e durante gli eventi, quando venivano politici o personaggi pubblici all’interno del carcere, oltre a continuare a scattare i miei compagni. Fino al giorno della scarcerazione – che è stato il 18 agosto del 2023 – ho scattato tutti i giorni, costruendo nel tempo un vero e proprio reportage della vita dentro al carcere.

Quali erano i tuoi soggetti preferiti? Cosa cercavi nei tuoi scatti?

AA: Nella norma di tutti i giorni i soggetti principali erano i miei amici. Gli proponevo di fare foto all’aria aperta durante le ore di svago o anche in cella. Trovavo affascinante il modo di vivere che avevamo noi rispetto a quello che c’è fuori, perché dentro ci sono cose che quando si è liberi vedi come oggetti normalissimi di uso e consumo, invece in galera alcuni oggetti, alcuni modi di fare, alcune cose che facevamo mi suonavano particolari e secondo me valeva la pena fotografarli. I miei stessi amici mi dicevano “Adri ci fai una foto, ce la fai qui? Guarda, mi sono arrivati questi vestiti nuovi per il colloquio”, oppure “oggi mi sono tagliato i capelli”, “voglio mandare una foto alla mia fidanzata fuori”. Quindi fare loro una foto non era più una semplice foto, ma era un messaggio che si mandava alle persone care per far vedere quanto noi dentro riuscivamo a stare bene.

adriano alia

Da come lo racconti, scattare in carcere sembra un processo semplice, ma sono sicura che c’è di più. Hai mai trovato degli ostacoli? Ostilità?

AA: C’era sempre un po’ di ostilità, soprattutto da parte di alcuni agenti della polizia penitenziaria, perché era una cosa inusuale. Mentre invece, grazie a Susanna Ripamonti e al Direttore Giorgio Leggieri che mi hanno lasciato tanto spazio, ho avuto la possibilità di approfondire veramente la fotografia.

Pensi che l’ostilità provenga dal fatto che avresti potuto documentare qualcosa di scomodo?

AA: Sì, si può dire che ho fotografato anche qualche difetto del carcere, magari anche cose che non avrei potuto fotografare o che non avrei neanche dovuto vedere.

Oggi è un problema pubblicare questi scatti?

AA: No, gli scatti che ho fatto durante il corso sono già stati pubblicati già stati visti in una mostra che si è tenuta al PAC di Milano. Alla fine del corso sono state selezionate delle foto e queste foto sono andate in mostra al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, e quindi tutti quelli che avevo fotografato durante il corso avevano già firmato la liberatoria. Poi le foto che ho fatto dopo il corso le ho fatte comunque sempre ai miei amici.

Nonostante la brutta esperienza della detenzione, sembra che il carcere ti abbia offerto una nuova possibilità. Cosa pensi a riguardo?

AA: Sì, sembra assurdo dirlo, ma essere stato in galera è stata la svolta della mia vita. Soprattutto gli ultimi due anni e mezzo che ho passato a Bollate forse sono stati tra gli anni più belli della mia vita perché comunque, dopo un po’ di anni che sei sempre con le stesse persone, si creano dei legami indissolubili, i tuoi compagni diventano come dei fratelli. Alla fine Bollate è sì un carcere, ma non è chiuso all’esterno. Ci sono molti volontari, molti corsi, c’è molto da fare. Se se sei uno che ha voglia di fare, il carcere di Bollate ti dà la possibilità di farlo. Io ho fatto tantissime cose, ho cercato di occupare il tempo tutti i giorni, tutto il giorno, con più cose che potevo e le giornate volavano.

Ci raccontavi che prima di Bollate sei stato sia a San Vittore che ad Opera. Anche lì ci sono queste opportunità per i detenuti?

AA: Sì, quando mi hanno arrestato nel 2019 mi hanno portato al carcere di San Vittore. Dopo qualche mese a San Vittore mi hanno portato a Opera, nonostante fosse la mia prima carcerazione. Non so ancora il motivo. Opera è un carcere veramente noioso, a parte allenarti e giocare a carte puoi fare poco. Dopo un anno, grazie al Covid, sono riuscito a stare un anno in affidamento al territorio. Poi, per via di un’indagine a piede libero avviata dalla Procura hanno deciso di riportarmi in galera e ci sono stato fino a fine pena. Lì mi è andata bene perché non sono tornato nel carcere di provenienza, ma mi hanno mandato a Bollate. Il corso di fotografia che ho frequentato si svolgeva in realtà anche in altri carceri di Milano – Opera, San Vittore e l’IPM Cesare Beccaria -, però penso che le possibilità che ti dà Bollate non sono così facili da trovare nelle altre case di reclusione.

Cos’è successo quando sei uscito dal carcere? Come ti sei approcciato al mondo della fotografia fuori?

AA: Appena sono uscito non avevo intenzione di fare le foto perché pensavo che il mio fotografare fosse una cosa riguardante solo il carcere e che fuori, da libero, ci fosse troppa concorrenza. Ero un po’ demoralizzato, pensavo di non essere un fotografo e che sarei stato una goccia nell’oceano. Poi, grazie ai miei amici, in particolare ad Andrea Sata e Zano, ho trovato la motivazione per continuare. Ho comprato un’analogica economica e un rullino 200 ISO della Kodak Gold 200 e ho fatto il mio primo rullino di fotografie. È stato figo perché, per casi fortuiti, in quel periodo ho beccato un sacco di persone fighissime, soprattutto personaggi famosi che non sto qui a elencare. Poi mi sono evoluto, ho comprato una macchina fotografica più bella, sempre analogica. Una compact Olympus, che ora è diventata il mio oggetto imprescindibile.

Uscito dal carcere ti sei trovato inevitabilmente senza i tuoi soggetti. Perché hai scelto proprio le persone della notte come nuovi protagonisti dei tuoi scatti?

AA: Immaginati che dopo il mio periodo in carcere non conoscevo più la notte. Quando mi hanno arrestato avevo venticinque anni, ero giovane e amavo uscire la sera. Tornato libero mi sono ricordato di quanto mi piaceva la notte, frequentare bei posti e fare nuove conoscenze. Sono stato accolto molto bene dai miei amici, che mi hanno portato ai release party. Io non avevo idea neanche di che cosa fosse un release party.

Penso che ci sia un parallelismo curioso tra i detenuti e i personaggi famosi, entrambi sono un po’ restii a farsi fotografare. Sei d’accordo?

AA: Sì, senza dubbio. In carcere ho imparato a fotografare chi non è troppo contento di farsi scattare. Criminali e VIP non vogliono essere scattati. In galera ho imparato a creare confidenza con il mio soggetto e a fotografarlo nel momento giusto. Quasi sempre vengono foto fighe perché sono spontanee. Sono foto un po’ d’agguato, quasi paparazzate, il risultato non è mai posato ma quanto più naturale possibile.

Ultima domanda sul futuro. Cosa ti aspetti? Hai in programma una mostra?

AA: Sì, vorrei fare una mostra in Italia, anche se ho paura che facendola qui la cosa venga un po’ strumentalizzata, perché l’Italia è un Paese ancora un po’ bigotto su queste cose. Almeno, questa è la mia paura. In ogni caso, il mio sogno sarebbe farla a Milano, dove possono venire i ragazzi detenuti che ho fotografato. Per me è importante che le persone vedano cosa si può fare dentro un carcere e che capiscano quanto sia fondamentale promuovere progetti come questo. È pieno di giovani in galera che sono geniali, che scoprono il loro talento solo in carcere perché magari fuori facevano una vita che non gli dava la possibilità di scoprirli. Ma è necessario che ci sia un’attenzione su questo. Perché se nessuno li aiuta, quando escono dal carcere tornano a fare le stesse cose che faceva prima o addirittura peggio, perché si ha ancora più fame quando si esce di galera.

Credits Adriano Alia

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Scritto da Giorgia Massari
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