Leatherheart si presenta così: “Sono Marco, lucano d’origine, vivo a torino da 6 anni. Neo-laureato in grafica. In cerca di certezze. La prima scelta sullo pseudonimo era Leatherface, ma qualcuno l’aveva già usato. Da allora mi appello Leatherheart senza rimpianti. Scatto foto dal 2007, tutte in analogico, tutte con macchine maltrattate, ma con rispetto. Mi piace sporcarmi le mani.”
E anche a noi piace.
“Il fisiognòmica project consiste in una serie di ritratti ottenuti dalla ricomposizione di sei diverse foto del medesimo volto. Ogni singola parte è uno scatto a sé, con una propria prospettiva e una propria illuminazione. La distorsione causata dai diversi punti di ripresa, unita al 35mm in evidenza e ai difetti di sviluppo, modifica i lineamenti spersonalizzandoli. Da qui è possibile iniziare lunghi discorsi pindarici da gallerista ma fortunatamente non ne sono capace più di tanto”.
Ci piacciono gli effetti collater.ali del progetto fisiognòmica, in cui dai fori sprocket rinascono nuovi volti, imperfetti e maledettamente analogici.
Non c’è trucco e non c’è nessun inganno (contemporaneo).
Anzi, il primo c’è e si vede; e si deve vedere.
La collaborazione annunciata oggi fra Moncler e Rick Owens ci porta in una dimensione nuova, vestita di capi meticolosamente progettati per adattarsi all’ambiente ricreato da Owens. Uno scenario sicuramente innovativo e fuori dal comune, uno “Sleep Pod” che fa da sfondo a tutti i look della campagna di lancio. Dalle foto sembra di vedere una tenda dal carattere arrivata dal futuro, un backdrop confortante e straniante allo stesso tempo.
Moncler x Rick Owens: i dettagli della collezione
Un progetto intimo, fortemente introspettivo, che ritroviamo nel concetto di silent sleeping pod ricreato da Owens. «A metà fra un meat locker e una tomba egizia» si legge sul comunicato stampa rilasciato dal designer americano. Un concept sicuramente accattivante che arriva con outfit matchy-matchy da indossare all’interno di questa realtà isolata da tutto ma non solo. In più, sullo sfondo delle foto di campagna è possibile intravedere il logo co-branded che vedremo su tutti i capi.
Usciamo un attimo da questo Sleep Pod e parliamo della collezione: le silhouette sono allungate e le imbottiture presentano un motivo a raggera interessantissimo. La palette, chiaramente, gioca su toni scurissimi con l’aggiunta di denim in cotone tinto e jersey di cotone organico insieme a nylon e cashmere sfumati dal blu al giallo acido. La varietà dei capi rimane uno degli aspetti più interessanti: flight jacket, puffer e piumini insieme a cappotti extra lunghi accompagnano gonne, pantaloni corti e top. Il denim, invece, è tagliato per realizzare tuniche, abiti e gonne, sciarpe ad anello e stivali shaggy insieme a una coperta trapuntata. Insomma, c’é tutto quello che potevamo aspettarci da una collaborazione di questo calibro in questa collezione.
I donut dei Simpson, i preferiti di Homer, sono entrati nel nostro immaginario come le ciambelle iconiche per eccellenza. Tanto da convincere Swatch a riprodurle su un orologio. SECONDS OF SWEETNESS é un omaggio al mondo dei Simpson e ai donut tipicamente americani amati da Homer. Insomma, questo Swatch ci fa subito venir voglia di fare il rewatch del diciannovesimo episodio dalla nona stagione dei Simpson dove Homer viene processato da Giant Donut.
Parliamo dell’orologio. Si tratta di un oggetto che gioca con il tema donut diventando immediatamente riconoscibile per gli amanti della serie tv. Il quadrante a forma di ciambella morsicata aggiunge un tocco divertente al modo in cui indossiamo Swatch, in questa occasione vestito di zuccherini. In più, l’orologio é disponibile anche con la funzionalità SwatchPAY!, utilissima nella vita di tutti i giorni.
Disponibile a partire dal 2 novembre, proprio in concomitanza con l’arrivo della 35esima stagione dei Simpson. Ma le sorprese non finiscono qui, i fan di Swatch e della serie animata saranno sorpresi da altri progetti che coinvolgeranno tutti i protagonisti della serie tv. Questo orologio arriva insieme al lancio di altri due prodotti sempre ispirati al mondo dei Simpson: WONDROUS WINTER WONDERLAND e TIDINGS OF JOY. Il primo riunisce i personaggi del cartone in versione pan di zenzero mentre danzano sul cinturino tempestato di neve, mentre il secondo immortala la famiglia Simpson mentre canta insieme in occasione della stagione natalizia. I due modelli sono già disponibili nei negozi Swatch e sul sito.
Su Instagram circola da giorni l’immagine di una Birkinfatta di mattoncini Lego. La ricetta ideale per un contenuto virale. L’arancione che associamo a Hermès riproposto in una chiave nuova, straniante. La Birkin circolata ovunque e tutti gli altri luxury goods trasformati in Lego li potete trovare su @glam.tol, il profilo che ha fatto scoppiare questo fenomeno. Tutti i contenuti, però, sono confezionati grazie al prezioso aiuto dell’AI.
Molti degli oggetti pensati da @glam.tol e andati virali appartengono saldamente al concetto di quiet luxury, un aspetto interessante di questo fenomeno che ci ricorda quanto ancora siamo attratti da borse costosissime e accessori brandizzati – quindi riconoscibilissimi – come il cappellino firmato Ralph Lauren. Secondo alcuni, l’intenzione di queste immagini potrebbe voler annunciare l’arrivo di una collaborazione fra Lego e Hermès. Mentre su TikTok, altri non pensano sia possibile vista la rarità con cui la maison francese ha attivato partnership nel corso della sua storia.
Insomma, tanto fumo e niente arrosto, se non l’ennesima conferma di quanto sia facile creare immagini iperrealistiche grazie all’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale, un tema di cui si è dibattuto anche quest’anno da PhotoVogue ma che continua a essere rilevante non solo nel mondo della fotografia ma anche in quello del marketing. La viralità di queste immagini ne è la prova.
Per il quarto episodio di IN STUDIO, siamo andati a trovare la product designerAstrid Luglio. Co-founder del collettivo The Ladies’ Room insieme a Ilaria Bianchi, Agustina Bottoni e Sara Ricciardi, Astrid si specializza in una specifica branca del design, quella legata alla cultura culinaria. Provenendo da una famiglia di ristoratori e a seguito di un viaggio in Australia durato un anno, Astrid entra sempre più in contatto con la ristorazione e in particolare con gli ingredienti nel mondo della gastronomia, che la ispirano nella creazione di oggetti volti alla loro esaltazione. Siamo andati a trovarla nel suo studio a Milano, per scoprire di più sul suo percorso, sulla sua ricerca e sulla sua metodologia.
Chi è Astrid Luglio?
Classe ’88, Astrid Luglio nasce a Napoli per poi trasferirsi a Milano per studiare Product Design alla Nuova Accademia di Belle Arti. La dimensione del viaggio è stata parte integrante della sua formazione, in particolare quello in Australia che l’ha portata a interfacciarsi con il mondo della ristorazione. Tornata in Italia, dopo aver vissuto tre mesi in Vietnam, Astrid inizia a collaborare con TourDeFork di Milano, uno studio di design ispirato al cibo e alla cultura culinaria. Nel 2018 apre il suo studio indipendente e inizia a insegnare Design of Small Objects agli studenti internazionali del triennio della NABA. Con il collettivo The Ladies’ Room avvia una riflessione sul design contemporaneo, per indagare il bisogno di un coinvolgimento sensoriale. Proprio sulla sensorialità, Astrid Luglio sviluppa la sua ricerca legata alla cultura culinaria. Partendo dallo studio e dalla conoscenza approfondita di un preciso ingrediente, progetta una serie di oggetti che possano esaltare le proprietà del prodotto e, in senso più ampio, poter generare un’esperienza percettiva.
Lo studio
Ci troviamo alla fine di via Padova, sulla Martesana. Un quartiere un po’ lontano dal centro che senza dubbio lascia spazio alla concentrazione. Lo studio di Astrid Luglio è in realtà ibrido, qui lavora con i suoi collaboratori e vive con il suo compagno Sirio Vanelli, Direttore della Fotografia, e con la loro piccola figlia Lea, Blu. Il complesso che accoglie la casa-studio è già di per sé molto curioso. Si tratta della ex fabbrica Gio’Style ristrutturata dall’architetto Gianluigi Mutti. L’identità del luogo è stata mantenuta, dalle grandi vetrate industriali ai piccoli dettagli, come i campanelli che sono veri e propri pulsanti. Appena entrati nell’appartamento, siamo sorpresi dalla luminosità e dal respiro degli spazi. Una musica di sottofondo e piante sparse qua e là, ci accolgono in un ambiente rilassato e sereno, che ci proietta nel micro ecosistema della designer.
Da quanto tempo sei in questo studio?Come lo concepisci?
Siamo qui da poco, da un anno e mezzo. Stiamo capendo ancora come organizzarci, è tutto in divenire. Con Sirio abbiamo cercato apposta uno spazio che potesse essere casa-studio. Prima lavoravo in un co-working alla Fabbrica del Vapore, ma sentivo la necessità di avere più spazio, sia per fotografare e, in generale, per espandermi. Per questo abbiamo cercato uno spazio che potesse essere versatile. Per esempio, ho progettato appositamente dei tavoli con le ruote per rendere lo spazio adattabile alle nostre esigenze. È uno ambiente conviviale, sempre in evoluzione ed è proprio la caratteristica che per me deve avere lo studio.
Com’è stato il passaggio da uno studio esterno a casa-studio?
All’inizio è stato un po’ difficile perché sono un po’ gelosa del mio spazio-tempo. Con l’evoluzione della vita però l’ho trovato un super vantaggio perché prima di tutto ho la possibilità di gestire lo spazio come voglio. Poi il fatto che lo viviamo anche in modo molto famigliare è una cosa che mi piace molto. Mi piace l’idea di creare un ambiente in cui chi lavora con me si senta a casa. Con il fatto che abbiamo una figlia questo aspetto diventa fondamentale. Essere una madre freelance in una società che non ci mette nelle condizioni di far convivere l’aspetto lavorativo e quello famigliare non è facile, quindi ci siamo creati noi una dimensione in cui invece diventa gestibile. Ricrei quella micro società che vorresti in macro, con le proprie regole.
Nel concreto come vivi lo studio? Ti piace avere visite?
Abbiamo suddiviso l’area di lavoro in modo che ci sia sempre uno spazio super flessibile nella parte centrale. Quando dobbiamo scattare, usiamo i tavoli per gli still life, mentre in altre situazioni diventano luogo di cene con amici, designer e creativi in generale. La configurazione è ibrida anche per questo, chi viene, viene a mangiare in una casa-studio che è anche un ambiente produttivo e lavorativo. Chi passa magari ha anche piacere a lavorare qua, l’idea è questa. La porta è sempre aperta.
Questa dimensione casalinga ti fa sentire alienata in questo spazio?
Questa è una bolla, io qui perdo completamente la concezione del tempo e dello spazio. Sarà forse il contesto architettonico che invita ad isolarsi. La dimensione Martesana è un po’ a sé rispetto al resto di Milano. Per me tutta questa area è un po’ una bolla nella quale a volte mi perdo. Perdo la dimensione del tempo e dello spazio ma la cosa bellissima è che, in poco, se voglio riconnettermi con il mondo posso farlo. Per me è una novità perché prima eravamo in Sarpi, nel quartiere di Chinatown, in pieno casino. Indubbiamente un quartiere più vivo, però questo per me è un tempio della concentrazione entro cui lavoro molto bene. Poi in realtà le distrazioni ci raggiungono.
Parlando più di te invece, qual è stato il progetto che ha segnato una svolta nella tua carriera?
Ce ne sono due in realtà. Il primo è quello iniziale che mi ha fatto capire che potevo avere una visione su questa nicchia e che poteva funzionare. Si tratta del progetto Camere Olfattive, un calice per la degustazione olfattiva che ho progettato per il Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP. In pratica è un bicchiere che enfatizza le proprietà organolettiche del balsamico tradizionale o di qualsiasi liquido versato al suo interno, come fragranze, olio, caffè e vino. La cosa significativa di questo progetto è che fu il mio primo autonomo. Il Consorzio aveva indetto un bando per il quale bisognava progettare delle esperienze intorno al balsamico tradizionale. La prima cosa che ho notato è che la degustazione avveniva nei calici di vino o in cucchiaini in plastica, quindi con strumenti che non erano concepiti per questa funzione e non erano adatti a enfatizzarlo. Per cui io ho proposto questo calice che è in realtà una bolla di vetro borosilicato. La cosa interessante è che loro erano rimasti particolarmente colpiti da come gli odori riuscivano a esprimersi. Con questa esperienza ho capito come ci siano una serie di ingredienti che appartengono alla nostra cultura culinaria che mancano di una serie di strumentazione apposita, quindi quale pretesto migliore per progettare proprio partendo dal loro studio e arrivare a enfatizzazione alcune loro qualità.
Il secondo progetto che segna una svolta è uno degli ultimi che ho fatto, in cui c’è stato un cambio di scala completo. Io parto come progettista del prodotto, però il Panificio di Davide Longoni mi ha chiesto di affrontare una progettazione in scala maggiore, ripensando a uno spazio all’interno del panificio. In realtà, il processo creativo è uguale perché parto sempre dalla ricerca dell’ingrediente, in questo caso il pane. Siamo partiti dal back del magazzino, che loro usano per panificare. Qui c’era uno spazio inutilizzato nel quale Longoni voleva creare una situazione di scambio e di intimità intorno al tema della panificazione, che abbiamo chiamato Il Circolino del Pane. Una cucina in cui poter invitare pochissime persone, fare cene, talk e workshop. Il punto di partenza di questo progetto è stato capire come esprimere la miscela del pane attraverso i materiali, esprimendo al contempo anche la milanesità del panificio, essendo Longoni un punto di riferimento su Milano. Per cui siamo andati ad indagare un po’ quello che è la tecnica del cotto lombardo variegato, che mescola argille differenti. Con questa tecnica abbiamo realizzato delle piastrelle che sono alla base del progetto della cucina, realizzato con Very Simple Kitchen. Il risultato estetico vede la miscela di tre ingredienti che simbolicamente rimandano alla farina, all’acqua e al grano. Tra l’altro, le piastrelle si tagliano proprio come delle fette di pane. È un blocco di argilla in cui si mescolano tutte e tre e poi vengono affettate. Questo progetto mi ha aperto tutto un altro mondo, che è quello della progettazione di spazi, una cosa che fino ad adesso non avevo considerato. Mi è sembrato un altro punto di svolta perché c’è stato un passaggio dal prodotto allo spazio e ho capito che, se si parte comunque da un ingrediente, alla fine la progettazione può evolversi in altri modi.
Come avviene la tua fase di ricerca?
Se si parla di ingredienti, molto spesso devi andare a trovare questi ingredienti nel loro habitat naturale o comunque dove nascono e vengono prodotti. Per esempio, un progetto che ho disegnato due anni fa per la valorizzazione dell’olio extra vergine d’oliva, richiedeva che ci fosse un lavoro di ricerca a partire dai frantoi. Invece di partire qui dalla scrivania, siamo andati in Costiera dove si coltiva e lavora l’oliva campana. C’è una parte del lavoro che ha un output molto artigianale e poi ci sono anche progetti che sono completamente industriali, prodotti di massa che necessitano una progettazione differente. In entrambi i casi cerco sempre di tenere uno storytelling e una poetica comune, nonostante i processi produttivi diversi. Oltre alla parte sul campo, per me è molto importante avere un riferimento bibliograficoe materico, ogni progetto prevede l’acquisto di una moltitudine di libri sull’argomento, oltre che di oggetti curiosi legati ad esso.
Tornando allo studio, qual è lo strumento che non può mancare qui?
La cosa che posso definire imprescindibile è l’archivio dei sample, dei materiali che ho collezionato nel tempo. Mi servono tantissimo di volta in volta per creare moodboard materici dai quali partono le ispirazioni per i progetti. Poi anche la vecchia radio a transistor di mio padre, di cui amo la casualità con la quale sceglie i brani.
Anche se la risposta sembra scontata, te lo chiediamo lo stesso: te ne andresti domani da questo studio?
In realtà ti sorprenderò, sì. Mi piace pensare che questo sia lo spazio che va bene in questo periodo della mia vita. Un giorno potrebbe non rispettare più la mia metodologia. Sono molto aperta al cambiamento rispetto all’ambiente lavorativo. Anzi, io mi annoio spesso, per questo i tavoli hanno le ruote, perché tutto deve poter cambiare sempre, anche proprio dove mi posiziono nello spazio. La metodologia troppo rigida non mi appartiene, nonostante mi nutra di una serie di ossessioni per quanto riguarda il metodo di ricerca, però poi mi piace poterle mescolare in modo più randomico. Mi piace pensare che ci sia sempre un’evoluzione.
Come ultima domanda vogliamo un piccolo spoiler. A cosa stai lavorando al momento?
Sto lavorando per il team italiano del Bocuse d’Or, un concorso di alta cucina che si tiene ogni due anni a Lione. Ogni team studia e progetta un grande vassoio con quattordici portate, che sfila davanti a una giuria di giudici esperti. Il vassoio dev’essere molto sontuoso e avere una relazione stretta con quello che lo chef va a cucinare. Ogni anno ci sono chef emergenti che si presentano per la prima volta al pubblico internazionale. Se vincono il Bocuse d’Or è un po’ come per noi vincere il Compasso d’Oro. Per il progetto di quest’anno siamo partiti dalla ricerca sul mosaico fiorentino, sulle sue origini e sulla sua tecnica di applicazione. Quello che succede in questo concorso è che partecipando un po’ da tutti i Paesi del mondo, è importante valorizzare il Paese di provenienza. Di volta in volta, c’è una ricerca specifica su una tecnica o un mondo di riferimento che possa richiamare l’italianità in modo fine, senza essere troppo didascalici.