Siamo fatti così, che quando veniamo travolti da un nuovo fenomeno, abbiamo necessità di definirlo, di dargli un nome, identificarlo e farlo assomigliare a qualcosa che già conosciamo, per provare a ridurre la sua complessità.
Ma quando siamo di fronte a Billie Eilish ogni tentativo va a puttane perché quando crediamo di aver finalmente trovato la giusta chiave di lettura, ci rendiamo conto che è valida solo per metà, per un terzo, almeno un po’, nemmeno per niente.
Al contrario, lei che ha diciassette anni sa già tutto di noi.
Si dice che quando qualcuno arriva a conoscere le nostre debolezze, siamo praticamente fottuti e lo siamo con Billie Eilish dal momento che sa di cosa abbiamo paura, quanto ci facciano impressione le tarantole e il sangue dal naso, e quanto temiamo le cose che non conosciamo.
Tipo il posto in cui finiamo quando ci addormentiamo.
Tipo lei.
Di Billie Eilish sappiamo, oltre al fatto che ha 17 anni, che è di Los Angeles e che ha iniziato a scrivere le canzoni in camera sua col fratello Finneas O’Connell da che aveva 13 anni. Il primo brano che ha caricato su Soundcloud è Ocean Eyes e nel 2017 ha pubblicato il primo EP dont smile at me.
Scrive i titoli delle canzoni in minuscolo, cambia colore dei capelli spesso, le piace Tierra Whack e ha più di 16 milioni di followers su Instagram.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di Billie Eilish, questo ancora non sappiamo dirlo.
Ci fa paura? In un certo senso, sì. Ma ne siamo irrimediabilmente affascinati. Come dall’ignoto, come dagli horror, come da ciò che ci accade quando sprofondiamo nel sonno.
In questi ultimi giorni che seguono l’uscita di When We All Fall Asleep, Where Do We Go? si legge da più parti che Billie Eilish è “il futuro del pop” o, comunque, che è il futuro di qualsiasi cosa sarà in futuro la musica.
Mi sento di pendere più per questa seconda definizione perché, sebbene sia forte la tentazione di ridurre la musica che Eilish fa al pop (e io stessa ci sia caduta nel sottotitolo a questo articolo), credo che questo suo primo disco ci dimostri quanto siano incerti i confini del suo sound.
In queste 14 canzoni, Billie Eilish parla ai post-millennials servendosi ora del pop, ora dell’electro-pop, ora del folk, ora dell’EDM. Ciascuno di questi generi è presente nel disco e mentre in un brano diciamo, più banalmente, “ok, Billie Eilish fa questo”, arriva un altro brano che ci smentisce e allora dobbiamo dire “ah, ok fa quest’altro”, e poi ancora un altro brano che ci spiazza e ci fa dire “ehhh?”.
Le produzioni sono strane e bellissime, dure e storte alcune volte, altre volte tiepide e delicate. E lei, mentre la vediamo sorridere nelle interviste poi ce la ritroviamo piangere pece nera dagli occhi.
Forse non la capiamo perché appartiene a un’altra generazione, a un altro sistema solare. Però è reale, come poche cose ormai oggi.
Non è un sogno, non è un incubo, è Billie Eilish.
E da oggi l’alfabeto della musica alla lettera B ha il suo nome.