Purtroppo da più di un anno viviamo un momento storico di grande difficoltà, in particolare settori come la moda, la cultura e l’entertainment attraversano una crisi complessa e profonda.
Oggi i “Makers” rappresentano quei talenti che spaziano dall’arte alla moda, dalla musica alla fotografia, sono coloro che si impegnano in ogni espressione creativa con in mente il desiderio di creare attorno a sé una vera comunità, perché soltanto uniti e sostenendoci gli uni con gli altri possiamo costruire il domani.
Ci sono aziende però che provano a guardare oltre, provano a immaginare un futuro diverso, come GAS. L’azienda italiana famosa per il denim e per la grande ricerca sui materiali, fondata dall’imprenditore e visionario Claudio Grotto nel 1984, ha messo in piedi Be a Rainbow Maker for Someone Else, un progetto coraggioso di co-creazione che fonde arte, musica e moda.

GAS, attraverso una vera e propria “call to art”, ha reinterpretato in chiave contemporanea il concetto di mecenatismo, supportando i talenti per provare a iniziare a scrivere un capitolo nuovo del nostro avvenire.
A rispondere a questa “chiamata alle arti” sono state due realtà creative italiane di primo piano che hanno interagito tra loro. La band Eugenio in Via di Gioia ha realizzato un pezzo inedito prodotto e arrangiato durante una residenza artistica presso la sede dell’azienda, che per l’occasione è diventata anfiteatro e sala prove. A completare il progetto, creando lo scenario visivo che fa da sfondo al video della canzone, ha risposto alla chiamata la crew di street artist Truly Design che ha realizzato all’interno di GAS HQs una gigantesca opera d’arte anamorfica che rappresenta un doppio arcobaleno, emblema di GAS e di quei valori di libertà d’espressione, inclusività e passione che accomunano l’azienda e gli artisti coinvolti nel progetto.
GAS si fa così portavoce di attitudine autentica e positiva, di creatività e collaborazione condensate in un arcobaleno di sfumature blu come il denim che l’azienda italiana presenta alle nuove generazioni.

#BeARainbowMaker è anche l’hastag con il quale gli Eugenio in Via di Gioia coinvolgeranno i propri fan in una challenge. La sfida consisterà nel raccogliere e filmare sui propri canali social una piccola grande azione che possa avere un messaggio e un impatto positivo per qualcun altro, in modo tale da raccontare e portare il proprio contributo come “Rainbow maker for someone else”.
Noi di Collater.al abbiamo avuto la fortuna, non solo di visitare la splendida sede GAS a Chiuppano in provincia di Vicenza, ma anche di vedere da vicino il processo creativo che ha visto come protagonisti gli Eugenio in Via di Gioia e il collettivo Truly Design.
Truly Design è uno studio di comunicazione visiva non convenzionale fondato nel 2007 a Torino e diretto da tre artisti urbani attivi nella scena dei graffiti dal 1996. In questi anni i ragazzi di Truly Design hanno stretto collaborazioni con studi di architettura, brand, imprese, agenzie di comunicazione, musei e istituzioni culturali in tutto il mondo sempre restando fedeli al loro approccio artistico.
Specializzati in graffiti 3D e non, arte murale, illustrazione, pittura, grafica applicata e arte anamorfica, il collettivo viene insignito del Cannes Golden Lion Award nel 2018, il riconoscimento più prestigioso del settore, per la loro opera “David Bowie is here” allestita per Spotify all’interno della metro di New York.

Abbiamo avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con Mauro149, Production Manager di Truly Design e membro fondatore del collettivo, ecco cosa ci ha detto:
Come e dove nasce Truly Design? Quali sono le vostre radici?
Truly Design nasce come un gruppo di amici che si appassionano ai graffiti appena compiuti i 13/14 anni, quindi nasciamo come writer ed è quello che abbiamo fatto nei nostri primissimi anni insieme. Per la nostra generazione (io ho 40 anni) i graffiti erano ancora una forma d’arte underground, molto cool e misteriosa che viveva di passaparola. L’amico ti diceva dove poter recuperare gli spray migliori, dove trovare gli spot per dipingere, etc.
Tutta questa passione per i graffiti arriva direttamente da quella per il disegno che abbiamo sviluppato sin da piccoli e che poi si è trasferita ai graffiti perché era lo strumento attraverso il quale potevamo esprimere il disagio adolescenziale nella maniera migliore.
Rappresentava un gesto di strafottenza, nessuno di noi ha mai dato ai graffiti un significato politico bensì era un modo per imporre la nostra presenza e fatta per il gusto di farla e dell’avventura che c’era dietro – andare a dipingere la notte, al buio, cercando in tutti i modi di non farsi beccare – perché dipingere illegalmente come facevamo all’epoca è tutto un altro mondo rispetto a farlo quando hai tutte le autorizzazioni del caso.
Quanto è stato importante per voi crescere a Torino?
Abbiamo avuto la fortuna di vivere e crescere, artisticamente e non solo, a Torino. Una città dove farsi dare i permessi per realizzare opere più strutturate dal punto di vista artistico e lavorarci per due/tre giorni, invece di avere una/due ore o magari soltanto venti minuti, è sempre stato facile. La città di ci ha dato la possibilità di sviluppare il nostro lavoro perché avendo più tempo, abbiamo provato ad andare oltre al graffito classico e abbiamo iniziato a buttarci dentro tutti quelli che erano i nostri interessi: grafica, illustrazione, pittura classica, etc.
Avresti mai immaginato che l’interesse e la passione per i graffiti sarebbe poi diventato il vostro lavoro?
Se vent’anni fa qualcuno m’avesse detto che avrei fatto questo di mestiere gli avrei riso in faccia. Il fatto che sia effettivamente poi diventato il nostro mestiere è stato del tutto casuale e incidentale. Avendo la possibilità di lavorare per strada e soprattutto di giorno grazie ai permessi che la città ci dava, erano tantissime le persone che si fermavano a guardare quello che stavamo facendo e ci chiedevano magari di realizzare opere per il loro negozio, per la loro azienda, per la loro camera. Un lavoro ha tirato l’altro fino ad arrivare al 2007, avevamo tutti 25 anni, quando abbiamo deciso di fare un all-in e aprire il nostro studio.
Da quel momento in avanti cos’è cambiato?
Beh è cambiata la storia in maniera decisiva, ma graduale. I lavori artistici che realizzavamo hanno smesso di essere qualcosa che facevamo esclusivamente per passione, per arrotondare gli stipendi dei nostri lavori “veri” e che facevamo nel tempo libero ed è iniziato ad essere il nostro lavoro principale e sul quale puntavamo tutte le nostre energie e speranze.
In che modo i graffiti e tutto quello che ci ruota attorno vi hanno aiutato a strutturare e sviluppare il vostro lavoro?
Tutto quello che abbiamo imparato in dieci anni di graffiti come il lavoro di squadra, collaborazione, fiducia, velocità, efficienza, rapidità di pensiero, organizzazione, spirito di adattamento lo abbiamo traslato e applicato direttamente nel nostro lavoro. Tutte queste cose ci metti almeno dieci anni ad impararle e svilupparle, noi siamo partiti come se avessimo già dieci anni di formazione professionale alle spalle grazie proprio ai nostri inizi e alla passione per i graffiti.
Come gestite i lavori internamente? Quali sono le dinamiche che contraddistinguono il vostro collettivo?
In origine eravamo in quattro, i quattro soci fondatori, ed è stato così per tantissimi anni. Da tre anni a questa parte siamo rimasti in tre e da poco ci avvaliamo dell’aiuto di collaboratori e dipendenti perché i lavori sono diventati tanti ed è necessario avere una squadra su cui contare. Il nostro approccio somiglia un po’ a una bottega d’artista del ‘500 dove quelli più anziani si occupano di realizzare i lavori più dettagliati, complessi e tecnicamente più difficili e attorno ci sono tutta una serie di collaboratori che danno il supporto che serve.
Se avessimo voluto diventare un’agenzia da 50 dipendenti avremmo potuto farlo ma non siamo quel mondo lì, noi siamo più uno studio di artisti che lavorano insieme. Abbiamo voluto mantenere l’autenticità di un percorso artistico preciso e indipendente.
Parliamo dell’aspetto che più vi contraddistingue da un punto di vista artistico, l’anamorfismo.
Come collettivo l’anamorfosi è ciò che ci ha catturati, ed è stato un vero e proprio colpo di fulmine avvenuto a Londra alla National Gallery, quando abbiamo visto “Gli Ambasciatori” di Hans Holbein del 1533. Se all’epoca i riferimenti erano chiese, palazzi ducali, etc., noi abbiamo pensato di riportare tutto alla nostra contemporaneità, all’interno dei nostri contesti, l’archeologia industriale per intenderci, fabbriche abbandonate o dismesse con tutte le difficoltà che una location del genere comporta. Lì abbiamo capito che ci interessavano tutti quegli spot non lineari, magari che avevano tubi sporgenti o basi sfaccettate dove difficilmente si dipinge. Siamo andati ovviamente oltre alla fabbrica abbandonata, dipingendo in contesti industriali rigenerati, interni con una decisa complessità strutturale giocando con le profondità e con le forme. Ci basiamo tantissimo sul design grafico di ispirazione astratta ma facciamo anche del figurativo. Questi sono i due filoni di anamorfosi che abbiamo sempre seguito.
Ci parli dell’opera che avete realizzato per l’occasione all’interno di GAS HQs?
Questo è un pezzo astratto ma dietro ha un concetto forte. La stanza dove Eugenio è rinchiuso è blu, il blu identifica anche la malinconia dell’essere isolato – sensazione che abbiamo provato tutti durante quest’ultimo anno – e l’arcobaleno che passa dietro è un ponte che ci porta oltre questa dimensione del box blu isolato che in realtà è soltanto un’illusione che se guardata da un’altra angolazione si scopre che in realtà non esiste.