Housatonic – Intervista

Housatonic – Intervista

Ludovico Vassallo · 8 anni fa · Art

Immaginate di essere tornati sui banchi di scuola e di stare prendendo appunti da una lavagna piena di schemi e parole stesi dal professore. Bene, il professore in questo caso è Housatonic, senza dubbio una realtà unica nel suo genere. È stata la prima azienda in Italia capace di tradurre le parole in concetti visivi per aiutare la comprensione e la memorizzazione. Riunioni e convegni diventano molto più interessanti se illustrati, ce lo assicura Carlo Alfredo, owner di Housatonic.

Benvenuto su Collater.al. Racconta ai nostri lettori cosa è Housatonic.

È uno studio che si occupa di comunicazione, che si occupa di quello che noi chiamiamo facilitazione grafica. Ovvero non siamo un’agenzia, non facciamo advertising, non facciamo classico graphic design ma usiamo le illustrazioni, la grafica e la visualizzazione per facilitare la comprensione e la memorizzazione dei concetti. Quindi per esempio aiutiamo le aziende a raccontare la loro mission, oppure aiutiamo all’interno dell’azienda a raccontare una storia complessa o una strategia. Partecipiamo a degli eventi, tipo conferenze o eventi aziendali, in cui visualizziamo i concetti. Questo perché la visualizzazione e l’illustrazione rende ogni concetto un po’ più accattivante e quindi anche cose noiose e complesse diventano più interessanti da scoprire ma poi sono anche più facili da ricordare. E quindi esistono anche ricerche che spiegano come l’occhio memorizza molto più dell’orecchio, e, quindi noi sfruttiamo questa caratteristica del cervello umano.

Il mind mapping e lo scribing sono stati per te e per tutta la crew di Housatonic le fondamenta su cui avete gettato le basi dello sviluppo dell’azienda. Spiegaci quanto hanno influito nei vostri primi passi Tony Buzan e Matt e Gail Taylor?

Buzan è venuto dopo, è effettivamente il teorizzatore del mind mapping però l’ho scoperto dopo. Invece Matt e Gail Taylor sono un po’ i fondatori delle metodologie di cui lo scribing e la facilitazione grafica fanno parte. Quindi loro hanno influito nel senso che sono i primi che hanno iniziato a utilizzare ad esempio un approccio grafico per facilitare la collaborazione e la conversazione tra persone all’interno proprio di eventi collaborativi. Sono un po’ i padri fondatori di quello che è intorno a tutto quello che facciamo.

Com’è nata la collaborazione con Matter Group?

Allora, la persona che ha fondato Matter è la persona che ci ha introdotto al mondo degli eventi e della facilitazione, e quindi da più di dodici anni lavoriamo insieme a livello individuale. E poi quattro anni fa, siccome lavoravamo sempre di più e sempre meglio insieme, abbiamo deciso di unire questa forte competenza da parte loro nella parte di facilitazione e progettazione di eventi collaborativi e da parte nostra di comunicazione e facilitazione grafica. Siamo specializzati in due cose che insieme fanno una forza molto più completa. E quindi nasce da un’amicizia professionale che poi è diventata personale e oggi siamo un tutt’uno.

Carlo Alfredo - Housatonic - Studio grafico e di comunicazione
Carlo Alfredo - Housatonic - Studio grafico e di comunicazione

Come ci si sente ad avere realizzato il primo sito al mondo che non contiene parole ma esclusivamente immagini e disegni?

Si sente che è stata una faticaccia però è stata una bella sfida perché l’idea era proprio quella lì. Ci siamo detti “ Cavolo, noi lavoriamo soprattutto per immagini. Abbiamo un sito che parla tre lingue e non parla solo quello delle immagini”. Quindi è stata una scommessa, secondo noi riuscita abbastanza a metà adesso ci sono delle idee per il prossimo passo. Però l’idea era quella di raccontare solo per immagini. Pensiamo che sia l’unico non ne abbiamo visti altri. Quindi da quel punto di vista ci si sente originali.

Parlaci di come inizia tutto il processo, creativo e non, durante una conferenza/riunione/workshop

Diciamo che un po’ dipende da quali sono gli obiettivi. Infatti, quando ci chiamano per fare qualsiasi cosa la prima cosa che chiediamo è “Qual è l’obiettivo? Che cosa dovete fare?”. Perché spesso ci chiamano dicendo ”Abbiamo una conferenza, ci serve uno che venga a disegnare”. E noi subito ci insospettiamo perché l’aspetto di andare a disegnare per fare, come dire, un aspetto scenografico e performante non è molto interessante. Quindi quello che facciamo è cercare di capire il contesto, cercare di capire bene gli obiettivi. E quindi gli obiettivi se sono per esempio quello di spiegare si crea un tipo di prodotto, anche proprio a livello di spazio nella conferenza, se è quello di creare una memoria collettiva finale o temporale durante l’evento magari c’è un altro tipo di approccio, così come se quello che si vuole raggiungere è un’interazione maggiore tra i partecipanti si può creare anche quello visivamente ingaggiando loro a livello di conversazioni e micro interventi, diciamo coinvolgendoli di più nella raccolta d’informazioni. C’è un grandissimo confronto continuo con il cliente per capire gli obiettivi e per co disegnare e co progettare la soluzione più adatta.

Per me il lato più brillante del vostro lavoro è slanciare la classica convention verso un altro piano pieno di spunti, disegni e riflessioni, riuscendo a centrare l’obiettivo. Che ne pensi?

È un po’ il nostro cavallo di battaglia. Cioè noi spesso facciamo l’esempio più del grigiore delle conferenze del fatto che spesso spengono la luce, attaccano delle grandi presentazioni di Power Point e la gente comincia a guardar le mail o a giocare a ruba mazzo sull’app col cellulare perché comunque si son rotti le palle di ascoltare uno che parla per due ore. E quindi noi li aiutiamo un po’ a distogliersi da quest’atmosfera pesante solo di ascolto. E quando l’ascolto è combinato anche a un ascolto visivo, l’attenzione viene risvegliata. E ci sono tutta una serie di conseguenze: perché poi il risultato finale è un prodotto che può essere riportato indietro, condiviso con gli altri, può essere mandato ai partecipanti dopo un po’ e quindi lo rivisitano e vengono ricordati i concetti, quindi ha molteplici funzioni.

La facilitazione grafica è uno strumento indispensabile per il marketing e le nuove comunicazioni. Mentre all’estero (penso ad esempio agli USA) questo metodo è molto usato, in Italia non è ancora ben compresa al 100%. Quanta strada pensi che ci sia ancora da percorrere?

Secondo me è meno diffusa qui perché si da un po’ meno credibilità all’aspetto estetico rispetto magari all’estero, dove aspetti creativi mischiati al cosiddetto business, o comunque ambienti lavorativi, vengono accettati e non guardati come adiposità. In Italia si ha un po’ più di diffidenza iniziale magari di aspetti creativi, di aspetti un po’ stravaganti rispetto a un contesto lavorativo. Cioè all’estero abbiamo fatto un sacco di lavori con ambienti tipo della finanza, banche, farm, che in teoria dovrebbero essere diffidenti a quest’approccio e invece quando lo vedono poi ne capiscono anche l’efficacia. In Italia si è ancora nella fase in cui è moda proprio perché si è visto all’estero magari e non viene ancora capita bene la potenzialità effettiva. Però diciamo che rispetto a un paio di anni fa già in Italia si sta già capendo il valore.

Come ci si sente a riprendere in mano matite e pennarelli e cambiare le parole in immagini davanti ai manager delle più importanti compagnie al mondo? Sentite un certo senso di pressione durante il vostro lavoro, non potete permettervi errori durante la vostra trasposizione grafica.

Sicuramente si, direi che tutti la sentiamo. Per i primi minuti c’è sempre un po’ di emozione anche perché spesso è una cosa che facciamo proprio in diretta, ascoltiamo e disegniamo, quindi non sai cosa potrà succedere, non c’è qualcosa di scritto prima o preparato. Quindi c’è un aspetto emozionante, un po’ come andare in scena o attaccare un concerto. Però dopo si prova un certo piacere, scatta un click, c’è una connessione con l’ascolto e con la parte creativa, e soprattutto riusciamo sempre a creare degli ottimi lavori in cui alla fine praticamente tutti vengono a ringraziarti, ammirano quello che hai fatto. Perché effettivamente aiuti le persone a fare un sacco di cose: a vedere i contenuti, a re interessarsi agli argomenti, a spiegarsi meglio con i propri colleghi. Quindi spessissimo cominciamo delle cose, abbiamo un po’ di timore, poi sembrano molto complicate e molto noiose e spesso diventano alla fine invece uno strumento utile per i clienti. Quindi non ti nascondo che c’è anche una certa soddisfazione da parte nostra nel vedere utilizzato quello che facciamo.

Carlo Alfredo - Housatonic - Studio grafico e di comunicazione
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Housatonic

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Brice Gelot, per l’amor di Dio

Brice Gelot, per l’amor di Dio

Tommaso Berra · 8 ore fa · Photography

Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società.
“For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista francese Brice Gelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.

Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano.
Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.

Brice Gelot | Collater.al
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
Photography
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I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

Giorgia Massari · 2 giorni fa · Photography

La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografa Tetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista.
Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.

Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 
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La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

Laura Tota · 2 giorni fa · Photography

Abitare un corpo, vuol dire percepirlo, riconoscersi ed essere riconosciuti. Significa sentirsi familiari verso se stessi e gli altri, rapportarsi al Mondo attraverso terminazioni nervose, adipe e sensi.
Il corpo è il centro nevralgico della nostra identità e volontà, e il nudo in particolare è stato a lungo uno dei soggetti preferiti dai fotografi sin dalla nascita del mezzo fotografico. Tuttavia, parlando di nudo maschile, la sua diffusione risulta inferiore, salvo alcuni casi particolari, poiché ritenuto meno interessante (se non addirittura disturbante) dal dominante “Male Gaze” (ovvero la raffigurazione dell’universo femminile, nelle arti visive e nella letteratura, da un punto di vista non solo maschile, ma eterosessuale, che rappresenta le donne come meri oggetti sessuali finalizzati alla mera soddisfazione del pubblico maschile). Solo dalla fine degli anni ’70, grazie alla nascita del movimento di liberazione omosessuale e del mercato pubblicitario, abbiamo assistito a una sua nuova nuova vita, capace di trasformare il corpo maschile in oggetto erotico e di contemplazione edonistica. 

 
 
 
 
 
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Ne sono un esempio gli iconici scatti di Robert Mapplethorpe, attratto dal nudo maschile sin dall’infanzia, che rievocano le nudità classiche e restituiscono dignità e bellezza a una categoria di persone considerate allora degradanti, o i più recenti ritratti del fotografo Florian Hetz che, attraverso serrati close up, immortalano la vera essenza e l’innata sensualità del corpo maschile.

Ed è proprio sul confine tra arte ed erotismo che si gioca la narrazione di “Bodies”, l’ultimo progetto di Francesco Paolo Gassi, giovane autore pugliese che nella sua pratica si confronta con la fisicità del corpo. Francesco è letteralmente ossessionato dalle imperfezioni e dalla naturalezza della sbavatura, lontana dai cliché estetici patinati: peli, pelle e fluidi corporei sono il suo terreno di gioco, dettagli e particolari i suoi punti di vista preferiti. Si muove con attenzione attorno al corpo maschile, ovvero ciò che è per lui più familiare, ma che allo stesso tempo è stato a lungo motivo di vergogna da parte di una comunità cui ha dovuto per anni nascondere la propria sessualità.

Arte, pornografia e tassonomia dialogano nello spazio fotografico. Le pose, studiate meticolosamente, proprio come l’illuminazione e la relazione del corpo con lo spazio, suggeriscono e alludono a un’erotizzazione del corpo che non è mai esplicita, orientano l’anatomia umana per enfatizzare l’insignificante e il banale, elevandolo a oggetto del desiderio. Il suo è un approccio quasi scientifico che, attraverso l’immagine fotografica, mira a rendere eterna la materia organica di cui l’uomo è costituito e a raggiungere l’essenza di ogni soggetto ritratto.
Così, i corpi maschili diventano il terreno da gioco ideale su cui rinegoziare l’identità, scevra da sovrastrutture sociali e libera da condizionamenti, presentata all’occhio dell’osservatore nella sua totale, disturbante e ambivalente autenticità. Il progetto abbina fotografie digitali a istantanee: nell’unicità di una polaroid si perpetua infatti l’irripetibilità del corpo, così come nella qualità dell’immagine digitale si riflette ogni singolo dettaglio della specificità epidermica di ogni corpo fotografato.

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi
Photography
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 3 giorni fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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