Outdoor Festival – Intervista con Uno, Leonardo Crudi, Rub Kandy e Biancoshock

Outdoor Festival – Intervista con Uno, Leonardo Crudi, Rub Kandy e Biancoshock

Aurora Alma Bartiromo · 5 anni fa · Art

Altro giro, altra corsa, ma soprattutto altre interessantissime risposte dall’Outdoor Festival.
Pronti? 3,2,1 via!

Cinque parole che odi e cinque parole che ami. 

Uno: Amo: Deturnamento, Semplice, Aperto, Panino, Loco. Odio: Stallo, Fluoro, Riqualificazione, Altresì, Chiuso.

Leonardo Crudi: Tutte le onomatopee. Tutti gli inglesismi.

Rub Kandy: Amo: #crossover #visualizzare #mood #gatto #kids. Odio: #resilienza #sinergia #immersivo #madeinitaly #no.

Biancoshock: Mi trasmettono sensazioni positive parole come Fosforescente, Analogico, Spruzzo, Additivo e Grimaldello. Non amo invece, per motivi diversi, parole come Benzodiazepina, Influencer, Ritenuta, Barbabietola e Riqualifica Urbana.

Qual è la cosa migliore della città da cui vieni?

Uno: Il sole.

Leonardo CrudiSicuramente la tangenziale est di Roma, è il posto dove ho passato più tempo e dove mi sono divertito di più.

Rub Kandy: L’oppio migliore lo trovi a Potenza.

Biancoshock: La varietà. Varietà di stili, di culture, di geometrie urbane, di disagio. Questo implica diversità e possibili problematiche ma, a mio avviso, la varietà è un’occasione importantissima per confrontarsi ed assaporare qua e là qualcosa di nuovo. Poi per il resto Milano è piena zeppa di difetti e di controsensi, a volte la percepisco come una signora di mezz’età che non ha alcuna intenzione di invecchiare. Per quello che alla fine, nel bene e nel male, le voglio sempre bene.

Quando e come hai cominciare a “fare arte”?

Uno: Sin da quando ero bambino l’arte è sempre stata parte della mia vita, trascorrevo molto tempo a disegnare con mio padre. Ho iniziato a lavorare in strada durante i primi anni 2000 e ho iniziato a farlo in maniera seriale quando l’icona di un famoso marchio di cioccolato, ben noto alla mia generazione, è stata sostituita da un’immagine più accattivante. Da quel momento quel volto è diventato onnipresente nella mia produzione artistica. In quegli anni ero molto influenzato dal situazionismo, l’intento era giocare con la tecnica pubblicitaria cambiandone il segno. Un volto liberato dal ruolo assegnatogli dai suoi creatori che diventa paradossalmente lo strumento ideale per una critica alla pratica pubblicitaria stessa.

Leonardo Crudi: Quando ho cambiato dialettica passando dai graffiti (che non ho mai, del tutto abbandonato) alla pittura, intorno ai 20 anni, sperimentando forme e colori per “creare” non solo lettere. tutto ciò è andato di pari passo al fatto che ho anche smesso di uscire.

Rub Kandy: Da piccolo, ho seguito mio fratello più grande, lui è il vero artista e da vero artista si è messo a fare altro dopo…come Duchamp…e poi avevo delle maestre dell’asilo a via Messina che erano “frickettone”, mi facevano sempre disegnare e poi appendevano i miei disegni e mi dicevano che ero bravo…purtroppo alle elementari a via Perugia, con quella baldraccona della maestra Elisabetta che era una sadica frustrata le cose sono cambiate…ma le botte di quella farabutta non mi hanno fermato e lì assieme a Giuseppe Morlino facevamo arte politica…ora la si chiamerebbe satira…insomma disegnavamo la maestra grassa e nuda e piena di cacca e cose così <3 in seguito i locali dove facevo l’asilo mamma li ha comprati e adesso sono il mio archivio a Potenza. Love mom.

Biancoshock: A 14 anni, con i graffiti. Non so se questo sia stato ‘fare arte’; di sicuro è fare, e tutt’ora faccio, non importa se questo fare sia collegato alla parola arte o meno, per me azione, interazione ed disturbo comunicativo sono e saranno sempre nel DNA del mio progetto artistico. Forse oggi il mio operato viene riconosciuto (a fatica) come arte pubblica. Ma è tutto il contorno che dà senso a questo percorso: il contesto urbano in cui agisco, le persone che lo vivono, il disagio ed i controsensi della società attuale, ovvero il profumo di tutto ciò con cui entro in contatto ogni giorno.

Cosa stai proponendo qui all’Outdoor Festival?

Uno: Il mio lavoro per Outdoor sarà un’installazione dal titolo “Outside In”. Si tratta di una sorta di scenografia formata da cinque grandi teli situati all’ingresso del festival. Quando mi è stato comunicato il tema di quest’anno, Heritage, ho pensato a qualcosa che andasse oltre l’idea del patrimonio artistico e culturale di cui la nostra nazione gode. Il patrimonio come qualcosa di più vasto, che riguarda l’Italia in toto. Allora ho pensato ai confini che delimitano la nostra terra, i mari e i monti, e ho cercato di riportarli sul mio lavoro con delle forme geometriche che rappresentano sia delle catene montuose che le onde del mare. Le forme si ripetono (anche se in maniera diversa) sia sul primo che sull’ultimo telo, fungendo da confine dell’installazione stessa. Il disegno iniziale rappresenta un grande apparato genitale femminile, l’origine di tutto, che funge da varco tramite il quale gli spettatori s’immergono nell’opera e la attraversano. I teli intermedi si distinguono in tre fasi: alba, giorno e notte.

Leonardo Crudi: Quattro opere, quattro manifesti, che rappresentano i maggiori esponenti delle avanguardie sovietiche dei primi del novecento. Oltre ai ritratti, nei manifesti, sono presenti chiari riferimenti al loro lavoro culturale o a episodi della loro vita. Come con Majakovskij dove ho raffigurato il volto di Lilja Brik, sua amante e musa ispiratrice, o come in quelli di Ejzenstejn e Vertov dove ho rappresentato il kinoglaz (cineocchio) o il titolo di uno dei capolavori del regista sovietico. Ispirandomi alla logica dei lavori di Francis Pacabia in cui l’oggetto descrive la persona. Il supporto dei manifesti rimanda allo scenario urbano della cartellonistica romana, e tra le strutture di supporto ho inserito delle bandiere triangolari rosse che ricordano le esposizioni di Lissitzky e dei costruttivisti russi.

Rub Kandy: Porto un processo, un algoritmo, diciamo così…Di Lullo e Omodeo ( i curatori ) mi hanno parlato del concept, ho un buon rapporto con loro, sanno quanto ci tenga a fare le cose ma sanno anche quanto per me sia importante sperimentare, scusate la parola inflazionata…per “sperimentare” intendo semplicemente “approcciarsi a un progetto accollandosi la possibilità di fallire”…insomma giocare.. loro quando mi chiamano sanno che li farò tribolare e che mi infilerò in qualche vicolo cieco e che se siamo fortunati quel salto per uscire dal buco sarà il lavoro (quando stai con le spalle al muro, lì devi fare un bel salto e spiazzare tutti cit.)…siamo tutti e tre storici dell’arte, insomma siamo degli eletti e ci capiamo con poche parole .-) Torno al racconto dell’opera: porto un processo, ho messo su una filiera: 1 raccogliere tutto il packaging in polistirolo che le strade di Roma, e in particolare quelle attorno al Mattatoio; 2 colare calcestruzzo (e lo stesso polistirolo sminuzzato) all’interno di questi vuoti; 3 godersi le forme risultanti, frutto di un progettazione attenta, se pure non finalizzata allo scopo estetico, eppure forse proprio per quello così “densa” e “piena” e “pesante” di “contenuto”…è un classico dell’artigianato (il calco), dell’archeologia (come non ricordare la magia inventata da Fiorelli per i calchi di Pompei), del gioco (i castelli di sabbia) e ovviamente, delle tecnologie di costruzioni dai mattoni in laterizio delle mura Aureliane alle casseformi del MAXXI, (che esse stesse meriterebbero di stare nel MAXXI.. e che in realtà ci stanno, invisibili ma presenti come il negativo delle forme che hanno lasciato…come circo massimo.. come il galoppatoio nascosto nel vuoto di piazza Navona, non c’è…eppure c’è…)…4 mettere tutto ad asciugare sotto un bel sagomatore vintage a luce calda da 1000W…assicurandosi che l’ombra di uno non ricada su un altro, che ogni pezzo abbia il suo posto al sole… applicando la regola dei pezzi più grandi al centro e così via…rompere tale regola ogni tanto, in base a occasioni contingenti…così come succede nella storia delle stratificazioni di una città…; 5 l’opera si chiama “almost ready”, il titolo dice un po’ la mission…almost ready/quasi pronto perché è un ready made aiutato, è un almost ready made, è un prefinito come il parquet Leroy Merlin, pronto per l’artista bricoleur che ristruttura e remixa…almost ready perché la durata di asciugatura del cemento coincide con la durata della mostra…30/40 giorni in cui il calcestruzzo amico dell’uomo, plastilina per bimbi grandi, magicamente calcifica diventando da terra friabile, roccia brutale, con tutto il contenuto di cui sopra imprigionato nella sua forma…The fabulous b-side of industry.

Biancoshock: Presento B.TOY, un’installazione / performance che parla di una situazione attuale, quella dell’artista urbano contemporaneo, preso, impacchettato e spedito da una parte all’altra, da un evento ad un festival, da una commissione ad una mostra. Ovviamente sempre pronto a creare con la logica del low-cost and high-performance. Si è creata una forma di mercificazione della street art che ha portato ad una saturazione di festival, eventi promossi da brand, etc. etc. che ha di sicuro snaturato le origini di questo, chiamiamolo, movimento. Ma che succederà quando questi bambinoni si stancheranno del B.Toy?

Cosa vedi nel futuro?

Uno: Tutto un po’ appannato.

Leonardo Crudi: Sono un teledipendente e quindi il mio futuro più prossimo è davanti alla televisione.

Rub Kandy: Non lo so, sono un po’ in crisi…

Biancoshock: Vedo la nascita del Museo della Street Art Vaticana, Salvatore Aranzulla Ministro della Difesa e uno sciopero generale di like indetto da Zuckenberg.

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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 3 ore fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

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Diego Dominici e il velo di Maya

Diego Dominici e il velo di Maya

Giorgia Massari · 4 giorni fa · Photography

Un velo delicato, quasi trasparente e impercettibile, fluttua davanti ai nostri occhi e filtra la realtà, che diventa soggettiva e mai assoluta. Il filosofo Schopenhauer lo chiamava “il velo di Maya”, quell’impedimento che vieta all’uomo di fare esperienza del reale, che ci illude di conoscere la Verità. Il fotografo Diego Dominici lo pone tra lo spettatore e i suoi soggetti, trasformandolo in effettivo protagonista delle serie Atman e Red Clouds. Le figure – uomini e donne – sono intrappolate nel velo, lottano con esso tentando di evadere, aggrappandosi con forza, cercando di penetrarlo, in altri casi invece lo accolgono, adagiandosi e uniformandosi alla sua morbidezza che persuade. Allo spettatore è permesso solo intravedere le forme dei loro corpi nudi e le loro ossa impresse sulla superficie, in una danza di luci e ombre che trasmettono sensualità e solitudine allo stesso tempo.


Diego Dominici tenta di rompere la bidimensionalità della fotografia, creando due piani di profondità: quello dettato dal tessuto e dalle sue increspature e quello in cui è posizionato il soggetto. L’occhio dello spettatore è portato a muoversi continuamente sulla superficie, cercando di superarla e raggiungere così il soggetto e le sue forme dunque, in altre parole, la Verità.
L’analogia con la psicologia umana è dichiarata dal fotografo che vuole “squarciare la bidimensionalità per indagare i grovigli dell’interiorità umana”. Come nei suoi scatti, l’uomo può scegliere di farsi cullare dal velo dell’illusione, farsi accarezzare da una fittizia realtà e rimanere fermo sul suo punto di vista, oppure può scegliere di romperla, raggiungendo così l’altro lato e guardare la realtà da un’altra prospettiva. Il tessuto, o meglio il velo, diventa l’emblema delle barriere relazionali, quegli ostacoli che si interpongono tra noi e gli altri, che ci impediscono di comprendere le ragioni altrui e che creano distanze incolmabili. Allo stesso tempo, il velo diventa parte di noi, una sorta di involucro che ci avvolge e ci plasma, impedendoci di andare oltre. Ma, come diceva Schopenhauer, il velo di Maya dev’essere abbattuto, squarciato come una tela di Fontana, l’uomo deve abbandonare l’involucro come un serpente che cambia la propria pelle, per potersi aprire all’altro. Del resto, cos’è l’amore se non “l’annullamento dell’ego, il crollo di ogni discriminazione cosciente e la rinuncia a ogni metodica scelta”? diceva Salvador Dalì ne La mia vita segreta. Le opere di Diego Dominici invitano quindi a una profonda riflessione intima ma, grazie alla sua estetica attentamente curata, possono anche semplicemente appagare la vista e apparire come opere sensuali, in cui il velo diventa un preludio al piacere intimo.

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Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Tommaso Berra · 4 giorni fa · Photography

Basta ascoltare le conversazioni che nascono dentro la propria testa a Cecilie Mengel per immaginarsi come potrebbero essere rappresentate fotograficamente. L’artista danese e ora residente a New York realizza scatti che sono dialoghi interiori nati dagli stimoli che lei stessa riceve da ciò che la circonda e dalle persone con cui si trova a vivere momenti molto quotidiani.
Il risultato è una produzione artistica che è contraddistinta da una forte varietà nei soggetti e nelle ambientazioni, così come nello stile, una volta documentaristico, altre volte più vicino a una certa fotografia posata e teatrale. Si passa da scatti rubati in casa durante una conversazione a dettagli di una latta di salsa Heinz trovata nel porta oggetti di un taxi, tutto ricostruisce una storia comune e quotidiana.
Anche la tecnica di Cecilie Mengel rispecchia questa stessa idea di varietà. L’artista infatti combina fotografia digitale e analogica, in altri casi la post produzione aggiunge segni grafici alle immagini. Le luci talvolta sono naturali altre volte forzatamente create con il flash, creando un senso d’insieme magari meno omogeneo ma ricco di suggestioni e raconti personali.

Cecilie Mengel è stato recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Cecilie Mengel | Collater.al
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Isabella Ståhl è tornata a Nord

Isabella Ståhl è tornata a Nord

Tommaso Berra · 5 giorni fa · Photography

Isabella Ståhl è una fotografa svedese che si è trovata a riscoprire i paesaggi della propria infanzia dopo aver viaggiato in tutto il mondo, partendo da Stoccolma fino a New York, Parigi e Berlino. Il Nord rappresenta il punto cardinale dal quale si è spostata inizialmente, tornando poi una volta affinata la propria maturità artistica, che le ha permesso di guardare sotto una nuova luce i paesaggi rurali e malinconici della propria infanzia.
Nelle foto di Isabella Ståhl a dominare è la natura con i suoi vasti campi e gli animali selvatici e selvaggi avvolti nella nebbia, che nasconde anche tutto il resto del paesaggio come una coperta bianca. La straordinaria solitudine delle composizioni e la malinconia che entra dritta negli occhi degli spettatori sono due tra le caratteristiche principali del lavoro di Ståhl, fotografa affermata che nel corso della sua carriera artistica ha collaborato con alcuni dei più importanti brand ed editori internazionali. La sua capacità non è solamente quella di saper costruire una storia dietro ai momenti che sceglie di scattare, ma anche restituire come delle sensazioni fisiche di calore, freddezza, dei brividi che rendono protagonisti tutti coloro che si fermano a guardare le fotografie.

Isabella Ståhl è stata recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Isabella Ståhl | Collater.al
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