108 – Intervista + Lava

108 – Intervista + Lava

Fontastiko · 10 anni fa · Art

Nato ad Alessandria nel 1978, Guido Bisagni, al secolo 108, è stato uno dei primi writer e artisti italiani a imporsi all’attenzione del Post-graffitismo europeo per i suoi lavori di natura astratta. È il 1999 quando sui muri di New York iniziano a materializzarsi enigmatiche figure gialle, frutto dello scambio di “artwork” tra diversi artisti di strada; uno su tutti DAVE, la cui mission di quegli anni sembra essere tappezzare la grande mela con sticker provenienti da tutto il mondo. Ispirato dai graffiti dell’Europa neolitica del novecento e da artisti come Olivier Stak e Richard Long, la sua pittura è un misto tra avanguardia ed espressionismo neo-pop, in cui l’aspetto figurativo lascia il passo a interpretazioni di stampo primitivista.

108 - Lava + Intervista

Un artista completo che Ritmo, una delle realtà emergenti più interessanti del panorama catanese, vi permetterà di osservare da vicino dal 18 luglio fino al 8 settembre, presso i suoi locali di via Grotte Bianche, 62 a Catania.

108 - Lava + Intervista

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Un incontro primigenio tra l’astrazione misteriosa delle forme e la concretezza del paesaggio vulcanico, raccolto in un volume a tiratura limitata che sarà possibile preordinare direttamente qui.

108 - Lava + Intervista
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Da bravi co-produttori e media partner dell’evento, non potevamo fare a meno di rivolgere qualche domanda a 108, in un rilassato tête-à-tête pomeridiano dal retro gusto di thè.
Ecco come è andata:

1Bella 108, come mai da queste parti?
Non è la prima volta che vengo in Sicilia, mi è piaciuta così tanto che appena Ritmo mi ha prospettato la possibilità di ritornarci non ho esitato un attimo ad accettare.

2So che i ragazzi di Ritmo ti braccavano da tempo, raccontaci un po’ come è nata quest’asse Catania-Alessandria.
Come ti dicevo, qualche tempo fa mi contattarono chiedendomi se mi andava di fare qualcosa con loro. Conoscendo le mostre e gli eventi che avevano già realizzato (Canecapovolto, Federico Lupo, Andrea Sartori… ndr) pensai subito che fosse una bella idea. Quando poi venne fuori questa cosa dell’Etna ne fui subito entusiasta. Le montagne rappresentano uno dei miei elementi preferiti, e non parlo solo artisticamente. Appena ho un giorno libero l’obiettivo è sempre la cima di qualche montagna. Il vulcano è una dimensione totalmente nuova, affascinante sia per quanto riguarda le forme, incredibilmente vicine alle mie, sia per quanto riguarda l’aspetto magico e mitologico, centrale in tutto il mio percorso artistico.

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3Dal 18 luglio all’8 settembre, andrà in scena presso i locali di Ritmo, “Lava”: retrospettiva che mette in mostra alcune delle tue opere più significative realizzate su carta. Tutto qui?
Ovviamente no. Oltre ai lavori a china, in cui è riassunta tutta la mia ricerca sulla forma degli ultimi 14 anni, ci saranno due pitture murali (una all’esterno e una all’interno), proiezioni video e alcune mie composizioni sonore affidate a 1984 (musicista, dj-producer catanese ndr). Non sempre le mostre ti permettono di valorizzare altri aspetti oltre a quello pittorico, per questo quando ciò accade sono molto contento.

4Dal punto di vista formale, le tue opere risentono di un certo “primitivismo”, non a caso tra gli artisti che ti hanno maggiormente influenzato figurano i nomi di Olivier Stak e Richard Long. Spiegaci brevemente in che modo queste due icone di street a land art hanno influito sul tuo percorso artistico.
Per quanto riguarda Stak, è grazie a lui se verso la fine degli anni ’90 ho iniziato a cambiare il mio modo di vedere l’arte. Perdere le lettere conservando la forma, avviare una vera ricerca artistica d’avanguardia e far vedere che, nonostante l’invadenza della cultura statunitense, le vere idee non vengono solo da lì, sono tutte cose che ho imparato da lui. Non mi voglio dilungare troppo ma credo sia uno dei più grandi del post-graffitismo mondiale, un vero pioniere, troppo interessante e originale per finire nel calderone della “street art”. Per quanto riguarda Long, appartiene a quella serie di artisti da cui ho attinto molte delle idee base di ciò che ho fatto come 108; ad esempio l’importanza del contesto, del luogo, del come si fanno le cose e del non ridurre tutto a una questione di “forma”. Detto questo, anche a livello estetico i suoi lavori sono tra le cose più riuscite degli ultimi decenni, credo. Per chiudere direi che da entrambi ho appreso come sia più importante trovare un’idea semplice ma valida che mascherare le proprie mancanze con fronzoli e abbellimenti inutili.

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5Nel mondo del writing molti ti indentificano come uno tra i primi, se non addirittura “il primo”, ad aver abbandonato uno stile figurativo a favore di uno decisamente più astratto. Come e in che cosa è cambiata la tua arte dai muri di Alessandria a quelli della Biennale di Venezia nel 2007?
Ti ringrazio molto per questo, ma come ti dicevo, l’idea mi venne nel ’96-’97  vedendo alcuni lavori illegali di Stak, quindi è a lui che devo ciò. È anche vero però che dalla fine degli anni ’90 fino alla fine dei 2000, nessuno ha portato avanti l’idea di astrattismo, minimalismo o simbolismo. Molti passarono dal lettering al figurativo, oppure a un’opera di semplificazione della lettera in cui comunque questa continuava a essere presente. Mi ricordo che per anni l’unico dei “primi” che ogni tanto incontravo e che continuava un discorso astratto era Eltono. Ora tutto sembra essere cambiato, negli ultimi 3-4 anni sono usciti molti nuovi artisti che si dedicano all’astrattismo, anche se troppe volte i loro lavori non sono nient’altro che la copia di opere realizzate 100 anni fa.
Quando mi invitarono all’Arsenale durante la Biennale del 2007 fu un grande onore. In quel periodo il boom della street art doveva ancora arrivare e chi mi invitò lo fece solo per autentico interesse, anche perché non mi conosceva di persona. Detto questo, iniziai a dipingere come se fossi in una fabbrica abbandonata o come quando mi rapporto con la tela, pensando solo alla mia ricerca e a fare qualcosa che soddisfi prima di tutto me stesso.

6Da Parigi a New York, passando per Londra e Berlino, quale città tra quelle in cui hai dipinto pensi che i tuoi lavori abbiano lasciato maggiormente il segno e perché?
Chi mi conosce sa che amo stare un po’ in disparte e fare il mio. Nel senso che dal punto di vista “mediatico” la gente ricorda i lavori realizzati nelle grandi città, come ad esempio le piccole forme gialle a New York, ma se devo essere io a scegliere preferisco sempre lavorare in posti più onesti, quelli in cui posso ancora sentire lo spirito del luogo, conoscere la gente e la loro storia. Alcune tra le più grandi soddisfazioni me le hanno date vecchi muri muschiosi tra le fabbriche in mezzo al nulla. Se però parliamo di centri urbani posso nominarti la Polonia, in cui ho dipinto diverse volte, oppure Brè: il paesino in cima alla montagna che sovrasta Lugano, in cui mi sono sentito parte di esso. Inutile dire che in tutti questi posti in cui ho trovato un’energia particolare ora ho dei veri amici.

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7Secondo molti la street art sta assumendo sempre più le sembianze di ciò che ha sempre cercato di combattere. È solo una questione di soldi o pensi che stencil e poster siano realmente entrati a far parte del linguaggio visivo della nostra società?
Credo che tu abbia ragione. Molti di quelli che facevano lavori di contestazione ora magari lavorano per Nike o per qualche industria di automobili. Devo dire che nei casi estremi ci vorrebbe almeno un po’ di coerenza, ma non intendo fare polemica. La maggior parte delle volte si parla di “artisti” che non avevano nessun valore artistico prima e non ce l’hanno adesso. Un problema che deriva dall’ignoranza di curatori improvvisati che per sfruttarne il valore “pop” hanno permesso a questa gente di entrare in musei e gallerie. Per quanto mi riguarda non mi considero parte della street art, la mia ricerca contiene lavori realizzati in ambito pubblico ma non solo. Ho sempre fatto scelte molto poco commerciali perché non riuscivo a fare altro, non sono mai riuscito a scindere il mio lavoro dalla mia vita e dalle mie idee. Non mi interessa diventare famoso in 6 mesi ed essere dimenticato in altri 6.

8Nel 2008, insieme a Eltono, Dem, Microbo e altri, sei stato scelto per rappresentare l’Europa al Nomadaz di Los Angeles. Oltre al fuso orario e qualche doveroso trofeo da hotel, cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
Pablo Aravena, il curatore, ci invitò a questa collettiva dedicata all’arte urbana europea che si teneva allo “Scion Space” di Los Angeles. Lo spazio era fantastico e dal momento che né io né Dem eravamo mai stati negli USA, accettammo volentieri. Dopo un viaggio interminabile e un bagaglio smarrito, arrivati in Hotel a Beverly Hills mi venne assegnata la camera 108, le solite incredibili coincidenze. Lavorammo per 9 giorni prima dell’inaugurazione delle opere.
Per fortuna avevamo un frigo pieno di birra 24 ore su 24, perché oltre l’hotel e le 14 ore giornaliere che passavamo in galleria, non facevano nient’altro.
La cosa più incredibile fu vedere che tutto quello che mi ero immaginato di quella città fin da ragazzino crollava giorno dopo giorno. Il livello culturale degli addetti ai lavori era bassissimo, alcuni degli artisti che tutto il mondo copia, e che giravano da quelle parti, non conoscevano nemmeno il futurismo o la secessione viennese, pensando di essersi inventati tutto loro. Molti di quelli con cui parlammo ci vedevano come dei dilettanti ansiosi di arrivare nella meravigliosa America, pensando che facessimo cose diverse dalle loro perché non eravamo capaci di copiarli bene. Nessuno conosceva la scena europea, molti non capivano e non avevano minimamente voglia di conoscere il nostro lavoro. Per noi italiani la situazione era anche peggio, perché mentre gli spagnoli erano supportati dal loro paese con del denaro pubblico – visto che esportavano cultura – noi avevamo solo biglietto aereo, cibo e hotel offerti dalla galleria. L’ultima settimana che io e Dem ci prendemmo in più per vedere la città fu un disastro. Eravamo disperati ma per fortuna trovammo un ragazzo italo-polacco che ci ospitò in cambio di una pittura murale in casa sua. In definitiva fu molto divertente ma anche un po’ triste.

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9Tornando a “Lava”, i ragazzi di Ritmo mi hanno detto che tra le tappe del tuo soggiorno in Sicilia c’è anche l’Etna. Solo un saluto a uno dei vulcani più famosi al mondo o dobbiamo aspettarci qualcos’altro?
Purtroppo non sono mai riuscito a visitare l’Etna di persona, così quando ha iniziato a prendere forma Lava, l’unica cosa di cui ho voluto accertarmi è stata quella di riuscire a farci un salto. Come ti dicevo prima il rapporto tra le mie forme e quelle delle montagne è più che evidente, stessa cosa con la lava. Il fatto che sia stata plasmata dalle stesse forze che hanno creato l’universo è semplicemente straordinario. E poi non bisogna dimenticarsi dell’aspetto mitologico, che per me non rappresenta solo un fattore culturale. All’interno di questo vulcano, Efesto aveva la sua fucina e lo stesso nome Etna, deriva dalla mitologia classica, a dimostrazione della sua importanza anche sotto un profilo animista. Sicuramente non sarà solo un saluto superficiale.

10 – Durante tutta l’intervista ho carpito telepaticamente che non vedi l’ora di dedicare un tuo pezzo a Collater.al. Beh, ti farò sapere, ma in linea di massima non ci dovrebbero essere problemi.
Ahahah… ok, allora fatemi sapere se posso!

11 – In attesa del tuo splendido regalo non posso non concludere il nostro incontro senza chiederti del girovita. Qualche giorno fa fissai in un chilo al giorno l’aumento della tua massa adiposa. Ci ho azzeccato?
Quest’anno tra cibo e birra sono ingrassato già un bel po’, spero ti stia sbagliando. Da quando sono qua però, mi continuano a venire in mente parmigiane, caponate, arancini… e credo sarà molto dura riuscire a fare sempre il bravo.

Grazie mille 108, (si, l’ho scritto apposta per fare il gioco di parole) è stato un piacere scambiare due chiacchere con te. Oltre a rivederci da Ritmo giovedì 18 luglio, sappi che per te le porte di Catania saranno sempre aperte, soprattutto quelle di ristoranti e pasticcerie.
Un abbraccio, a presto.

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Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Tommaso Berra · 3 giorni fa · Photography

Basta ascoltare le conversazioni che nascono dentro la propria testa a Cecilie Mengel per immaginarsi come potrebbero essere rappresentate fotograficamente. L’artista danese e ora residente a New York realizza scatti che sono dialoghi interiori nati dagli stimoli che lei stessa riceve da ciò che la circonda e dalle persone con cui si trova a vivere momenti molto quotidiani.
Il risultato è una produzione artistica che è contraddistinta da una forte varietà nei soggetti e nelle ambientazioni, così come nello stile, una volta documentaristico, altre volte più vicino a una certa fotografia posata e teatrale. Si passa da scatti rubati in casa durante una conversazione a dettagli di una latta di salsa Heinz trovata nel porta oggetti di un taxi, tutto ricostruisce una storia comune e quotidiana.
Anche la tecnica di Cecilie Mengel rispecchia questa stessa idea di varietà. L’artista infatti combina fotografia digitale e analogica, in altri casi la post produzione aggiunge segni grafici alle immagini. Le luci talvolta sono naturali altre volte forzatamente create con il flash, creando un senso d’insieme magari meno omogeneo ma ricco di suggestioni e raconti personali.

Cecilie Mengel è stato recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Cecilie Mengel | Collater.al
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Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
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Diego Dominici e il velo di Maya

Diego Dominici e il velo di Maya

Giorgia Massari · 3 giorni fa · Photography

Un velo delicato, quasi trasparente e impercettibile, fluttua davanti ai nostri occhi e filtra la realtà, che diventa soggettiva e mai assoluta. Il filosofo Schopenhauer lo chiamava “il velo di Maya”, quell’impedimento che vieta all’uomo di fare esperienza del reale, che ci illude di conoscere la Verità. Il fotografo Diego Dominici lo pone tra lo spettatore e i suoi soggetti, trasformandolo in effettivo protagonista delle serie Atman e Red Clouds. Le figure – uomini e donne – sono intrappolate nel velo, lottano con esso tentando di evadere, aggrappandosi con forza, cercando di penetrarlo, in altri casi invece lo accolgono, adagiandosi e uniformandosi alla sua morbidezza che persuade. Allo spettatore è permesso solo intravedere le forme dei loro corpi nudi e le loro ossa impresse sulla superficie, in una danza di luci e ombre che trasmettono sensualità e solitudine allo stesso tempo.


Diego Dominici tenta di rompere la bidimensionalità della fotografia, creando due piani di profondità: quello dettato dal tessuto e dalle sue increspature e quello in cui è posizionato il soggetto. L’occhio dello spettatore è portato a muoversi continuamente sulla superficie, cercando di superarla e raggiungere così il soggetto e le sue forme dunque, in altre parole, la Verità.
L’analogia con la psicologia umana è dichiarata dal fotografo che vuole “squarciare la bidimensionalità per indagare i grovigli dell’interiorità umana”. Come nei suoi scatti, l’uomo può scegliere di farsi cullare dal velo dell’illusione, farsi accarezzare da una fittizia realtà e rimanere fermo sul suo punto di vista, oppure può scegliere di romperla, raggiungendo così l’altro lato e guardare la realtà da un’altra prospettiva. Il tessuto, o meglio il velo, diventa l’emblema delle barriere relazionali, quegli ostacoli che si interpongono tra noi e gli altri, che ci impediscono di comprendere le ragioni altrui e che creano distanze incolmabili. Allo stesso tempo, il velo diventa parte di noi, una sorta di involucro che ci avvolge e ci plasma, impedendoci di andare oltre. Ma, come diceva Schopenhauer, il velo di Maya dev’essere abbattuto, squarciato come una tela di Fontana, l’uomo deve abbandonare l’involucro come un serpente che cambia la propria pelle, per potersi aprire all’altro. Del resto, cos’è l’amore se non “l’annullamento dell’ego, il crollo di ogni discriminazione cosciente e la rinuncia a ogni metodica scelta”? diceva Salvador Dalì ne La mia vita segreta. Le opere di Diego Dominici invitano quindi a una profonda riflessione intima ma, grazie alla sua estetica attentamente curata, possono anche semplicemente appagare la vista e apparire come opere sensuali, in cui il velo diventa un preludio al piacere intimo.

Diego Dominici | Collater.al
Diego Dominici e il velo di Maya
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6 foto per scoprire la magia di Rodney Smith

6 foto per scoprire la magia di Rodney Smith

Tommaso Berra · 40 secondi fa · Photography

È stato prima un grande insegnante, educatore e saggista, poi anche un grande fotografo, che ha legato la propria carriera al ritratto e più avanti al mondo della moda. Nel corso della sua carriera di Rodney Smith (1947-2016) ha rappresentato scene meticolosamente costruite, umoristiche, paradossali, romantiche e divertenti, che verranno ora raccolte in un volume intitolato “Rodney Smith: A Leap of Faith“, contenente oltre duecento fotografie – alcune inedite – appena acquisite dal J. Paul Getty Museum.
Il progetto e l’acquisizione di Getty ripercorrono una traiettoria creativa che ha fatto della fantasia e dell’eleganza un vero filone fotografico. Gli spettatori sono invitati ad attivare un confronto con il surrealista René Magritte, il pittore che per temi e soggetti si avvicina maggiormente a Rodney Smith, mentre il curatore del Getty Museum Paul Martineau descrive Smith: “…come Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, le sue fotografie ci conducono nella tana del coniglio in un luogo fantastico che è appena fuori dalla nostra portata ma destinato a ispirarci a essere versioni migliori di noi stessi”.

Collater.al ha selezionato sei tra le più belle fotografie di Rodney Smith: A Leap of Faith, l’impressione è quella di avere davanti frame di un film fantastico o scene di un grande musical in costume, con i protagonisti che si trovano a ballare e baciarsi sopra il tetto di un taxi giallo di New York.

Rodney Smith | Collater.al
Figure 1 Twins in the Tree, Snedens Landing, New York, 1999 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 41 Self-Portrait with Leslie, Siena, Italy, 1990 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 86 A.J. Chasing Airplane, Orange County Airport, New York, 1998 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 110 Reed Leaping Over Rooftop, New York, New York, 2007 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 115 Wessel Looking Over the Balcony, Paris, France, 2007 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 126 Edythe and Andrew Kissing on Top of Taxis, New York, New York, 2008 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
6 foto per scoprire la magia di Rodney Smith
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La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy

La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy

Giorgia Massari · 5 giorni fa · Photography

Da un reel di Instagram del fotografo canadese Sean Mundy si intuisce la complessità delle sue opere fotografiche. I suoi non sono solo scatti ma piuttosto si può affermare che le sue opere siano il risultato di una grande immaginazione veicolata dalla fotografia, da abilità tecniche di post produzione digitale e dalla dettagliata costruzione scenografica. Nel reel infatti, il fotografo mostra il processo di realizzazione dell’opera Summoning che raffigura una serie di corpi precipitare da un’apertura nel soffitto. I personaggi “volanti” alla Magritte sono in realtà la stessa persona: il fotografo realizza molteplici autoscatti mentre si lancia su un materasso, simulando la caduta, per poi lavorarli digitalmente e creare la composizione. Il risultato è un lavoro concettuale e sorprendente, in cui l’armonia visiva accentua e veicola messaggi sociali, con un focus particolare sulle dinamiche di comportamento collettivo.

Sean Mundy | Collater.al

Ricorrente nelle opere di Sean Mundy è la figura di un uomo incappucciato di cui non è visibile il volto. L’abbigliamento total black che indossa lo rende una figura misteriosa, inquietante e tenebrosa, come se fosse un’ombra senz’anima. Molto spesso il personaggio in nero appare in maniera ripetuta nella stessa opera, creando un gruppo unito somigliante ad una setta, intento in azioni a tratti macabre. In alcune opere il gruppo è messo in opposizione ad un singolo, come nell’opera Elude del 2014, in cui le figure in nero inseguono un uomo in fuga, che si differenzia per l’abbigliamento da uomo comune, in jeans e t-shirt. In altre opere invece vengono eseguiti comportamenti rituali, ne è un esempio l’opera Idolatry che mostra il gruppo inginocchiato davanti ad un enorme cubo nero sospeso nell’aria. Questa serie di opere è un chiaro riferimento ai comportamenti sociali in cui il singolo non possiede una propria identità personale ma piuttosto emerge un’identità collettiva che spinge il singolo ad uniformarsi alla massa, sia dal punto di vista ideologico che estetico.
In altre serie il protagonista, solo o in gruppo, è messo in relazione ad elementi che dominano la composizione come il fuoco nella serie Barriers, paesaggi urbani distrutti in RUIN e teli rossi in Tethered, la serie più recente di Sean Mundy. L’intento rimane sempre quello di comunicare problematiche attuali, legate in particolar modo ai meccanismi psicologici umani indotti dall’esterno ma con evidenti ripercussioni intime.

Sean Mundy | Collater.al
Sean Mundy | Collater.al
Courtesy by Sean Mundy
La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy
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