Breve storia della varsity jacket

Breve storia della varsity jacket

Andrea Tuzio · 9 mesi fa · Style

È innegabile che se esiste un capo che si porta dietro l’intero immaginario sportivo – e non solo – americano, questo è senza dubbio la letterman jacket
Sì, perché in origine quella che noi conosciamo come varsity jacket, la giacca di lana con le maniche di pelle e tasche in tinta, aveva anche una grande lettera sul petto, da lì “letterman jacket”.

Negli ultimi tempi la popolarità della varsity jacket è tornata a imporsi grazie anche a operazioni come quella di NIGO e del suo brand HUMANE MADE, regalando ai suoi amici più stretti una varsity rosa con le maniche bianche con la scritta “I Know Nigo” sul retro e il nome del destinatario ricamato sul petto. 

Indossata da personaggi del calibro di Elvis Presley, James Dean e Micheal Jackson, simbolo di tante sottoculture nel tempo, oggi la varsity jacket è tornata ad essere un must del mondo streetwear e noi abbiamo deciso di raccontarne la storia.

La prima volta in assoluto che venne indossata una maglia letterman fu nel 1865 dalla squadra di baseball della Harvard University. Quel primo capo distintivo, e che marcava l’apparenza a un determinato gruppo, era decisamente diverso da ciò che conosciamo oggi: consisteva in un maglione di lana molto pesante e leggenda narra che furono gli stessi giocatori a decidere di ricamare al centro delle loro divise, una grossa “H”, dando così vita a tutto. 

All’inizio l’uniforme aveva un valore enorme ed era molto prestigiosa oltre che elitaria, infatti veniva sì consegnata a tutti i membri della squadra ma soltanto i più meritevoli potevano tenersela, gli altri – quelli che sedevano in panchina ad esempio e giocavano poco – dovevano restituirla a fine stagione. 

Nel 1891 iniziarono a indossare fuori dal campo delle maglie nere contraddistinte sempre da una grande “H” ricamata sul petto. Questa mossa portò alla creazione di pullover e cardigan “Letterman” che avevano come idea di base quella di manifestare l’orgoglio di appartenere a quella determinata università, cosa che succede tuttora a tutti i livelli scolastici negli Stati Uniti. 

Agli inizi del ‘900 anche la squadra di football della stessa università iniziò a indossare le loro uniformi contraddistinte da una grande “H” ricamata. Anche qui vigeva la regola che chi non giocava doveva restituire le maglie, mentre chi era in campo e giocava per il buon nome dell’università contro i rivali storici di Yale e Princeton, poteva tenerla. 

Da lì in poi iniziò una vera e propria “customizzazione regolamentata” delle uniformi e delle maglie: vennero adottati altri ricami a stabilire il rango del giocatore – come ad esempio una stella sul petto per identificare il capitano – o il risultato delle partite.  

Nel 1930 nacque quella che oggi conosciamo come varsity jacket. 
Gli atleti chiedevano un abbigliamento più pesante per combattere il freddo e alla maglia in lana furono aggiunte le maniche in pelle e i bottoni, con la lettera che si spostava su un lato: la letterman jacket divenne un vero e proprio status all’interno delle università.
Non tutti potevano avere la lettera, dovevi guadagnartela con le prestazioni in campo. Una volta ricevuta la si poteva cucire sulla giacca, era una cosa molto seria. 


Questa consuetudine ormai aveva preso piede in tutte le università della Ivy League – gruppo delle 8 università private e più prestigiose degli Stati Uniti (Harvard, Yale, University of Pennsylvania, Princeton, Columbia, Brown, Dartmouth College e la Cornell) – nelle scuole superiori e in tutti gli altri college d’America. È in questo periodo che nasce e diventa popolare il termine “varsity jacket” e tutti gli atleti delle varie scuole (college o superiori che fossero) ne indossava una. 

Fu negli anni ’80 che la popolarità della varsity jacket esplose definitivamente anche grazie all’attenzione che suscitò nelle franchigie professionistiche dello sport americano. I supplier che producevano il merchandising iniziarono a realizzare una versione in raso della varsity in modo tale da contenere i costi e ampliare il bacino d’utenza. I Los Angeles Raiders nel football, i New York Knicks e i Boston Celtics nel basket realizzarono la loro versione della varsity riscuotendo un successo enorme.

varsity jacket

In questo modo la cultura pop e mainstream conobbe la varsity jacket e nel 1983 avvenne ciò che rese la varsity un item ambito e ricercatissimo: Michael Jackson ne indossò una rossa e oro con una “M” sul petto nel video di “Thriller”.

varsity jacket

Artisti hip-hop come I Run-D.M.C. e N.W.A. ne indossavano spesso una trasformandola in uno dei capi street per eccellenza rendendola indipendente da questioni sportive.

varsity jacket

Il mondo fashion e quello streetwear che stava nascendo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 non si fece scappare la possibilità di “appropriarsi” di quel modello di giacca estremamente cool.

Nel 1987 Stüssy realizzò le varsity jacket utilizzando i vecchi metodi di produzione e i materiali tradizionali (lana e pelle), la Homeboy Jacket e la One Love del 1989 sono soltanto due esempi di reinterpretazione di un’icona assoluta che siamo certi non passerà mai di moda.

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Leggi anche: La storia di Willi Smith, il designer che inventò lo streetwear

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Cinque foto scattate al momento giusto

Cinque foto scattate al momento giusto

Collater.al Contributors · 15 ore fa · Photography

Il tempismo è tutto. Lo sanno bene i fotografi street che passano ore ad aspettare il momento giusto per realizzare uno scatto sensazionale. Per creare una composizione che agli occhi del pubblico potrebbe sembrare “fortunata” e casuale. In realtà, dietro questi scatti c’è uno straordinario sincronismo tra occhio, mente e macchina fotografica. Oggi abbiamo selezionato cinque scatti per esplorare l’abilità di questi fotografi, testimoniando come abbiano saputo cogliere istanti fugaci che trasformano una semplice immagine in una storia senza tempo.

#1 Lorenzo Catena

© Lorenzo Catena

#2 Dimpy Bhalotia

© Dimpy Bhalotia

#3 Giuseppe Scianna

© Giuseppe Scianna

#4 Federico Verzi

© Federico Verzi

#5 Andrea Torrei

© Andrea Torrei

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Lorenzo Catena
Dimpy Bhalotia
Giuseppe Scianna
Federico Verzi
Andrea Torrei

Selezione di Andrés Juan Suarez

Cinque foto scattate al momento giusto
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Disponibile online il catalogo di “Collater.al Photography 2023”

Disponibile online il catalogo di “Collater.al Photography 2023”

Giulia Guido · 2 giorni fa · Photography

Domenica 24 settembre si è conclusa la nostra mostraCollater.al Photography 2023” che per il secondo anno di fila ha portato all’interno della Fondazione Luciana Matalon in Foro Buonaparte 67 oltre 150 scatti di altrettanti fotografi nazionali e internazionali. 

Durante tutto il periodo della mostra è stato possibile acquistare il catalogo che, vista l’esperienza decennale di Collater.al, fin da subito voleva essere più di un semplice catalogo, ma un vero e proprio magazine. Al suo interno, infatti, si potevano trovare 144 pagine di interviste ad alcuni dei fotografi in mostra, ma anche approfondimenti su svariati temi legati alla fotografia, da come approcciarsi al ritratto, alla fotografia di moda, fino alla sottile linea che divide fotografia e immagini realizzare con l’intelligenza artificiale. Inoltre, sapendo bene che anche l’occhio ha bisogno della sua parte, quest’anno abbiamo deciso di realizzarlo con tre copertine differenti, dando spazio ai lavori di più fotografi: Simone Bramante, Yosigo e Derrick Boateng. 

Sebbene ormai la mostra abbia chiuso le sue porte, abbiamo deciso di continuare a dare la possibilità a chi non è riuscito a esserci lo scorso weekend di acquistare il magazine.

Disponibile online il catalogo di “Collater.al Photography 2023”
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Marta Blue e l’Anatomia del Male 

Marta Blue e l’Anatomia del Male 

Giorgia Massari · 2 giorni fa · Photography

Quando si parla di Male, non si può far altro che parlare anche di Bene. Un’antitesi indagata fin dai tempi più remoti. Da un punto di vista metafisico, filosofi come Platone e, molto tempo dopo, George Wilhelm F. Hegel, consideravano il Male come totale negazione del Bene. Altre scuole di pensiero, come quella di Thomas Hobbes o Immanuel Kant, introducono invece il soggettivismo, ponendo il Bene e il Male nella sfera dell’esperienza umana. Non sono realtà indipendenti, ma si sviluppano sulla volontà, o meglio, sul desiderio umano. Da un punto di vista letterario, è significante in questo discorso citare il poeta italiano Giacomo Leopardi e la sua affermazione «Tutto è male» ovvero tutto è ordinato dal Male. O ancora di più, una prova di estremizzazione la dà Ugo Foscolo che, ne Le Ultime lettere di Jacopo Ortis, conduce il protagonista a reagire al Male negandogli ogni possibilità di Bene. Il suicidio diventa qui un atto positivo, di estrema libertà. 

Se filosofi, letterati e poeti hanno provato a concretizzare in forma scritta due entità tanto astratte quanto tangibili, la fotografa Marta Blue prova invece a restituirne un’immagine, più precisamente, un’anatomia. Il suo linguaggio oscuro e surreale, a tratti esoterico, riflette sul rapporto tra la vita e la morte, tra l’amore e il dolore e, ancora di più, tra la natura e l’occulto. È evidente come Marta Blue scelga di ricercare quanto più un’anatomia del Male, che non prescinde dall’esistenza del Bene, ma ne esalta la sua stessa negazione. Attraverso una serie di scatti che la vedono spesso come protagonista, la fotografa rincorre ossessivamente la natura del Male, ricercandola nella materia del corpo, negli ossimori e nelle simbologie. Secondo Marta Blue, il Male risiede nell’intimo, nei dolori subiti e inflitti, che cullano a ritmo costante l’esistenza umana. L’impassibilità dei soggetti, talvolta trafitti, talvolta segnati da un precedente dolore, contribuisce a creare un forte contrasto che comunica una diffusa atrofizzazione nei confronti del Male. Immobili, non curanti, i soggetti osservano il dolore defluire, pronti ad accoglierne una nuova dose.

Marta Blue ragiona sul concetto di Male inteso come oscurità. «Letteralmente significa mancanza di luce.» – riflette la fotografa – «Con il tempo ho capito che non posso produrre un concetto migliore di questo. Non posso lavorare sulla gioia di vivere se so che esiste un limbo nella nostra mente, una zona d’ombra, che contiene tutte le nostre paure. Una zona indefinita tra buio e luce, dove tutti i nostri peggiori incubi si confondono». La serie Anatomy of Evil diventa una sorta di archivio emozionale, intimo e personale, in cui Bene e Male coesistono, si sfiorano, quasi corteggiandosi, fino ad amalgamarsi in un’unica immagine. «La solitudine, la morte e la paura dialogano con temi ingenui come la giovinezza, l’occultismo e la seduzione». Il confine tra piacere e dolore, tra amore e odio, si fa labile. Il fiore, spesso ricorrente negli scatti di Marta Blue, esplicita al meglio questo concetto. Se da un lato il gambo della rosa trafigge il ventre, come si osserva in Forget me not, o le labbra, come in Circle of Love, dall’altro la sua forte accezione positiva e la sua simbologia di rinascita “spezzano” la funzione occupata, diventando un prolungamento del corpo, in un atto di liberazione. 

Nelle opere di Marta Blue il Male va ricercato su due piani, spesso inconsci. Il primo è astratto, intangibile, dalle molteplici manifestazioni, come l’assenza e la non-presenza, che diventa percepibile solo attraverso l’anima. Il secondo invece è visibile, materico. Emerge dalle viscere e si esplicita attraverso innesti sottocutanei che l’artista tenta di rimuovere, inserendo strumenti chirurgici. In entrambi i casi, Marta Blue tenta di trasporre, e allo stesso tempo di liberare, timori e ansie intrappolate nella psiche umana, creando segni e anatomie tanto surreali e oniriche quanto reali e condivise.

Courtesy Marta Blue

Marta Blue e l’Anatomia del Male 
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Lo straordinario quotidiano di Yosigo

Lo straordinario quotidiano di Yosigo

Giulia Tofi · 2 giorni fa · Photography

Quando si inizia a provare interesse per la fotografia e a scattare, l’ambizione ci porta a voler realizzare fotografie belle da vedere. Accade sempre, accade a tutti. È così che comincia la ricerca ostinata di ciò che per definizione è ritenuto bello. C’è chi dedica un’intera carriera a questa indagine e chi invece sente il bisogno di spingersi oltre il tradizionale concetto di bellezza per trovare nuove sfumature. Tutto a un tratto non ci si chiede più «cos’è bello?», ma «cosa lo rende bello?». Una domanda decisiva perché è proprio a questo punto che entra in gioco un fattore fondamentale nella fotografia, la sensibilità di ciascuno nel cogliere il bello in un determinato soggetto rispetto a un altro o, per tornare alla domanda di prima, nel rendere bello un soggetto piuttosto che un altro. E se almeno una volta nella vostra vita avete preso in mano una fotocamera, immaginerete quanto sia difficile costruire diversi livelli di lettura in una fotografia, figuriamoci se il soggetto in questione appartiene al nostro quotidiano ed è considerato ordinario.

Una sfida, ma non per tutti. Basta un attimo infatti per capire che per José Javier Serrano, in arte Yosigo, non lo è mai stata perché è proprio nei luoghi che abitiamo da sempre e che la routine ci porta a guardare distrattamente che ha trovato i soggetti ideali per la sua ricerca. Nel suo caso si tratta della spiaggia di La Concha a San Sebastián, un punto di riferimento per chi come lui è cresciuto nella costa nord della Spagna, ma soprattutto il luogo in cui tutto ha avuto inizio. È proprio lì che Yosigo ha mosso i suoi primi passi nella fotografia e, ricordando la poesia scritta dal padre che lo incoraggiava a non fermarsi mai e ha poi ispirato il nome «Yosigo», letteralmente «vai avanti», ha raggiunto la consapevolezza di dover mettere fine al suo percorso come graphic designer per intraprendere quello come fotografo. 

Oggi quella stessa spiaggia e quello stesso mare fanno da sfondo a gran parte dei suoi scatti, questo perché con le sue foto José Javier vuole farci comprendere che non è tanto quello che si guarda, ma come lo si guarda, spingendoci così a cambiare il modo in cui vediamo un luogo nel tempo. Lui per primo, osservando La Concha quotidianamente, ha potuto approfondire la sua indagine fino a individuare degli schemi che si ripetevano: i bagnanti in riva al mare, i bambini intenti a giocare, i nuotatori, i fanatici di tuffi. Quel tempo gli ha poi permesso di scoprire che è esattamente dove la terra e il mare s’incontrano che le persone si lasciano andare, mostrando chi sono davvero e diventando più vulnerabili. 

E così, giorno dopo giorno, quelle persone che abitualmente passano inosservate sono diventate elementi fondamentali nella poetica di Yosigo e hanno trovato spazio nelle sue meticolose inquadrature – figlie indiscusse del suo passato da graphic designer – dove l’equilibrio tra pieni e vuoti è perfettamente studiato. Ripresi da soli o in gruppo, vediamo i bagnanti intrecciarsi al paesaggio che stanno momentaneamente invadendo, diventando macchie di colore nell’azzurro del mare e nell’ocra della sabbia rovente. 

A caratterizzare ulteriormente le sue fotografie sono infatti i colori pastello che enfatizzano le qualità formali dei soggetti e l’utilizzo la luce che trasforma di volta in volta la spiaggia di La Concha. Questa commistione di colori e luci dà poi vita ad atmosfere sospese, al di là del tempo, che portano gli occhi dell’osservatore a scovare, nascosta nei paesaggi più comuni, una bellezza inedita che da un lato ritrae fedelmente la società contemporanea, dall’altro si lascia plasmare dalla sua personale percezione di quegli spazi. E chissà, forse è per questa ragione che il fotografo spagnolo ha confessato di non riuscire ad allontanarsi da quella spiaggia, da quel mare.

Ph Credits Yosigo

Lo straordinario quotidiano di Yosigo
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