Il vetro di Murano nel design

Il vetro di Murano nel design

Giorgia Massari · 4 settimane fa · Design

Il vetro di Murano vanta una grande fama, tutti almeno una volta nella vita ne abbiamo sentito parlare o, addirittura, abbiamo assistito alla sua lavorazione o, ancora di più, posseduto qualche piccolo oggetto, spesso un souvenir proveniente dalla magica isola veneziana nella quale viene prodotto. Questo vetro ha una storia secolare, nasce infatti nel 1291 quando le vetrerie di Venezia vennero trasferite proprio a Murano. Ancora oggi, a distanza di secoli, i vetrai muranesi lavorano conservando e tramandando le tecniche artigianali tradizionali. La sua bellezza e la sua preziosità, conquista negli anni i designer e gli artisti, che sempre più spesso lo scelgono come protagonista delle proprie opere. 

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Ettore Sottsass, Lampadario in vetro di Murano

Il vetro di Murano incontra l’innovazione nel secolo scorso, quando numerose aziende iniziarono a collaborare con artisti e designer. Prima fra tutte fu la giovane vetreria Cappellin&Venini che nel 1921 affidò la posizione di direttore artistico a all’artista muranese Vittorio Zecchin, in modo da creare un connubio tra arte, design e la tecnica dei vetrai. Di seguito molte aziende seguirono l’esempio, contribuendo a diffondere questa cultura radicata nel territorio su larga scala, sconfinando nel mondo artistico. Anche il famoso designer Ettore Sottsass scelse il vetro di Murano per alcuni dei suoi pezzi. Negli anni ’70 infatti Sottsass iniziò a lavorare con Luciano Vistosi, artista e capo di una delle più celebri fornaci dell’isola, disegnando quei progetti che poi passavano nelle mani dei vetrai per la realizzazione. L’intervento di Sottsass e il rapporto di Vistosi con alcuni dei designer più famosi dell’epoca come Aulenti, Zanuso, Magistretti, Meronen Beckmann e Mangiarotti, portò il vetro di Murano verso una direzione più creativa e decorativa, consentendo al materiale di uscire dalla sola dimensione domestica e approdare così negli spazi espositivi. 

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Lorenzo Vitturi, inserto in vetro di Murano

Ancora oggi, sono molti i designer che scelgono il vetro di Murano come materiale prediletto per le loro creazioni. Un esempio è l’artista Lorenzo Vitturi che spesso cuce all’interno dei suoi arazzi degli inserti di vetro di Murano, insieme ad altri oggetti recuperati appartenenti a diverse culture.
C’è una designer invece, che ha scelto questo materiale come protagonista indiscusso delle sue opere. È Alice Crepaldi (1997) che con il suo progetto “Walking Jewel” esplora l’utilizzo di questo prezioso materiale, lavorando a stretto contatto con i maestri vetrai. Il suo lavoro, che si basa sul tema del movimento, si compone “di gioielli “ambulanti” in cui la montatura è espressa da queste forme morbide e sinuose ispirate ai movimenti del corpo umano”, racconta Alice. Le motivazioni che hanno portato questa giovane designer a scegliere proprio il vetro di Murano, sono senza dubbio poetiche e legate all’unicità. Alice Crepaldi infatti racconta come il processo di lavorazione che ha scelto, consista nel soffiare la massa vitrea all’interno di una gabbia metallica che successivamente si cristallizza e diventa opera d’arte. Questo processo non potrà mai produrre due volte lo stesso risultato, per tanto il pezzo sarà sempre unico e inimitabile. “Trovo questo concetto estremamente affascinante e cerco di rispettarlo in ogni fase del mio lavoro. Le gabbie metalliche sono composte da tutti questi tondini curvati a mano in tutte le direzioni…è praticamente impossibile farlo a macchina e altrettanto impossibile per me ripetere lo stesso oggetto nel medesimo modo.” – racconta – “Movimento e unicità si sposano nell’utilizzo di due materiali antichi e tradizionali come il vetro e il metallo che possono ancora oggi essere utilizzati in modo estremamente poetico e contemporaneo. L’intento è quello di continuare a sperimentare e integrare le antiche tecniche della lavorazione del vetro di Murano in sempre nuove varianti e nuove forme che possano esaltarne la bellezza e preservarla nel tempo.”

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Alice Crepaldi, Miss Joshua
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Ascolta: Spigola Ep. 14 – Annalisa Rosso

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I funghi sono ovunque 

I funghi sono ovunque 

Giorgia Massari · 3 settimane fa · Art, Design

Negli ultimi anni stiamo assistendo a un ritrovato interesse per i funghi. La loro forma è ripresa da artisti, designer e stilisti, e le loro radici – chiamate micelio – vengono usate per sintetizzare nuovi materiali eco-sostenibili. Ma perché sta accadendo tutto ciò, e chi sono i protagonisti di questa nuova tendenza? Nelle prossime righe affronteremo vari discorsi, che vedono il fungo come protagonista di una rivoluzione, sia da un punto di vista iconografico sia da quello risolutivo, nell’ottica di diventare una potenziale e valida risposta ai nostri problemi. 

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© Yayoi Kusama

I funghi in effetti sono ovunque, non solo visivamente, nelle arti e nella cultura visiva ma, soprattutto, sui nostri corpi e nel nostro habitat. Sono elementi invisibili da cui dipendiamo per la sopravvivenza. Basti pensare che dai funghi si ricavano i farmaci o che l’intero sottosuolo è costituito da una rete fungina, detta Wood Web Wide, che collega gli alberi tra loro e permette la sopravvivenza del 90% delle piante. 

Nell’immaginario comune i funghi sono qualcosa di misterioso, di cui non sappiamo abbastanza e che spesso associamo alla classica figura fiabesca, con il cappello rosso a pois bianchi. Alice in Wonderland di Lewis Carroll è un chiaro esempio della dimensione magica associata ai funghi, che pervade le nostre menti fin dalla tenera età, così come l’arte psichedelica degli anni ’60, scaturita dai viaggi allucinogeni causati, guarda caso, dal fungo parassita della segale, conosciuto con la sigla LSD. Un ulteriore e immediato link visivo è scaturito dalle opere della famosa artista giapponese Yayoi Kusama, che da poco sfocia anche nel mondo della moda, collaborando con il brand di lusso Louis Vuitton. 

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Ma, si sa, le cose più belle sono anche quelle che nascondono qualche sorpresa. Questi funghi rossi e bianchi – l’amanita muscaria – per quanto bellissimi, sappiamo bene essere i più velenosi e letali. Ecco che allora il “mistero funghi” si infittisce. La loro natura bivalente oscilla da un lato benevolo a uno malefico, costituendo una dicotomia spaventosa e, inoltre, il loro aspetto spesso inospitale e poco attraente, ha causato negli anni una sorta di indifferenza e una poca volontà nell’approfondire la loro conoscenza. 

Dal fungo immortale a The Last of Us

In realtà, se guardiamo la storia dell’arte, o in più in generale la storia dell’uomo, notiamo come questo elemento dall’aspetto “alieno” ci abbia da sempre affascinato. È infatti un’iconografia che ricorre spesso nell’arte greca e romana: è presente nei mosaici, nelle sculture, ma anche nelle rappresentazioni bibliche, così come in quelle rinascimentali.

Oggi però, l’attenzione che si sta riservando al fungo è più approfondita, non solo come simbolo ma come elemento in grado di ripensare il mondo. In quest’ottica, la saggistica contemporanea ha contribuito alla presa di coscienza nei confronti di questo elemento, in grado di portare grandi cambiamenti sulla Terra e nel nostro modo di vivere. Il famoso saggio “Il fungo alla fine del mondo” dell’antropologa americana di origini asiatiche Anna Tsing sul fungo matsutake, mette in luce la componente eterna e indistruttibile dei funghi. Essi sono infatti presenti dall’inizio dei tempi e probabilmente lo saranno anche alla fine, crescendo “sulle rovine del capitalismo”, come si legge dal sottotitolo del libro. I funghi matsutake sono in grado di sopravvivere in qualsiasi habitat, persino su terreni radioattivi. Furono infatti i primi organismi a nascere e crescere sul suolo colpito dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki che, fatalità, appaiono come nuvole dalla forma fungina.

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Bomba atomica su Hiroshima

Ancora di più, in chiave astratta, Merlin Sheldrake ne “L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi” parla di come i funghi modifichino il flusso delle nostre vite. “Mangiano le rocce, generano il terreno, digeriscono le sostanze inquinanti, possono fornire nutrimento alle piante così come ucciderle, sopravvivono nello spazio, inducono allucinazioni, producono cibo e medicine, manipolano il comportamento animale e influenzano la composizione dell’atmosfera terrestre. I funghi sono una chiave per comprendere il pianeta in cui viviamo, ma anche il nostro modo di pensare, sentire e comportarci”.
Se i funghi sono in grado di garantirci la vita, sono anche in grado di togliercela. Proprio su questo “giocano” registi e direttori artistici che scelgono il fungo come protagonista e agente scatenante di situazioni apocalittiche e catastrofiche, come nel caso del videogame e della, successivamente, famosissima serie tv, The Last of Us.

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© The Last of Us

Dai funghi a testa in giù di Höller alle metamorfosi di Anicka Yi

Accade spesso che l’arte rifletta ciò che la cultura di massa propone, cogliendone gli interessi e le perversioni o che, viceversa, la società assorba ciò che l’arte indaga. Lo stesso accade per i funghi, analizzati e proposti dagli artisti in diverse chiavi di lettura. Parlando di contemporaneità, primo su tutti è Carsten Höller (1961) che sceglie proprio il fungo, in particolare il già citato velenoso amanita muscaria, come elemento protagonista delle sue opere (oltre ai suoi famosi scivoli). Iconici sono i suoi Upside Down Mushroom Roominstallati nella sede milanese di Fondazione Prada, o il più recente lavoro Giant Triple Mushroomesposto dalla galleria Gagosian di Parigi. Höller è affascinato da questa tipologia di fungo in quanto notoriamente tossico e allucinogeno, oltre per il suo cruciale ruolo nello sviluppo dello sciamanesimo. Inoltre, come già abbiamo spiegato, questa tipologia fungina è presente nel nostro bagaglio immaginario fin da piccoli e, per tanto, è in grado di attivare nello spettatore dei meccanismi sincronici.

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© Carsten Höller, Fondazione Prada (Milano) – Photo credits Fondazione Prada

Nell’arte visiva il fungo dilaga, da Yayoi Kusama fino ad arrivare anche alla crypto art, come nel caso del collettivo AES+F che nel loro NFT “Psychosis Mushroom Field” raffigurano una serie di tipici funghi da risotto (il cantharellus cibarius) invasi da quelle che appaiono come vagine.
La forma del fungo approda anche nel design, già da tempo influenzato dalla sua particolare struttura, soprattutto nella realizzazione di lampade, come quella prodotta da Artemide “Nessino” disegnata da Giancarlo Mattioli, o come le più recenti sedute di Jonathan Anderson presentate nel giardino di Palazzo Isimbardi a Milano durante la Design Week 2023. Anche alcuni emergenti scelgono questa forma misteriosa come soggetto, un esempio è la giovane Jihyun Kim con le sue ceramiche, che riprendono la forma e le texture del nostro argomento di oggi.

Il fungo, però, non è solo bizzarro e intricato nella sua forma esteriore, ma lo è anche nella sua struttura, diventa infatti qualcosa da disvelare in un’ottica scientifica. In questo senso, l’artista Anicka Yi, con la sua recente esposizione “Metaspore” all’Hangar Bicocca di Milano, si inserisce con delle opere che vedono le spore, i funghi e i batteri protagonisti di una metamorfosi. Questi diversi organismi vengono infatti inseriti tra due lastre di vetro, permettendo la loro vita e dunque la loro evoluzione. In questo modo le opere rivelano la coesistenza e l’evoluzione, affrontando temi quali l’identità e la giustizia sociale.

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© Anicka Yi, Metaspore (Hangar Bicocca, Milano)Photo credits Hangar Bicocca

Edifici che crescono da soli: è possibile con i funghi?

Rimanendo in ambito scientifico, come anticipato, il fungo diventa protagonista di una possibile rivoluzione ecologica ed eco-sostenibile. Da anni siamo alla ricerca di nuovi biomateriali, il più diffuso e famoso è senza dubbio quello ricavato dalla canapa, ma anche il fungo presenta enormi potenzialità.
Dal micelio – per spiegarlo in breve, le “radici” dei funghi – possono essere ricavati tessuti e pellami, mattoni, vetrate, plastiche o addirittura carburanti. Negli ultimi anni numerose aziende hanno iniziato ad utilizzare questo nuovo materiale e a sfruttarlo in diversi modi. A partire dall’architettura che è stata in grado di concepire delle strutture letteralmente vive. Si tratta infatti di edifici che crescono da soli attraverso lo sviluppo di un substrato strutturale che sfrutta il micelio vivo. Il più grande edificio realizzato in questo modo si chiama Hy-Fi ed è una torre dalla forma organica costruito nel 2014 dallo studio di design The Living, esposta al MoMA di New York. I mattoni fungini crescono e si arrampicano su una struttura di supporto, senza consumare alcun tipo di energia ma anzi, in maniera del tutto naturale, senza nemmeno servirsi di manodopera umana.

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Torre Hy-Fi, The Living studio, New YorkPhoto credits MoMA New York

Questo materiale, grazie alla sua robustezza, può quindi sostituirsi ai mattoni e diventare negli anni a venire un metodo per combattere le problematiche ambientali. Lo sa bene il designer e imprenditore Maurizio Montalti che ha fondato Mogu, un’azienda di bio-fabbricazione industriale che studia un modo per uscire dall’Antropocene (così è chiamata la nostra era geologica). Secondo Montalti il materiale mogu ha qualità tecniche ed emotivo-esperienziali, tali per cui potrebbe sostituire i materiali di origine sintetica a cui siamo abituati ma, in questo senso, è necessario che lo scarto cognitivo venga superato. In parole più semplici, come accade per il legno, che negli anni si trasforma e cambia aspetto, nei materiali organici questo processo è più rapido e visibile, quindi gli oggetti prodotti con questo materiale non possono promettere quell’eternità a cui aspiriamo e alla quale siamo abituati. Per tanto, questo cambiamento necessità un’evoluzione del pensiero che, indubbiamente, fa paura.

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 © Stella McCartney

Il micelio approda anche nella moda: da Balenciaga a Hermès! 

Come conclusione di questo lungo e articolato discorso, che richiederebbe ulteriori approfondimenti, approdiamo sulle passerelle dell’alta moda. Per quanto il fungo – non quello rosso e bello di cui abbiamo tanto parlato – non abbia un aspetto così appetibile, è riuscito ad arrivare anche nelle idee e nelle ambizioni dei più grandi stilisti. Il 2021 infatti fu definito l’anno dei funghi per la moda e, a distanza di due anni, abbiamo assistito a evoluzioni interessanti.
Uno dei primi brand ad accogliere questo nuovo materiale fu Stella McCartney che presentò la discussa borsa Frayme Mylo, realizzata in pelle di micelio. Mylo è anche il nome universale con cui chiamare questo nuovo tessuto, prodotto dall’azienda Bolt Threads, scelto anche da Adidas, Bering, Lulelemon e successivamente anche da Kering, il gruppo con i marchi superlusso come Balenciaga, Bottega Veneta e Saint Laurent. Anche Hermès recentemente ha prodotto una nuova versione della sua borsa Vittoria, fatta però di Sylvania, un’altra tipologia di pelle a base di funghi prodotta dalla startup MycoWorks.

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© Hermès, borsa Vittoria

Il fungo ormai è inarrestabile, avanza in tutti i campi e chiede di essere accettato perché, per quanto diffuso, rimane ancora una scelta alternativa e non preferenziale. Non ci resta che aspettare e, come possiamo, incoraggiare questa nuova onda eco-sostenibile e misteriosa.

I funghi sono ovunque 
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Le one-year performance di Tehching Hsieh

Le one-year performance di Tehching Hsieh

Giorgia Massari · 3 settimane fa · Art

Stareste mai legati da una corda ad una persona per un intero anno? O rinchiusi in una gabbia senza alcun tipo di intrattenimento? L’artista cinese Tehching Hsieh l’ha fatto. Hsieh ha incentrato la sua arte sulla performance, con l’intento di esplorare il tempo, documentando il tutto con video e fotografie. A partire dalla fine degli anni ’70, periodo in cui le performance artistiche contrastavano l’oggetto artistico, che andava via via mercificandosi, Tehching Hsieh ha messo in scena cinque performance dalla durata di un anno che sfidano la sopportazione umana.

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Le one-year performance di Hsieh sono tutte basate sul concetto di privazione in un’ottica di esplorare il tempo. Oggi più che mai ci viene insegnato che il tempo è sacro, qualcosa da non sprecare ma anzi, da rincorrere. Viviamo con una costante pressione sociale che denigra l’ozio e ci impone il costante lavoro o l’impiego saggio del tempo. L’artista cinese forse estremizza in qualche modo l’esatto opposto, ma senza dubbio porta ad una riflessione che, a distanza di anni, rimane incredibilmente attuale. 

Con il solo medium del tempo, convertito nella durata di un anno, Hsieh impone a sé stesso, in un atto che sfocia in una forma di egocentrismo, delle pratiche che definiremmo masochiste, riuscendo in delle “imprese” che, forse, nessuno di noi riuscirebbe a sopportare nemmeno per un mese. 

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La prima: One-year Cage (1978-79)

Tehching Hsieh costruisce una piccola gabbia all’interno del suo appartamento di New York, dotandola di una sola brandina e di un bagno, senza alcun tipo di intrattenimento. Rimarrà chiuso qui dentro per un anno senza parlare con nessuno. Per poter mangiare, chiese a un amico di portargli del cibo una volta al giorno, incaricato anche di scattargli una foto, per documentare il tutto. Le uniche visite che poteva ricevere erano una o due volte al mese, da parte di pochi sconosciuti curiosi di vedere la performance. Hsieh visse un anno che molti di noi considererebbero “buttato”, sprecato, con il solo intento di guardare il tempo passare.

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La seconda: Time Clock piece (1980-81)

In questa seconda performance, Hsieh esplora ulteriormente il tema tempo imponendosi di timbrare un cartellino ad ogni scoccare dell’ora, per un intero anno. In questo modo diventa schiavo dello scorrere del tempo o meglio, del tempo scandito da noi esseri umani. Per un anno l’artista non dormì per più di 59 minuti consecutivi. Ma non riuscì del tutto nell’impresa, per 133 volte non timbrò.

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La terza: Outdoor piece (1981-82)

Senza concedersi respiro, terminata la performance Time Clock Piece, Tehching Hsieh intraprese forse una delle più difficili performance della sua carriera: non entrare, sempre per un anno, all’interno di alcun posto al chiuso. L’artista visse per un anno all’aperto, tra l’altro in uno degli inverni più freddi per la città di New York. Anche quest’opera non riuscì ad essere compiuta, per 15 ore l’artista fu rinchiuso in cella a seguito di un arresto per rissa. 

La quarta: Rope Piece (1983-84) 

Tutte le performance di Hsieh sono solitarie, ad eccezione di questa. L’artista coinvolge infatti Linda Montano (1942), un’altra performance artist che non aveva mai conosciuto di persona. I due artisti si legarono l’uno all’altro con una corda lunga due metri e mezzo, e vissero insieme per un anno, condividendo tutti i momenti, da quelli più intimi a quelli più dolorosi, senza potersi mai toccare. L’opera esplora la comunicazione e la connessione umana, trasmettendo in un certo senso il bisogno umano di compagnia e l’impossibilità dell’uomo di vivere da solo. 

Volevo fare un’opera sugli esseri umani e sulla loro lotta reciproca. Non possiamo affrontare la vita da soli, senza persone. Ma siamo insieme e quindi diventiamo l’uno la gabbia dell’altro. Questo pezzo parla dell’essere come un animale, nudo. Non possiamo nascondere i nostri lati negativi. Non possiamo essere timidi. È più che una semplice onestà: mostriamo la nostra debolezza”, dichiarò Hsieh.

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La quinta: No Art Piece (1985-86)

La quinta e penultima performance, sfida la concezione stessa dell’arte. L’artista infatti si impone di non parlare, fruire o fare arte per un anno. Per evitare contraddizioni, la performance non fu documentata. Tehching Hsieh fece arte senza poterla fare.

In realtà esiste una sesta e ultima performance, che durò 14 anni, dal 1986 al 2000. Per tutti questi anni Hsieh non disse a nessuno in cosa consistesse l’opera e poi, il 31 dicembre 1999, allo scoccare della mezzanotte pronunciò una semplice frase che recitava: “Io, Tehching Hsies, sono sopravvissuto.”
Hsieh riassume il suo studio sul tempo e, di conseguenza, le sue performance con tre frasi drammatiche ma pur sempre vere: “Life is life sentence. Life is passing time. Life is free thinking“.

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Le one-year performance di Tehching Hsieh
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L’inquietante malinconia nelle opere di Jon Rafman

L’inquietante malinconia nelle opere di Jon Rafman

Tommaso Berra · 2 settimane fa · Art

Raramente la realtà ha avuto tanto bisogno di essere immaginata
Con questa frase l’artista Jon Rafman descrive il proprio rapporto con il presente e con gli strumenti attraverso i quali interagiamo tra di noi. Il digital artist canadese, attraverso il software CLIP Guided Diffusion, si serve dell’intelligenza artificiale per realizzare immagini grottesche e inquietanti generate da un archivio di immagini e creature antropomorfe e disgustose.
Rafmann mostra così i lati più oscuri di internet, un mondo che l’artista considera disturbante ma dal quale trae costante ispirazione per le due opere e i suoi video.

La tecnologia come strumento per rappresentare un’umanità quasi in decomposizione serve proprio per esprimere l’idea che le moderne interazioni sociali provocano in Jon Rafman una sorta di malinconia sgradevole. Secondo l’artista la tecnologia impatta negativamente sul modo di vivere e vedere la realtà, fino a domandarsi cosa sia realmente la realtà, specialmente quando creata da un’intelligenza artificiale, da una generazione di immagini che conosce solo le forme della realtà ma non il suo spirito.
Le caricature delle sue opere sono quindi un modo per enfatizzare questo rapporto disumano con la tecnologia, che persino l’arte finisce per subire, perdendo così la bellezza dei soggetti e la composizione delle scene, che lasciano posto a categorie estetiche più legate al kitsch e al brutto. Scopri il lavoro dell’artista sul suo sito ufficiale.

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Ian Padgham e la magia della 3D art

Ian Padgham e la magia della 3D art

Anna Frattini · 2 settimane fa · Art

È Ian Padgham l’artista che ha realizzato la serie di video in 3D per presentare il pop-up store di Jacquemus in occasione del lancio della seconda parte della capsule collection Été, dedicata alla stagione estiva. Padgham, nato in California, nel 2013 fonda Origiful – un’azienda che si impegna per produrre contenuti social per molti brand internazionali. Dal 2013 i video prodotti dalla sua casa di produzione sono oltre 2000. Ora, la sua campagna per Jacquemus è diventata virale e in molti sono incuriositi dal lavoro di Padgahm, ora di casa a Bordeaux.

 
 
 
 
 
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Il suo primo video virale arriva nel 2017 quando raggiunge ben 400.000 visualizzazioni sul suo canale Youtube per le riprese di un disegno in speed drawing. La particolarità di Origiful, infatti, sta proprio nel processo creativo dietro a questi video di massimo 20 secondi. Per oltre 10 anni Padgham era l’unico a cimentarsi nella realizzazione di questi contenuti. Alcuni dei suoi clienti più interessanti, nel corso degli anni, sono il SFMOMA e Twitter senza dimenticare il Musée d’Orsay e molte altre istituzioni francesi.

 
 
 
 
 
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Sono tre le fasi fondamentali per creare il video 3D perfetto secondo l’artista, il primo riguarda le riprese. Queste, infatti, devono essere realizzate di modo che sia possibile aggiungere l’elemento tridimensionale. Una volta completato anche questo passo è necessario passare ore a ritoccare ogni dettaglio per rendere il risultato finale il più ingannevole possibile. La chiave dei video prodotti da Origiful è proprio questa: in molti – confusi dalla verosimiglianza di queste riprese – sono convinti sia tutto reale. Padgham, oltretutto, è sicuramente un artista sui generis, sembra vivere nella sua bolla, lontano dalle dinamiche del mondo della moda e dell’arte per come lo conosciamo.
Scopri altri video sul profilo Instagram di Origiful.

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