I 33 anni di Seinfeld, George Costanza e Aimé Leon Dore

I 33 anni di Seinfeld, George Costanza e Aimé Leon Dore

Andrea Tuzio · 11 mesi fa · Style

A inizio luglio, precisamente il 5, Seinfeld ha compiuto 33 anni.
Se non sapete cos’è Seinfeld o più semplicemente non l’avete mai vista, ecco, vi consiglio di rimediare prima di subito.
Seinfeld è una sit-com americana trasmessa da NBC a partire dal 5 luglio del 1989 fino al 14 maggio del 1998, per un totale di ben 9 stagioni.

Questa serie epocale fu creata da Jerry Seinfeld, una leggenda della stand-up comedy statunitense, e da un altro personaggio unico e inimitabile dello show biz americano, Larry David.

Lo “show sul nulla” – così viene definito tuttora – ambientato prevalentemente nell’Upper West Side di New York vede tra i protagonisti, oltre allo stesso Jerry Seinfeld che interpreta una una versione fantasiosa e sui generis di se stesso, Jason Alexander (George Costanza), Julia Louis-Dreyfus (Elaine Benes) e Micheal Richards (Cosmo Kramer), tutti diventati personaggi di culto. 

Una serie postmoderna, dove i protagonisti erano “single sui 30 e qualcosa anni… senza radici, dalle identità vaghe, e con una cosciente indifferenza alla morale”, durante la quale veniva fuori un nuovo modello di rappresentazione della realtà.
Convenzioni narrative radicate come separare nettamente personaggi e attori che li interpretano, il mondo dei personaggi da quello degli attori e del pubblico, venivano ribaltate. Ne è un esempio è la linea narrativa in cui i personaggi cercano di promuovere una sitcom televisiva intitolata Jerry. Lo show nello show, Jerry, in cui Seinfeld interpretava sé stesso, e che era dichiaratamente “sul nulla”, era clamorosamente simile allo stesso Seinfeld. Jerry venne lanciata nell’episodio finale della quarta stagione, ma non ebbe successo e fu abbandonata, creando quindi un’intesa e un linguaggio metareferenziale con il pubblico.
Da un punto di vista stilistico, Seinfeld ha influenzato i format, il linguaggio e lo stile di tantissime serie iconiche come The Office, Arrested Development, Scrubs, e molte altre.

Ciò che però ci interessa da più vicino è andare a esplorare una peculiarità specifica dello show, lo styling, che negli anni ha acquisito un’importanza e un significato che merita di essere approfondito.
La legacy dello show, orami diventato un cult assoluto, ha fatto sì che l’attenzione attorno alle vicende di Jerry Seinfeld e compagnia fosse sempre molto alta, i social media poi hanno fatto il resto grazie a meme, video, reference, etc..

I costumi dello show hanno mantenuto un fascino senza tempo e ad occuparsi dello styling della serie, insieme alla costumista Stephanie Kennedy, venne coinvolto lo stesso Jerry, il quale volle per il suo personaggio che non ci fosse differenza tra ciò che indossava sul set durante le riprese e quello che era solito mettere nella vita di tutti i giorni.

La scelta della genericità dei costumi venne declinata anche sugli altri personaggi della sit-com: George Costanza è il personaggio che più degli altri doveva apparire semplice, essenziale. Lo vediamo infatti infatti indossare Levi’s, Dockers, maglioni, giubotti e jersey dei New York Yankees, cappellini discutibili, tute di ciniglia, e tantissimo altro che ne determina la sobrietà, con alcuni picchi che non spoilero nel caso non abbiate visto la serie.
Quello che però davvero nessuno poteva prevedere è che lo stile di Costanza in Seinfeld, potesse finire nei moodboard dei brand più cool della nostra contemporaneità.

Fa sorridere, e allo stesso tempo riflettere, vedere associati i look del personaggio con i lookbook del brand che più di ogni altro in questo momenti storico, definisce l’estetica della coolness legata a un’eleganza soft, accennata, semplice e ricercata allo stesso tempo, Aimé Leon Dore.

Se si mette in conto anche la nostalgia e quindi il conseguente ritorno della moda anni ’90, il gioco è fatto.
Costanza è un newyorkese doc e ne impersonifica molti degli aspetti tipici. Così come Aimé Leon Dore desidera incarnare lo spirito della Grande Mela attraverso le sue collezioni, richiamandone elementi distintivi e coinvolgendo personaggi che a New York vivono, lavorano e ne rappresentano lo stile sotto tutti i punti di vista, non solo estetico.
Il personaggio di Elaine Benes divenne un’icona del concetto di “fuori moda”, abiti floreali, blazer criticabili e camicie quasi comiche. La scelta però era ponderata: si trattava di abiti usati che poi venivano modificati per suscitare ilarità nel pubblico, riuscendoci perfettamente.
Alla piattaforma InsideHook la Kennedy rivelò: “È una linea sottile. Non si vuole che i vestiti attirino troppo l’attenzione. Se si guardano i vestiti, allora non sto facendo il mio lavoro”. 

Altro aspetto fondamentale della questione è la passione di Jerry per le Nike e per le scarpe in generale. Insistette moltissimo perché il personaggio di George Costanza indossasse spesso un paio di Cortez, che dovevano diventare una caratteristica peculiare del personaggio, così come per Kramer, che ai piedi portava sempre un paio di Dr. Martens.
Per quanto riguarda Jerry, sneakerhead vero e appassionato, non esisteva altro che Nike. Nel corso delle 9 stagioni ne abbiamo viste di ogni. Quando poi Nike comprese la portata del fenomeno e soprattuto si rese conto che poteva essere un’ottima operazione di marketing legarsi in qualche modo allo show, decise di endorsare i personaggi del cast e della troupe, arrivano a realizzare collaborazioni e merchandising apposta per la serie.

Se avete voglia di recuperarla o di fare un rewatch (è sempre il momento giusto per un rewatch di Seinfeld) potete trovare tutte le 9 stagioni su Netflix, fatevi un regalo e guardatela.


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Gli scatti imprevedibili di Nicolas Polli

Gli scatti imprevedibili di Nicolas Polli

Anna Frattini · 2 giorni fa · Photography

La fotografia di Nicolas Polli cattura momenti imprevedibili dando vita agli oggetti della quotidianità. Non solo fotografo ma anche graphic designer ed editore, Polli sembra non fermarsi mai. Nelle sue still life non c’è niente di banale, ogni elemento prende vita assumendo significati nuovi.

Nel 2012 ha fondato insieme a Salvatore Vitale il magazine fotografico YET e nel 2016 Atelier CIAO – uno studio indipendente specializzato in editorial design e still life – sempre al lavoro con brand di lusso e design. Ora anche artista residente presso l’Atelier Robert di Bienne, in Svizzera, Nicolas Polli in questa fase si concentra sugli still life. Tutto questo, dopo essersi inventato una vera e propria spedizione su Ferox, un pianeta inventato, nel 2017.

Se in Ferox, The Forgotten Files: A Journey to the Hidden Moon of Mars 1976–2010 Polli gioca con la nostra incapacità di discernere il reale dall’irreale, nei suoi still life riflette sul nostro fragile rapporto con gli oggetti quotidiani. Quando le sagome familiari di questi oggetti cambiano forma in maniera inusuale tutto cambia, anche la nostra percezione. In When Strawberries Will Grow on Trees, I Will Kiss U la combinazione di una buccia di banana, una brioche e qualche mozzicone di sigaretta assume un significato particolarmente disturbante ma il tutto funziona riuscendo a mostrarci gli oggetti banali da un punto di vista totalmente estraneo.

Ph. courtesy Nicolas Polli

Per altri scatti di Nicolas Polli qui il suo profilo Instagram.

Gli scatti imprevedibili di Nicolas Polli
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Gli scatti imprevedibili di Nicolas Polli
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Elisa Roman e i sei anni di differenza

Elisa Roman e i sei anni di differenza

Giorgia Massari · 1 giorno fa · Photography

Sei anni è la differenza d’età fra le mie figlie” ci racconta la fotografa Elisa Roman (1976) che nel suo progetto Six years racchiude con poesia, istanti di vita quotidiana, osservando con un punto di vista voyeuristico le vite delle sue due figlie. “Una è leggera e spensierata, nel pieno della sua fanciullezza; l’altra al delicato debutto nell’adolescenza, velata di mestizia e grandi interrogativi.” continua Elisa, “Sei anni è un tempo sospeso, a metà fra orsacchiotti e smalti per unghie, in bilico fra la curiosità di crescere in fretta e il desiderio di rimanere a giocare ancora un po’.” 

Con qualche passo indietro, Elisa Roman osserva le sue figlie da lontano e guarda il mondo attraverso i loro occhi, rievocando al tempo stesso il suo passato. I momenti del presente si incontrano con i suoi ricordi, talvolta mescolandosi, talvolta parendo così lontani e diversi.
Lo scorrere del tempo è scandito dagli scatti di Roman, che documentano in qualche modo il percorso di crescita delle figlie. La loro trasformazione, il loro costruirsi un’identità, l’una affianco all’altra. Elisa ci racconta come non tutti gli scatti trasmettino spensieratezza ma che anzi, anche i litigi e i momenti di distacco sono oggetto di indagine. Le fotografie sono per la maggior parte ad unico soggetto, mostrando in modo esplicito la lontananza tra le due fasi di vita nonostante a volte sembrino invece così simili, tendendo l’una verso l’altra.

Con curiosità, mista a meraviglia e commozione, lo osservo evolversi nel loro continuo divenire e ritornare. Mare calmo e tempesta.
La crescita dei nuovi denti o un orsacchiotto dimenticato su una poltrona, sono solo alcuni degli elementi che ricordano costantemente ad Elisa quanto il tempo sia veloce e come gli attimi siano fugaci. In questo modo, Six years diventa “una specie di antidoto contro il tempo che sfugge.”

Courtesy Elisa Roman
Elisa Roman è allieva della scuola di fotografia di Irene Ferri, Arizona

Elisa Roman e i sei anni di differenza
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Elisa Roman e i sei anni di differenza
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Se la fotografia racconta l’arte del passato: Luca Santese per il MARec

Se la fotografia racconta l’arte del passato: Luca Santese per il MARec

Laura Tota · 13 ore fa · Photography

Da quasi un anno, il Museo dell’Arte Recuperata (MARec) a San Severino Marche, accoglie centinaia di opere letteralmente salvate dai luoghi sacri del territorio marchigiano dopo il devastante sisma del 2016, una “casa temporanea” in cui poter riconsegnare al pubblico opere di arte sacra dal valore inestimabile datate tra il Duecento e il Settecento.
Il contesto da cui queste opere sono state violentemente separate dal terremoto, è restituito attraverso una suddivisione per luogo di origine delle belle stanze del Palazzo Vescovile, ma non solo: a dispetto dell’antichità delle opere esposte, la direttrice del museo Barbara Mastrocola ha fortemente voluto un intervento capace di restituire la potenza delle opere attraverso uno dei linguaggi più contemporanei, ovvero quello della fotografia e del video.
Ad accogliere la sfida, Luca Santese, fotografo e fondatore del collettivo Cesura, e Nicola Patruno, critico della cultura e curatore, attraverso la realizzazione di un documentario di ampio respiro che restituisce un paesaggio collettivamente vissuto, con una narrazione ricca di suggestioni, affetti e parole di chi di quel territorio è parte integrante.
Nel mese di aprile, inoltre, è stata presentata una pubblicazione molto significativa per restituire la missione del museo: non un catalogo, ma un volume che “è un percorso dentro le opere – racconta Barbara Mastrocola – che sintetizza con immagini altamente evocative il senso di questo Museo, cioè quell’anelito di Rinascita che passa anche dal recupero delle opere d’arte, sorprendenti testimonianze dell’antica vivacità, anche economica, dei luoghi che oggi, soprattutto dopo le ferite del sisma, ad una superficiale lettura, ci apparirebbero un po’ emarginati rispetto allo sviluppo che, nelle terre marchigiane, sembra essere avvenuto solo nelle località costiere”.
Abbiamo chiesto a Luca Santese di raccontarci in che modo la fotografia ha contribuito a definire l’identità del MARec.

L’esperienza editoriale non è nuova nella tua pratica, anche se qui ci troviamo di fronte a una pubblicazione ibrida che non è un catalogo, ma neanche una semplice guida. Eppure, la sua capacità di portare il pubblico all’interno del progetto MARec è molto alta, grazie a un equilibrato uso di testi e immagini. Come avete coordinato il lavoro tu, Nicola Patruno e Barbara Mastrocola? Quali sono gli obiettivi della pubblicazione?
Come dici ho iniziato molto giovane con l’editoria indipendente attraverso Cesura, mio collettivo fotografico, e la sua casa editrice indipendente Cesura Publish con la quale mi sono occupato principalmente di libri di fotografia autoriale. Questo catalogo ha trovato una sua identità forte perché porta con sé questa mia esperienza unita alle competenze di Nicola Patruno, curatore e critico della cultura, di Giulia Fumagalli, grafica esperta e sperimentale e Barbara Mastrocola, Direttrice del museo MARec di cui conosce singolarmente tutte le opere e che ha curato, insieme a me e Patruno, il volume fin da principio.

Nel tuo caso, da fotografo di ricerca con una visione estremamente contemporanea, che taglio hai voluto dare alle immagini delle opere ritrovate? In che modo queste opere incredibili, ma appartenenti a un’altra epoca e ad altre ferite/storie sono riuscite a parlarti e come sei riuscito a darne conto?
La Direttrice mi ha concesso il privilegio di poter interpretare fotograficamente le opere del museo lavorando sulla scultura con una luce non scientifica, dal punto di vista della catalogazione, ma drammatica. Luce che ha permesso di esaltare l’espressività delle opere, dando quasi vita ai soggetti. Anche per quanto riguarda la pittura ho potuto lavorare liberamente sulla scelta dei dettagli così da creare quasi dei quadri nei quadri. Lavorare fotograficamente a contatto con la pittura e la scultura medievale è un’esperienza potente che mette il fotografo in relazione intima e di conoscenza profonda con le opere stesse.

Quanto il fatto di aver diretto anche il documentario, e quindi di esserti addentrato maggiormente nel tessuto narrativo/esistenziale del territorio, ha influito sul tuo modo di scattare?
Sicuramente molto perché l’esplorazione del territorio al fine di realizzare questo documentario con Nicola Patruno è stata approfondita e metodica e mi ha permesso di conoscere a fondo lo spirito del luogo che è conservato e vive anche nelle opere, nella loro funzione di culto e di memoria che le lega inscindibilmente agli abitanti.

Nella pubblicazione ci sono molte foto di dettagli, i punti di ripresa sono a volte inusuali, in alcune l’utilizzo della luce è teatrale, quasi a voler drammatizzare i soggetti fotografati: sicuramente una modalità di scatto più autoriale rispetto a quella dei meri cataloghi museali e che pone questa pubblicazione su un livello di lettura diverso. Credi che questa scelta riguardi anche i testi e i contributi degli altri professionisti con cui hai lavorato? A quale pubblico è destinata questa pubblicazione così particolare?
Come dicevo ho potuto interpretare fotograficamente le opere del museo lavorando sulla scultura e la pittura con una luce e delle inquadrature non scientifiche dal punto di vista della catalogazione ma che ne sottolineasse l’espressività. Questo metodo è stato applicato da tutti i professionisti che hanno lavorato a questo progetto e, di conseguenza, su ogni aspetto del lavoro. Abbiamo insieme voluto valorizzare non solo la fondamentale funzione documentale del catalogo ma anche l’aspetto espressivo legato all’interpretazione curatoriale, grafica e fotografica. Un aspetto essenziale al nostro scopo: trasmettere con la maggior forza possibile la forza non solo delle opere ma di tutta la storia che le vivifica e le sorregge, dal salvataggio alla nuova vita.

Se la fotografia racconta l’arte del passato: Luca Santese per il MARec
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Se la fotografia racconta l’arte del passato: Luca Santese per il MARec
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L’emotività secondo Alex Garcia

L’emotività secondo Alex Garcia

Anna Frattini · 5 ore fa · Photography

Gli scatti di Alex Garcia comunicano le emozioni in modo chiaro anche nella loro complessità. Raccontano questioni sociali e malinconia. Non solo fotografo ma anche musicista, Garcia riesce a fare sue queste discipline esprimendosi al meglio con la fotografia. L’empatia è una delle componenti fondamentali nei lavori di Garcia ed è il suo mezzo per comunicare con lo spettatore. L’emotività dei suoi scatti passa per sentimenti umani come la solitudine riuscendo a comunicarne la potenza ma anche la bellezza.

ordinary ghosts, 2023

Nonostante la giovane età, gli scenari creati da Alex Garcia comunicano qualcosa di forte. Mettono insieme luoghi evocativi a sentimenti di profonda tristezza come nel suo ultimo progetto, we get married in our heads.

Solitamente, negli scatti di Garcia i soggetti sono immortalati da soli o in coppia e ogni componente della sua fotografia – dalla luce alle ombre passando per l’ambientazione – è pensata per comunicare un’emozione precisa. two people e sleep tight sono l’esempio perfetto della potenza comunicativa degli scatti di Garcia.

Per scoprire gli altri progetti di Alex Garcia qui il suo profilo Instagram.

Ph. courtesy Alex Garcia

L’emotività secondo Alex Garcia
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