Quanto si vestiva bene Willy, il principe di Bel Air?!

Quanto si vestiva bene Willy, il principe di Bel Air?!

Andrea Tuzio · 9 mesi fa · Style

Questa è la maxi-storia di come la mia vita cambiata, capovolta, sottosopra sia finita seduto su due piedi qui con te ti parlerò di Willy superfico di Bel Air.”
Per chi come è cresciuto negli anni ’90 questa intro è diventata un cult, un richiamo primordiale alla gioia, alla piccola felicità che si celava dietro alla semplice visione di una sitcom che però ha polarizzato, e continua a farlo anche a distanza di 22 anni dalla sua uscita, l’attenzione di milioni di ragazzi in tutto il mondo, Willy, il principe di Bel-Air.

Il 10 settembre del 1990 andava in onda su NBC la prima puntata dell’indimenticabile The Fresh Prince of Bel-Air (in italiano Willy, il principe di Bel-Air), creata da Andy e Susan Borowitz, con protagonista un giovane Will Smith. La trama raccontava la storia di un ragazzo sensibile e intelligente ma cresciuto nella zona ovest di Philadelphia, fondamentale per strada, e che, dopo una rissa con dei brutti ceffi locali, viene spedito senza mezza mezzi termini dalla madre a vivere a casa degli zii a Bel-Air, per tenerlo lontano da quell’ambiente pericoloso e violento in cui Willy stava crescendo.

Willy viene catapultato a casa della zia Vivian (sorella della madre di Willy) e dello zio Philip, un importante e ricco avvocato di L.A., i due hanno tre figli: Carlton, il secondo genito e cugino malato e odiato da Willy e che ne rappresenta una sorta di nemesi, serio, studioso, preciso e puntiglioso; Hilary, la svampita e viziata primogenita dei Banks; e Ashley, sorella minore dei tre ma già molto intelligente, ragionevole ed empatica. 

Willy quindi si trova immerso all’improvviso in un contesto sociale ed economico lontanissimo da quello vissuto fino al quel momento e questa sarà la costante scintilla che darà vita a tutte le vicissitudini che andranno a comporre la trama che si svilupperà lungo le 6 stagioni della serie.

La sitcom ha avuto il merito di lanciare la carriera da attore di Will Smith, che grazie alla sua interpretazione del personaggio, da lì in poi vedrà le sue quotazioni alzarsi fino ad arrivare a vincere l’Oscar come miglior attore protagonista nel 2022 per il suo ruolo in Una famiglia Vincente – King Richard.

Un vero e proprio riferimento culturale per tutte le generazioni venute dopo l’uscita della serie, Willy, il principe di Bel-Air ha rappresentato una reference potentissima per l’impatto devastante che ha avuto lo styling del protagonista, e non soltanto, sulla cultura di massa.

Partiamo da quella che è la caratteristica principale dei look di Willy durante la serie, le sneaker.
Definito da Complex come “l’MJ della TV”, il personaggio interpretato da Will Smith ha senza dubbio rafforzato e consolidato il ruolo delle Air Jordan nello street style degli anni ’90 e in particolar modo delle Air Jordan 5, indossate da Willy già nella famosa e citata sigla iniziale scritta dal guru della black music Quincy Jones – anche Executive Producer della serie – e dallo stesso Smith.

Volevo che le persone le vedessero prima che uscissero”, ha dichiarato Will Smith a Complex, che spesso le indossava senza neppure i lacci, un omaggio e un riferimento alle adidas Superstar indossate, appunto senza i lacci, dai Run-DMC.

I suoi outfit erano una ventata di freshness e di collness. Le reference erano quelle del mondo hip-hop e quindi di quello streetwear: baggy jeans, tee e camicie coloratissime, cappellini altrettanto colorati, tute di ogni tipo e Nike ai piedi, alternate ogni tanto ai boot tipici di quel periodo.
“Per me la cosa più importante era il colore. L’atteggiamento del personaggio era sempre caratterizzato dal colore…”.
Il nostro “Fresh-Prince” con il passare del tempo è diventato un’icona di stile eccentrica e unica, mantenendo allo stesso tempo però, la capacità di unire stili diversi al di là di ogni tipo di stereotipo o convenzione culturale.

In generale tutti i protagonisti della serie, e i loro look naturalmente, hanno aiutato a definire e a esplicitare in modo chiaro e mainstream lo street style di quegli anni, regalandoci momenti divertentissimi e iconici sotto tutti i punti di vista oltre a una marea di outfit dai quali prendere spunto.

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Gli scatti imprevedibili di Nicolas Polli

Gli scatti imprevedibili di Nicolas Polli

Anna Frattini · 3 giorni fa · Photography

La fotografia di Nicolas Polli cattura momenti imprevedibili dando vita agli oggetti della quotidianità. Non solo fotografo ma anche graphic designer ed editore, Polli sembra non fermarsi mai. Nelle sue still life non c’è niente di banale, ogni elemento prende vita assumendo significati nuovi.

Nel 2012 ha fondato insieme a Salvatore Vitale il magazine fotografico YET e nel 2016 Atelier CIAO – uno studio indipendente specializzato in editorial design e still life – sempre al lavoro con brand di lusso e design. Ora anche artista residente presso l’Atelier Robert di Bienne, in Svizzera, Nicolas Polli in questa fase si concentra sugli still life. Tutto questo, dopo essersi inventato una vera e propria spedizione su Ferox, un pianeta inventato, nel 2017.

Se in Ferox, The Forgotten Files: A Journey to the Hidden Moon of Mars 1976–2010 Polli gioca con la nostra incapacità di discernere il reale dall’irreale, nei suoi still life riflette sul nostro fragile rapporto con gli oggetti quotidiani. Quando le sagome familiari di questi oggetti cambiano forma in maniera inusuale tutto cambia, anche la nostra percezione. In When Strawberries Will Grow on Trees, I Will Kiss U la combinazione di una buccia di banana, una brioche e qualche mozzicone di sigaretta assume un significato particolarmente disturbante ma il tutto funziona riuscendo a mostrarci gli oggetti banali da un punto di vista totalmente estraneo.

Ph. courtesy Nicolas Polli

Per altri scatti di Nicolas Polli qui il suo profilo Instagram.

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Elisa Roman e i sei anni di differenza

Elisa Roman e i sei anni di differenza

Giorgia Massari · 2 giorni fa · Photography

Sei anni è la differenza d’età fra le mie figlie” ci racconta la fotografa Elisa Roman (1976) che nel suo progetto Six years racchiude con poesia, istanti di vita quotidiana, osservando con un punto di vista voyeuristico le vite delle sue due figlie. “Una è leggera e spensierata, nel pieno della sua fanciullezza; l’altra al delicato debutto nell’adolescenza, velata di mestizia e grandi interrogativi.” continua Elisa, “Sei anni è un tempo sospeso, a metà fra orsacchiotti e smalti per unghie, in bilico fra la curiosità di crescere in fretta e il desiderio di rimanere a giocare ancora un po’.” 

Con qualche passo indietro, Elisa Roman osserva le sue figlie da lontano e guarda il mondo attraverso i loro occhi, rievocando al tempo stesso il suo passato. I momenti del presente si incontrano con i suoi ricordi, talvolta mescolandosi, talvolta parendo così lontani e diversi.
Lo scorrere del tempo è scandito dagli scatti di Roman, che documentano in qualche modo il percorso di crescita delle figlie. La loro trasformazione, il loro costruirsi un’identità, l’una affianco all’altra. Elisa ci racconta come non tutti gli scatti trasmettino spensieratezza ma che anzi, anche i litigi e i momenti di distacco sono oggetto di indagine. Le fotografie sono per la maggior parte ad unico soggetto, mostrando in modo esplicito la lontananza tra le due fasi di vita nonostante a volte sembrino invece così simili, tendendo l’una verso l’altra.

Con curiosità, mista a meraviglia e commozione, lo osservo evolversi nel loro continuo divenire e ritornare. Mare calmo e tempesta.
La crescita dei nuovi denti o un orsacchiotto dimenticato su una poltrona, sono solo alcuni degli elementi che ricordano costantemente ad Elisa quanto il tempo sia veloce e come gli attimi siano fugaci. In questo modo, Six years diventa “una specie di antidoto contro il tempo che sfugge.”

Courtesy Elisa Roman
Elisa Roman è allieva della scuola di fotografia di Irene Ferri, Arizona

Elisa Roman e i sei anni di differenza
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Se la fotografia racconta l’arte del passato: Luca Santese per il MARec

Se la fotografia racconta l’arte del passato: Luca Santese per il MARec

Laura Tota · 20 ore fa · Photography

Da quasi un anno, il Museo dell’Arte Recuperata (MARec) a San Severino Marche, accoglie centinaia di opere letteralmente salvate dai luoghi sacri del territorio marchigiano dopo il devastante sisma del 2016, una “casa temporanea” in cui poter riconsegnare al pubblico opere di arte sacra dal valore inestimabile datate tra il Duecento e il Settecento.
Il contesto da cui queste opere sono state violentemente separate dal terremoto, è restituito attraverso una suddivisione per luogo di origine delle belle stanze del Palazzo Vescovile, ma non solo: a dispetto dell’antichità delle opere esposte, la direttrice del museo Barbara Mastrocola ha fortemente voluto un intervento capace di restituire la potenza delle opere attraverso uno dei linguaggi più contemporanei, ovvero quello della fotografia e del video.
Ad accogliere la sfida, Luca Santese, fotografo e fondatore del collettivo Cesura, e Nicola Patruno, critico della cultura e curatore, attraverso la realizzazione di un documentario di ampio respiro che restituisce un paesaggio collettivamente vissuto, con una narrazione ricca di suggestioni, affetti e parole di chi di quel territorio è parte integrante.
Nel mese di aprile, inoltre, è stata presentata una pubblicazione molto significativa per restituire la missione del museo: non un catalogo, ma un volume che “è un percorso dentro le opere – racconta Barbara Mastrocola – che sintetizza con immagini altamente evocative il senso di questo Museo, cioè quell’anelito di Rinascita che passa anche dal recupero delle opere d’arte, sorprendenti testimonianze dell’antica vivacità, anche economica, dei luoghi che oggi, soprattutto dopo le ferite del sisma, ad una superficiale lettura, ci apparirebbero un po’ emarginati rispetto allo sviluppo che, nelle terre marchigiane, sembra essere avvenuto solo nelle località costiere”.
Abbiamo chiesto a Luca Santese di raccontarci in che modo la fotografia ha contribuito a definire l’identità del MARec.

L’esperienza editoriale non è nuova nella tua pratica, anche se qui ci troviamo di fronte a una pubblicazione ibrida che non è un catalogo, ma neanche una semplice guida. Eppure, la sua capacità di portare il pubblico all’interno del progetto MARec è molto alta, grazie a un equilibrato uso di testi e immagini. Come avete coordinato il lavoro tu, Nicola Patruno e Barbara Mastrocola? Quali sono gli obiettivi della pubblicazione?
Come dici ho iniziato molto giovane con l’editoria indipendente attraverso Cesura, mio collettivo fotografico, e la sua casa editrice indipendente Cesura Publish con la quale mi sono occupato principalmente di libri di fotografia autoriale. Questo catalogo ha trovato una sua identità forte perché porta con sé questa mia esperienza unita alle competenze di Nicola Patruno, curatore e critico della cultura, di Giulia Fumagalli, grafica esperta e sperimentale e Barbara Mastrocola, Direttrice del museo MARec di cui conosce singolarmente tutte le opere e che ha curato, insieme a me e Patruno, il volume fin da principio.

Nel tuo caso, da fotografo di ricerca con una visione estremamente contemporanea, che taglio hai voluto dare alle immagini delle opere ritrovate? In che modo queste opere incredibili, ma appartenenti a un’altra epoca e ad altre ferite/storie sono riuscite a parlarti e come sei riuscito a darne conto?
La Direttrice mi ha concesso il privilegio di poter interpretare fotograficamente le opere del museo lavorando sulla scultura con una luce non scientifica, dal punto di vista della catalogazione, ma drammatica. Luce che ha permesso di esaltare l’espressività delle opere, dando quasi vita ai soggetti. Anche per quanto riguarda la pittura ho potuto lavorare liberamente sulla scelta dei dettagli così da creare quasi dei quadri nei quadri. Lavorare fotograficamente a contatto con la pittura e la scultura medievale è un’esperienza potente che mette il fotografo in relazione intima e di conoscenza profonda con le opere stesse.

Quanto il fatto di aver diretto anche il documentario, e quindi di esserti addentrato maggiormente nel tessuto narrativo/esistenziale del territorio, ha influito sul tuo modo di scattare?
Sicuramente molto perché l’esplorazione del territorio al fine di realizzare questo documentario con Nicola Patruno è stata approfondita e metodica e mi ha permesso di conoscere a fondo lo spirito del luogo che è conservato e vive anche nelle opere, nella loro funzione di culto e di memoria che le lega inscindibilmente agli abitanti.

Nella pubblicazione ci sono molte foto di dettagli, i punti di ripresa sono a volte inusuali, in alcune l’utilizzo della luce è teatrale, quasi a voler drammatizzare i soggetti fotografati: sicuramente una modalità di scatto più autoriale rispetto a quella dei meri cataloghi museali e che pone questa pubblicazione su un livello di lettura diverso. Credi che questa scelta riguardi anche i testi e i contributi degli altri professionisti con cui hai lavorato? A quale pubblico è destinata questa pubblicazione così particolare?
Come dicevo ho potuto interpretare fotograficamente le opere del museo lavorando sulla scultura e la pittura con una luce e delle inquadrature non scientifiche dal punto di vista della catalogazione ma che ne sottolineasse l’espressività. Questo metodo è stato applicato da tutti i professionisti che hanno lavorato a questo progetto e, di conseguenza, su ogni aspetto del lavoro. Abbiamo insieme voluto valorizzare non solo la fondamentale funzione documentale del catalogo ma anche l’aspetto espressivo legato all’interpretazione curatoriale, grafica e fotografica. Un aspetto essenziale al nostro scopo: trasmettere con la maggior forza possibile la forza non solo delle opere ma di tutta la storia che le vivifica e le sorregge, dal salvataggio alla nuova vita.

Se la fotografia racconta l’arte del passato: Luca Santese per il MARec
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L’emotività secondo Alex Garcia

L’emotività secondo Alex Garcia

Anna Frattini · 13 ore fa · Photography

Gli scatti di Alex Garcia comunicano le emozioni in modo chiaro anche nella loro complessità. Raccontano questioni sociali e malinconia. Non solo fotografo ma anche musicista, Garcia riesce a fare sue queste discipline esprimendosi al meglio con la fotografia. L’empatia è una delle componenti fondamentali nei lavori di Garcia ed è il suo mezzo per comunicare con lo spettatore. L’emotività dei suoi scatti passa per sentimenti umani come la solitudine riuscendo a comunicarne la potenza ma anche la bellezza.

ordinary ghosts, 2023

Nonostante la giovane età, gli scenari creati da Alex Garcia comunicano qualcosa di forte. Mettono insieme luoghi evocativi a sentimenti di profonda tristezza come nel suo ultimo progetto, we get married in our heads.

Solitamente, negli scatti di Garcia i soggetti sono immortalati da soli o in coppia e ogni componente della sua fotografia – dalla luce alle ombre passando per l’ambientazione – è pensata per comunicare un’emozione precisa. two people e sleep tight sono l’esempio perfetto della potenza comunicativa degli scatti di Garcia.

Per scoprire gli altri progetti di Alex Garcia qui il suo profilo Instagram.

Ph. courtesy Alex Garcia

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