Il Fuorisalone, fratello (forse più popolare) del Salone del Mobile, anche quest’anno è accolto con grande entusiasmo dalla città di Milano, che si anima di eventi ed esposizioni dedicati al design. Se si visitano le gallerie, le istituzioni, gli spazi espositivi e i vari show-room è impossibile non notare i trend che stanno caratterizzando quest’edizione. Tra questi la prevalenza di elementi di arredo “singolari”, termine che qui va inteso in tutte le sue accezioni e che quest’anno ha portato più che mai il collectible design ad essere centrale nella Design Week. Il pezzo unico, artigianale e hand-made, caricato di una forte personalità e dai tratti innovativi, sembra provocare un assottigliamento della linea invisibile che separa il design dall’arte. L’oggetto diventa opera, il designer diventa artista, ed anche anche il linguaggio stesso subisce variazioni.
Questo cambiamento è in parte trainato dallo spazio che l’evento riserva ai designer emergenti, portatori di innovazione in termini di sperimentazione e di ricerca di nuove soluzioni. A modificarsi è quindi anche quell’idea di “design” più legato alla produzione in serie e al concetto di “design industriale”, ora portato sempre meno verso le fabbriche e sempre di più verso gli atelier e le gallerie d’arte.

Vista dalla prospettiva dei giovani designer, i motivi che li spingono a scegliere il collectible design sono da individuare nella disponibilità economica più limitata e, in generale, nella poca reperibilità dei materiali, che li portano a preferire quelli biologici auto-prodotti o quelli recuperati e poi riciclati. L’autoproduzione dei materiali e dell’oggetto stesso implica una svolta artigianale: il designer non progetta più solo il bozzetto (poi consegnato all’azienda per la produzione) ma lavora direttamente sul pezzo, producendolo dalla A alla Z, ottenendo così un esemplare unico.


Con questo non significa che il design industriale non sia ancora il focus centrale della manifestazione. Il Salone del Mobile, così come i grandi brand e le case di moda, propongono principalmente design prodotto su grande scala. Se questi brand hanno ancora la responsabilità di guardare ad una fascia più ampia di pubblico, questa edizione della Design Week ha sottolineato un’attenzione nei confronti dei prodotti unici. Sono soprattutto i cultori del settore, ma anche il pubblico più giovane, ad apprezzare il design artigianale e hand-made, su cui è possibile scommettere, proprio come accade per le opere d’arte degli artisti emergenti. Ecco allora che subentra la questione della riduzione del confine arte-design. Questo argomento divide nettamente gli addetti ai lavori in due fazioni: chi, come Antonella Adriani (vice-preseidente dell’ADI) crede che il design non potrà mai essere considerato un’opera d’arte, perché il design è democratico, inclusivo ed è qualcosa che “non si deve capire ma che dev’essere usato” come afferma Lisa Rosso a Spigola Podcast; mentre c’è chi lo considera sempre di più un’espressione artistica al pari della scultura. Questa seconda fazione non è del tutto da condannare anzi, la sua tesi trova conferma nel linguaggio utilizzato all’interno degli eventi di design di questa settimana. Facendo attenzione, si può notare come la parola “designer” o “progettista” venga spesso sostituita con “artista” o “creatore”, così come il termine “opera” sia preferito a “oggetto” o a “prodotto”. Le esposizioni diventano vere e proprie mostre, paragonabili a quelle d’arte.


Le ragioni che hanno portato il collectible design ad emergere in modo preponderante sono sicuramente tecniche e ambientali, come detto in precedenza, ma è anche preferito dai designer in quanto modo per potersi esprimere artisticamente. Il contatto con il pubblico è più immediato, soprattutto con quello giovane, e l’io creativo ha più spazio per affiorare. Il prodotto realizzato a mano crea più empatia con lo spettatore perché colpisce le sensazioni, piuttosto di quello industriale più freddo e meccanico.