Misteriose e sospese, le fotografie di Jessica Basso ci accompagnano in un viaggio introspettivo, dal quale non usciremo uguali a prima.
Classe 1988, Jessica Basso si dedica all’arte da sempre e in tutte le sue forme. Laureata in Nuove Tecnologie dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Brera, Jessica Basso utilizza ogni forma artistica per realizzare qualcosa in grado di curare. E se la sua specializzazione in musicoterapia aiuta concretamente e fisicamente i corpi, le sue fotografie riescono a sanarci l’anima, facendoci tornare in armonia con noi stessi.
Una selezione dei suoi scatti verranno esposti per Ph.ocus – About Photography nella sezione “Please, Take Care”. Intanto, noi abbiamo fatto qualche domanda a Jessica Basso, che ci ha raccontato come è nata questa passione e non solo.
Non perderti la nostra intervista qui sotto!

Quando e come è avvenuto il primo approccio con la fotografia?
Il primo ricordo in assoluto che ho risale a quando avevo 12 anni. Ho sempre ricordato la prima foto che ho scattato, è stata in analogico durante un corso alle scuole medie, potevamo scattare due fotografie a testa da sviluppare poi in camera oscura, avrei voluto passarci più tempo in quel luogo. Erano in bianco e nero e le conservo ancora nel cassetto delle foto importanti. Non so se si possa considerare un primo approccio, sicuramente ho da sempre avuto un legame con lo sguardo e l’osservazione, ma da quei due scatti sono passati anni prima che mi ridedicassi alla fotografia. All’inizio penso sia stato un processo, come un amore che ritorna sempre, finché capisci che fa inevitabilmente parte di te e diventa stabile.
Cosa vuoi raccontare attraverso i tuoi scatti?
Sicuramente un moto interiore sempre in evoluzione, che riflette una ricerca partita da molto lontano, e che piano piano si definisce e prende una direzione, o tante direzioni. Utilizzo la fotografia per descrivere dei processi evolutivi, quei periodi particolari in cui entriamo e ne usciamo sempre diversi. A volte sono piccole rivoluzioni, altre sono rivoluzioni più importanti, ma questo in noi avviene continuamente.

Ogni scatto è legato ad un momento, mi riporta a qualcosa, spesso sento il bisogno di legarlo alle parole, anche solo con un titolo o a volte con uno scritto. Altre volte questo bisogno è così impellente da sentire la necessità di integrare le parole dentro l’immagine, ed è un grande paradosso pensando all’altra importante ricerca che conduco da sempre, quella sul silenzio.
Penso che il viaggio stesso sia il racconto di fondo, un ritorno all’identità, che cerchiamo spesso perdendoci in qualcuno che non siamo, quell’identità che è diventato focus centrale nell’ultimo periodo, spesso nascosta nei dettagli, a volte nascosta negli altri, che poi altro non sono che il nostro riflesso.
Spesso vari da fotografia digitale ad analogica. Quali aspetti delle due tecniche apprezzi maggiormente?
Tendo a scattare maggiormente in digitale per comodità. Quando scatto in digitale ho molto più controllo sull’immagine in post produzione, che uso quasi sempre. Vedo prima quello che voglio ottenere, la visione filtrata dallo stato d’animo di cui parlavo sopra, a cui cerco di avvicinarmi il più possibile per poi portarlo fuori. Quando la parte tecnica si allinea a quella emotiva so che l’immagine è finita. È un processo che mi permette di raffinare il dettaglio.
Con l’analogica ho l’impressione di non scattare mai da sola, ci sono molte variabili in più, scatto con macchine diverse e tutte danno all’immagine qualcosa di unico che sento dipendere da me solo in parte. Sicuramente l’analogica mi fa sentire vincolata a qualcosa, ad un tempo in evoluzione, come se la foto non passasse solo attraverso il mio sguardo, ma attraverso epoche differenti e sono proprio queste epoche, in realtà, a restituire l’immagine.

Dell’analogica amo il sentirmi l’artefice e il fruitore contemporaneamente e per questo, in questo caso, tendo a lasciare sempre l’immagine il più pura possibile.
Di frequente utilizzi la tecnica della doppia esposizione, in alcuni casi giochi anche con i negativi e, in generale, le tue fotografie sono caratterizzate da un’atmosfera suggestiva ed eterea. Come avviene lo scatto?
Non c’è un modo universale. Ci sono progetti che ho immaginato e definito per anni, studiato nei minimi dettagli e solo dopo li ho trasformati in immagine.

Altre volte il processo avviene al contrario, mi capita di fotografare sempre, in qualsiasi momento e ovunque, penso che tutto quello che incontriamo non sia mai casuale, l’atto vero è il vedere e decidere se portare con sé o lasciar andare. Ci sono migliaia di fotografie che non ho voluto scattare. In questo caso lo scatto appartiene al momento, al come stiamo che filtra la visione, alla scelta che facciamo.
Altre volte lo scatto vero avviene in post produzione, che è un controsenso, ma succede che solo più scatti possano restituire l’immagine reale che avevo dentro agli occhi. Quindi a volte è un’operazione che richiede un millesimo di secondo, altre volte possono volerci ore, alcune volte uno scatto può durare anche anni. Un’esposizione infinita.
C’è uno scatto al quale sei particolarmente legata? Raccontacelo.
È difficile rispondere a questa domanda, proprio per i motivi che ho scritto sopra. Con ogni foto ho un legame diverso, ma sceglierò “Non posso pesare gli occhi”. Ce ne sono molte altre con legami forse più forti perché correlate a un periodo, un ricordo, o qualcosa di importante, ma questa la considero speciale perché è una foto pulita e non consumata dagli sguardi, la sento mia.

Mi riporta alla domanda che mi sono posta quando ho scelto quel titolo, ero convinta fosse perfetta solo per me, per certi parametri con cui la stavo osservando, mi dava armonia e mi faceva sentire quel click tecnico-emotivo per cui stavo decidendo che fosse finita. Così mi sono chiesta: “ma in che modo si può decidere il valore di un certo sguardo?” solitamente utilizziamo unità di misura per misurare tutto, per dare valore a qualsiasi cosa, ma in fondo, non possiamo pesare gli occhi. Quindi lo sguardo oggi quanto vale?



