5 artisti contemporanei che utilizzano il neon

5 artisti contemporanei che utilizzano il neon

Giorgia Massari · 3 settimane fa · Art

Dal rapido successo commerciale, il neon nacque nel 1910 da un’invenzione di Georges Claude e venne fin da subito utilizzato da industriali e pubblicitari grazie alla sua potenza visiva. Le insegne luminose in neon entrarono nelle abitazioni domestiche e invasero le città, in particolare le grandi metropoli americane e orientali, modificandone l’aspetto e conquistandole con la luce sgargiante. Molto presto il neon fece il suo ingresso anche nel campo artistico, gli artisti infatti ne colsero la versatilità, la maneggevolezza e la potenza comunicativa.
Uno dei primi artisti ad utilizzare il neon fu l’italiano Lucio Fontana che nel 1930 lo utilizzò insieme alla luce nera in alcune delle sue Ambientazioni. Il consolidamento e lo sviluppo di questo nuovo medium all’interno del mondo dell’arte avvenne intorno agli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, quando i concettualisti usarono il neon per scritte o per illuminare oggetti e ambienti. Tra i tanti ricordiamo gli italiani Mario Merz e Maurizio Nannucci, gli americani Dan Flavin e Bruce Nauman (che ha da poco concluso la sua personale Neon Corridors Room all’Hangar Bicocca di Milano).

Neon Art | Collater.al
Bruce Nauman, Neon Corridors Rooms, Hangar Bicocca di Milano

La pratica di usare il neon nell’arte si consolida al tal punto di permanere nel corso degli anni ed essere ancora oggi incredibilmente attuale e ampiamente utilizzata. Il pubblico recepisce con entusiasmo questa tecnica, probabilmente per il suo forte impatto e per i colori fluorescenti.
Molti artisti contemporanei inseriscono il “tubo fluo” all’interno delle proprie opere, in alcuni casi riprendendo il concetto di trascrivere parole e frasi, in altri sfruttandone la potenza luminosa e in altri ancora accostandolo ad elementi in contrasto.
Abbiamo selezionato cinque artisti contemporanei ed internazionali che utilizzano il neon nelle proprie opere e che dovreste scoprire.

#1 Arthur Duff

Arthur Duff (1973) nasce in Germania, vive e lavora a Vicenza. La sua ricerca si focalizza sulla creazione di spazi complessi di esperienza visiva e fisica, utilizzando proiezioni laser, immagini pulsanti e luci a neon. Nelle opere di Duff la tecnologia viene messa in contatto con la natura, la scienza e il corpo sono messi in relazione. Esemplare è la sua opera intitolata No plot del 2018 esposta nella mostra Emerging Nature alla galleria Marignana di Venezia, in cui un tubo in neon rosso è posto su due rocce laviche, recitando la scritta “no plot”. 

#2 Pedro Torres

Pedro Torres (1982) nasce in Brasile, vive e lavora a Barcellona. L’artista concentra la sua pratica artistica su questioni legate ai concetti di tempo, distanza, memoria, linguaggio e immagine. Pedro sceglie quasi sempre il neon blu, come per la sua ultima opera site-specific dal titolo Clathratus realizzata per Spazio Volta di Bergamo. 

#3 Yuko Mohori

Yuko Mohori (1980) nasce in Giappone, vive e lavora a Tokyo. L’artista ha recentemente esposto alla mostra collettiva Japan Body Perform Live al PAC di Milano con l’installazione Moré Moré. Quest’opera esplicita il suo interesse per l’installazione e la scultura che deriva dalla necessità di concentrarsi su fenomeni in movimento, che cambiano in base alle condizioni dell’ambiente. Yuko Mohori usa oggetti quotidiani, come spugne, pentole e vasi, collegandoli tra loro da tubi in plastica entro cui scorre l’acqua, pompata da meccanismi a motore. L’acqua segue un percorso che si incontra e si intreccia con tubi in neon, generando allo stesso tempo suoni provocati dagli strumenti musicali che inserisce.

#4 Riccardo Cenedella

Riccardo Cenedella (1994) nasce a Torino e si laurea al MA Material Futures della Central Saint Martins. È un designer e si dedica alla creazione di oggetti su misura, sperimentando nuovi materiali con un occhio di riguardo sulla pratica del riciclo. Nella realizzazione della sua opera scultorea Carpet Matter Lamp il designer inserisce una componente luminosa che assomiglia al neon ma non lo è, trovando un sostituto del classico neon che, seppur non avendo un eccessivo consumo, è considerato un rifiuto pericoloso. L’opera è infatti realizzata utilizzando pezzi rotondi di materiale sintetico di scarto abbinato ad un LED Neonflex. 

#5 Hyun Cho

Hyun Cho (1982) nasce in Corea del Sud, vive e lavora tra l’America, la Corea del Sud e l’Italia, dove è rappresentata dalla Galleria Ramo di Como. La sua pratica artistica di giocare con le parole è evidenziata dall’utilizzo del neon, ne è un esempio l’opera Up To 200% Off, concepita qualche anno fa pensando al concetto di libertà nella contemporaneità. 

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I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

Giorgia Massari · 4 giorni fa · Photography

La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografa Tetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista.
Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.

Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 
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20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast

20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast

Tommaso Berra · 3 giorni fa · Photography

Venezia è una città di tesori, gemme sparse per la città e custodite nei palazzi della laguna, come per esempio Palazzo Grassi, che da qualche giorno ospita una mostra che raccoglie alcune di queste gemme, 407 tra fotografia e illustrazioni provenienti dall’archivio storico di Condé Nast.
Il titolo della mostra è “CHRONORAMA. Tesori fotografici del 20° secolo” ed è la prima esposizione mondiale dedicata alle opere – recentemente acquistate dalla Pinault Collection – provenienti dagli archivi della casa editrice americana fondata nel 1909 che pubblica tra gli altri Vogue e Vanity Fair.
Nelle bellissime sale di Palazzo Grassi la selezione è divisa in decenni, partendo dal 1910 e arrivando fino al 1979, raccogliendo lo straordinario lavoro di artisti come Irving Penn, Helmut Newton, Ugo Mulas Cecil Beaton e tanti altri, che hanno saputo intuire la potenza delle immagini nel secolo che ne ha sancito l’importanza artistica e sociale.

Le immagini mostrano ovviamente fotografie di moda, ma anche di architettura, nature morte e ritratti di icone del ‘900, partendo da figure politiche come Charles de Gaulle e J.F. Kennedy arrivando ad artisti del calibro di Pablo Picasso, Igor Stravinsky o Charlie Chaplin. Tante anche le foto di figure femminili, modelle come Twiggy e Veruschka ma anche Dr. Mary Walker, attivista per i diritti delle donne che nel 1911 veniva ritratta su Vanity Fair con indosso un paio di pantaloni, una scelta insolita per l’epoca ma che racconta tanto del contesto storico di queste fotografie.
la mostra sarà aperta al pubblico fino al 7 gennaio 2024 e nel frattempo, aspettando la vostra visita, il museo ha anche realizzato “Chronorama. Istantanee dal Novecentoun podcast in tre episodi prodotto da Chora Media che accompagna il visitatore a una lettura più chiara e approfondita delle opere.

CECIL BEATON, Standing portrait of General Charles de Gaulle, 1944, Vogue © Condé Nast
CECIL BEATON, Paternoster Row, London, after bombing, 1940, Vogue © Condé Nast
TONI FRISSELL, WAAC (Women’s Army Auxiliary Corps) officers sitting under hair dryers, 1943, Vogue © Condé Nast
PAUL HIMMEL, The Isetta car parked beside the glass-stair-railed apartment Moretti, 1954, Vogue © Condé Nast
EVELYN HOFER, Frank Lloyd Wright, 1959, Vogue, © Condé Nast
JEAN HOWARD, Marlon Brando, 1951, Vogue © Condé Nast
LUSHA NELSON, Heavyweight boxing champion Joe Louis, 1935, Vanity Fair © Condé Nast
DUANE MICHALS, Two models in an office looking at negatives, 1976, Vogue, © Condé Nast
DORA KALLMUS, Tsuguharu Foujita, 1928, Vanity Fair © Condé Nast
GEORGE HOYNINGEN-HUENE, Josephine Baker, 1927, Vanity Fair © Condé Nast
GEORGE HOYNINGEN-HUENE, Igor Stravinsky seated with a hat, 1927, Vanity Fair © Condé Nast
IRVING PENN, Mr. and Mrs. Henri Cartier-Bresson, 1946, Vogue © Condé Nast
FRANCO RUBARTELLI, Veruschka, head-to-head with a cheetah, 1967, Vogue © Condé Nast
BERT STERN, Actor and director Anthony Newley playing with two models, 1963, Vogue © Condé Nast
BERT STERN, Twiggy wearing a mod minidress by Louis Féraud and leather shoes by François Villon, 1967, Vogue © Condé Nast
STRAUSS-PEYTON STUDIO, Actor Charlie Chaplin, 1921, Vanity Fair © Condé Nast
PAUL THOMPSON, Dr. Mary Walker, the first woman to wear trousers in public, c. 1911, Vanity Fair © Condé Nast
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Brice Gelot, per l’amor di Dio

Brice Gelot, per l’amor di Dio

Tommaso Berra · 2 giorni fa · Photography

Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società.
“For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista francese Brice Gelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.

Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano.
Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.

Brice Gelot | Collater.al
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 5 giorni fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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