A Signature Story – Urahara, i pionieri giapponesi e la nascita dello Streetwear

Andrea Piantone · 5 anni fa

“Stile di strada” è oggi, probabilmente, uno dei termini che vengono utilizzati più di frequente da generazioni diverse e nei contesti più disparati; la strada non è più un luogo reale, ma diventa un luogo della mente, una realtà assiologicamente determinata e fortemente strutturata.
Non vivi la strada, sei la strada. Per questo motivo devi sempre averla con te, dovunque e comunque.
Ma quello che davvero accomuna tutti, sì proprio tutti, è lo stesso atteggiamento Naif, forzatamente ingenuo e sicuro di sé- ai limiti dello sconveniente- con cui si crede di essere dei grandi esperti in materia, gli unici veri depositari della dottrina del blocco.
Oggi, proprio per strada, chiunque  parla di Streetwear come se stesse scrivendo un trattato sulla genesi delle sneakers o sulla storia della produzione di tessuti insulator e cimose. Ciò che penso realmente, è che nella maggior parte dei casi le opinioni espresse sull’argomento siano basate su una scarsa conoscenza del brand, della sua identità e della sua storia. Il motivo di questo orientamento generalizzato nell’immaginario degli amanti della cultura di strada è forse da ricercarsi nei ricordi, in questo caso molto fuorvianti, che si hanno di quella o quell’altra marca, che nel frattempo è andata avanti, conforme ad una richiesta sempre più variegata ed esigente. In questo caso, sono convinto che il dato anagrafico conti tantissimo. Quello che voglio raccontarvi oggi, è dove- ma soprattutto come- è nato lo Streetwear giapponese, apripista e reale fondatore di questo movimento, sempre più connesso al mondo del fashion. Una sottocultura che cresceva prima dei social, senza la rete, e a totale appannaggio di chi amava “davvero” questo stile, questo modo di esprimere la propria personalità: un vero e proprio anno zero di un eccezionale e creativo modo, non solo di vestire, ma di essere” i primi”.

Chapter 1

Innanzitutto, dobbiamo partire da un luogo chiamato Urahara, abbreviazione di Ura-Harajuku, che letteralmente significa”The Hidden Harajuku“, la nascosta Harajuku.
È proprio questa piccola area di circa quattro isolati, tra i distretti di HarajukuAoyama, quella che passerà alla storia per essere stata la casa dello Streetwear del “Sol Levante”. A metà degli anni ’90, a Tokyo,  le strade erano piene di negozi sconosciuti e spesso senza nome, ma con un “qualcosa” di particolare che gli dava un anima. Diverse realtà commerciali, fiutandone il potenziale, iniziavano a proporre i nuovi trend  provenienti dall’America e dall’Inghilterra, attraverso l’importazione di capi legati alla scena Hip Hop e Punk.
Tutto questo fermento, iniziato a rilento in realtà, sicuramente portava una ventata di novità che si rivelò  molto fertile per la creatività nipponica, in un paese spesso molto restio alle influenze esterne. A Store Robot e Vintage King sono stati i primi stores ad avere avuto una visione pionieristica su quello che potenzialmente questa nuova wave poteva rappresentare. La loro idea, infatti, non era solo quella di fare conoscere i prodotti stranieri, ma cercare di ravvivare nei giovani giapponesi la curiosità che derivava da questo nuovo approccio “esotico” agli abiti. Non a caso, questi capi d’abbigliamento dovevano essere presenti il più possibile, tra i banchi di scuola come nelle strade o nei punti di ritrovo, facendo sì che i brand diventassero un autentico argomento di conversazione, innescando un vero e proprio “word-of-mouth advertising” tra i giovani, che si scambiavano pareri e informazioni su dove trovare quella t-shirt o quel denim.

Chapter 2

Nel capitolo precedente, abbiamo visto come dei lungimiranti pionieri giapponesi, coraggiosi e folli allo stesso tempo, abbiano dato il via ad un movimento giovanile che vedeva i suoi protagonisti- i ragazzi di Tokyo  trascinati da questa corsa all’acquisto, che nascondeva comunque, sotto una coltre prettamente consumista, un’autentica voglia di conoscere qualcosa di nuovo.
Nowhere è di sicuro “la Mecca” degli store di Streetwear, e scommetto che ognuno di noi, chi per un motivo e chi per un altro, sia legato a questo storico punto vendita. Quando aprì i battenti, non era tanto di più che una piccola bottega gestita da due sconosciuti, Jun “Jonio” TakahashiTomoaki Nagao, meglio noto come Nigo, un’altra pietra miliare lungo la strada alla scoperta del mondo street nipponico. Il loro shop, chiamato semplicemente e volutamente Nowhere, altro non era che il risultato di quella curiosità improvvisamente ridestata nei giovani: la piazza, la strada e le scuole erano diventati luogo di confronto, di aggregazione; ma ci voleva il look giusto che, guarda caso, trovavi proprio lì, nel tuo store preferito.
Ma ciò che importava davvero, non era di certo come si chiamasse il negozio. Un nome non crea un movimento, un modo di essere. Le vie di Harajuku, infatti, non avevano nomi; prima di scoprire le novità in vendita, era proprio il posto la prima scoperta. Questo era il bello. Il negozio era diviso in due parti, e lì Nigo si dedicava alla stampa delle sue t-shirt, il vero inizio di A Bathing Ape, quella che in molti sostengono essere l’essenza di Urahara.

Chapter 3

Come prevedibile, la crescente popolarità della cultura di strada facilitava l’apertura di altri stores, realtà fondamentali per la creazione di questo mito. Nel frattempo, spostando per un attimo l’attenzione sui marchi di punta, A Bathing Ape Busy Work vedrà presto la concorrenza di un brand emergente legato al nome di un altro personaggio chiave in questo settore, Shinsuke Takizawa.
La sua filosofia, ai tempi, ricordava da vicino quella ribelle di marca Yankee,  legata ad uno stile di vita ben preciso che lo porterà a creare il suo brand Neighbourhood, il quartiere, e quale se non Urahara?
Parliamo di un Concept  focalizzato su uno stile che abbracciava in maniera radicale l’Heavy metal e il mondo delle Harley a stelle e strisce, quindi suoni, immagini e messaggi ai quali il pubblico giapponese non era affatto abituato.
Un’altra figura che ha fatto  parlare di sè, è il designer/rocker- in pieno stile Slash- Nobuhiko Kitamura. Con il suo brand Hysteric Glamour, era  il portavoce dei fan delle rock band anni ‘70 e dei cultori dei film d’exploitation, il cui comune denominatore era il “Motorpsyco!”di Russ Meyer. Anche se in breve, non posso esimermi dal citare degli altri personaggi, grandi pionieri dello Street style, che in quel preciso contesto sociale e culturale contribuirono a gettare benzina sul grande fuoco della nuova Wave come SK8THING, vero compagno di merenda di Nig, Hikaru Iwanaga (Bounty Hunter), Tetsu “TET” Nishiyama (WTAPS e FPAR) e Goro Takahashi (Goro’s). Ognuno di loro riversava nelle strade delle letterali cascate di creatività, con modalità così distinte l’una dall’altra in tanti stili unici, da mandare ben presto fuori di testa i “Kids” nipponici.

Chapter 4

A questo punto le premesse c’erano tutte, ed è così che la zona di Urahara iniziava a vivere appieno  il boom delle vendite. Grazie anche a magazine del settore come Smart e Asayan,  i teen-agers cominciavano a popolare l’area in questione, come in preda a dei raptus da acquisto compulsivo.
Ogni capo diventava l’oggetto del desiderio, con alcuni di questi in particolare che si trasformano in veri e propri “Graal”, come le tee di Hysteric Glamour, i “Savage denim” di Neighbourhood, la “Jewelry” di  Goro’s  e, ovviamente, primo in assoluto “uno qualsiasi “di BAPE. Per farvi capire a che livelli di entusiasmo era arrivata la situazione, tantissimi impazzirono per avere il Down jacket in pelle indossato nella serie Giapponese “Hero” da Kimura Takuya.

 

Chapter 5

Spero che questa breve intro sia stata utile per delineare i contorni di un fenomeno sociale che stravolgerà le abitudini e i costumi delle nuove generazioni nipponiche. Appare a questo punto molto utile andare ad indagare sui reali motivi che hanno reso questi abiti così ambiti e desiderabili, e soprattutto perché Urahara era il centro di questa “rivoluzione”.
Per rispondere a questi quesiti, ci siamo ampiamente documentati e la soluzione sembra arrivare da Takahiro Ito.
Editor di Hypebeast.jp, ci parla della sottocultura originaria della periferia di Tokyo, conosciuta come Shibukaji. Per far parte di questo ristretto gruppo, i giovani indossavano tutti brand come Levi’s, Ralph LaurenThe North Face, sfoggiando l’outfit più esclusivo per le strade di Shibuya. Nel frattempo, nelle crew di Urahara, i ragazzi cominciavano a preferire i prodotti del proprio paese, ispirati comunque da influenze provenienti da tutte le parti del mondo; questo sentimento patriottico era molto simile al concetto di “Made In USA”, vero vanto della cultura pop americana.
Un punto di vista differente, una voce a tratti fuori dal coro,  poteva essere trovato nelle parole di Jey Perie, (Bedwin & The Heartbreakers, Deluxe e ora direttore creativo di Kinfolk). Il suo pensiero al riguardo tendeva a leggere questo repentino successo come un’interpretazione del mercato più razionale che emotiva da parte dei brand, in modo da fornire ai consumatori giapponesi una doppia scelta, ossia la possibilità di acquistare sia marchi locali che esteri. Nella sua disamina, Perie continua dicendo che il concetto alla base del successo è stato quello di capire e riportare in patria quello che succedeva a Ny e Londra, facendo leva su quegli aspetti che più si adattavano alla cultura giapponese, a volte molto chiusa. Ormai padroni del proprio destino commerciale, i designer, considerati come dei veri super eroi, capirono alla perfezione come il prodotto Streetwear andava venduto. Per esempio, attuando delle strategie di marketing come quella di realizzare una produzione limitatissima-  a volte veniva perfino richiesto di mostrare il passaporto per far vedere la cittadinanza-  che è stato il vero asso nella manica da parte di Bape.
Il desiderio di novità, la volontà di creare un’identità precisa all’interno del nascente movimento giovanile dello Street life e la voglia matta di shopping dei nostri amici dagli occhi a mandorla  hanno inevitabilmente fatto il resto.

Chapter 6

Sarebbe adesso molto interessante conoscere altri punti di vista , non giapponesi in questo caso, sulla “rivoluzione” di Tokyo.
Mr. Paul Mittleman, design director di Adidas ed ex direttore creativo di Stussy, proponeva al riguardo una sua interessantissima teoria. Per lui, tutto era nato da un semplice desiderio di “creare”: nella sua analisi, infatti, considera come modello fondamentale dei primi anni ‘90 il brand del “maestro” Hiroshi Fujiwara, Goodenough, vera avanguardia dell’intero movimento. La sua idea era semplice, ma efficace. Bisognava cercare quei capi che potessero sostituire quelli che non erano ritenuti del tutto soddisfacenti. Si trattava di un concetto forse banale, ma allo stesso tempo proficuo, in un periodo, come quello degli anni ‘90, in totale controtendenza rispetto al decennio precedente, dove il design era sopraffatto dal Concept di un capo d’abbigliamento.
La tesi dello “stile” verrà sposata anche da un’altra figura molto rilevante- oggi al top della sua carriera- Mr. Motofumi “Poggy” Kogi (UA&Sons). Il nucleo centrale del suo pensiero era quello di considerare come sia importante apprendere dalla propria tradizione e dalle proprie origini. Per chiarire  meglio il suo punto di vista, utilizzava un immagine vivida, quanto realistica, che ben descriveva i cambiamenti in atto: negli anni ‘80, la scena musicale Hip-Hop degli States vedeva già gli artisti salire su un palco indossando collane d’oro. I musicisti degli anni ’90, come ad esempio band del calibro dei A Tribe Called Quest, indossavano medaglioni in cuoio, in onore delle loro radici Africane.
Anche in Giappone, in quel determinato periodo, si iniziava comprende l’importanza del recupero delle origini, tramite un processo di appropriazione e reinvenzione dei modelli esistenti con uno sguardo sempre più attento alla modernità.

Chapter 7

Come nella vita reale, e non di certo nelle favole, il lieto fine è tutt’altro che scontato. Non a caso, le logiche del business prevarranno senza mezzi termini sull’aspetto più genuino della curiosità, che era stato il vero motore di questa colorata e chiassosa ondata di creatività.
Ci si può interrogare nel trovare il momento esatto in cui il giocattolo iniziava a rompersi: c’è chi dice, come Jey Perie, che il momento di svolta coincida con la vendita di Bape al colosso di HongKong  I.T. Mr Poggy, invece, era convinto  la colpa fosse da attribuire all’introduzione del design computerizzato nel mondo del fashion. Per noi, che siamo così legati a quel periodo, è forse arrivato il momento di dare l’addio allo Streetwear, così come fanno i grandissimi dello sport. Quello che sembrava ormai palese, è che le cose erano irrimediabilmente cambiate, e il lato commerciale di questo movimento era divenuto, come già accennato, l’aspetto preponderante di un mercato che agisce in tutti i continenti e non più in uno specifico luogo. Mittleman la pensa esattamente come noi. Nelle sue parole è possibile leggere la delusione riguardo al fatto di potere facilmente acquistare qualsiasi cosa ormai. Tutto questo ha messo fine al fascino dello Streetwear giapponese, non solo perché prima era difficilissimo trovare un singolo capo, ma perché i brand stessi volevano che fosse così. Inoltre, bisogna ammettere che i prodotti di quel periodo erano dannatamente fantastici e anche per questo la gente ne andava pazza. Quello che rimane ancora oggi intatta è la qualità di certi prodotti, tipicamente nipponici, come il denim di Okayama desiderato da tutti, ma proprio da tutti, specialmente all’estero.

Chapter 8

Siamo arrivati quasi alla fine di questo nostro racconto, parlando della supremazia dell’etica e della morale sul profitto, in una costante  battaglia tra il desiderio di vera qualità e la voglia di avere sempre di più.
In questo quadro generale, la moda inizia a seguire orientamenti diversi: si affermerà prepotentemente quella corrente quella che viene in seguito definita  “Fast Fashion“, un manifesto di stile che dice NO al Design focalizzandosi sul trend normocore.
Citando alcuni marchi tra i quali H&M, Uniqlo, Topshop e Forever 21, può sicuramente essere meglio compreso il valore della moda low-cost. In realtà, questo cambiamento del settore street fashion, per alcuni fisiologico, non ha poi visto nessuna strenua opposizione da parte dei puristi e gli amanti del genere, è stato soltanto accettato senza grandi obiezioni di sorta, quasi fosse qualcosa assolutamente di normale, banalmente normale. A conferma di tutto ciò, basti guardare alle collaborazioni dei pionieri di Urahara come Nigo e Jun Takahashi con Uniqlo; certo, farà un po’ sorridere, ma that’s it!!

Final Chapter

Le ultime considerazioni che mi piacerebbe fare, visto che anch’io sono uno di quelli dello “Streetwear di una volta”, sono tutte rivolte alla possibilità, esistente o no, che un movimento simile possa nascere nuovamente a Urahara. Anche su questo argomento, “googlando” qua e là, ho notato diverse teorie interessanti: c’è chi parla di Pechino e Seoul come loci deputati  per una possibile rinascita, altri, invece, sono molto più pessimisti al riguardo. In un mercato globale che abbatte ogni distanza, fisica e culturale, risulterebbe inutile, e anche riduttivo, legare un movimento ad un luogo specifico.
Una cosa però è innegabile: Urahara non è stata soltanto la casa di brand  prestigiosi, ancora oggi universalmente riconosciuti, ma rappresenta- e così sarà sempre-  un punto di riferimento per le nuove leve, un serbatoio inesauribile di idee e creatività allo stato puro. Detto questo, quando sentite in giro gente che parla di Streetwear senza avere la minima idea di chi siano stati i suoi veri pionieri, fareste meglio a ricordarglielo.

A Signature Story – Urahara, i pionieri giapponesi e la nascita dello Streetwear
Style
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