L’amore di Yves Saint Laurent per il Marocco

L’amore di Yves Saint Laurent per il Marocco

Andrea Tuzio · 2 anni fa · Style

Esiste una storia d’amore che coinvolge uno dei più grandi stilisti di tutti i tempi e un paese, una città in particolare, che con i suoi scorci dorati, la flora selvaggia, l’architettura unica, il calore e la cordialità delle persone ha ritagliato un posto speciale nel cuore di Yves Saint Laurent.
Stiamo parlando del Marocco e di Marrakech in particolare, la “città rossa”.

Questo meraviglioso e inscindibile rapporto nasce nel 1966, 5 anni dopo la nascita della sua maison quando, insieme al suo compagno di vita e di lavoro Pierre Bergé, scelse proprio la città marocchina come meta per un viaggio di piacere. La coppia scoprì lì quello che sarebbe diventato un luogo di evasione e una meta preferita: i giardini Majorelle, “un’oasi in cui i colori di Matisse si mescolano a quelli della natura”.

Ma facciamo un passo indietro. 
Il nome dei giardini Majorelle deriva dal pittore Jacques Majorelle, figlio dell’ebanista e designer francese Louis Majorelle, che nel 1919 scelse come casa la città di Marrakech, più precisamente la Medina (la città vecchia).
A cavallo tra il 1922 e il 1923 comprò un palmento nella zona nord-ovest della Medina e, nel 1931, diede incarico all’architetto Paul Sinoir di costruirci all’interno una villa in stile moresco.
L’edificio era strutturato in questo modo: al piano terra c’era il suo grande studio mentre gli spazi privati si trovavano al primo piano. 
La villa fu impreziosita ulteriormente dalle pareti color blu Majorelle, una sorta di blu cobalto inventato dal pittore stesso, e la casa venne aperta al pubblico nel 1947. 

Majorelle era un amante della botanica e, ispirato dai cortili tradizionali marocchini, ne creò la sua versione personale. Quello che venne fuori fu un incredibile e lussureggiante giardino tropicale, una sorta di cattedrale fatta di forme e colori di stampo impressionista, costruita intorno alla casa su un lungo bacino centrale con svariati ambienti diversi. 
Un’opera d’arte vivente e in movimento, con piante esotiche e rare, abbellita e adornata da fontane, laghetti, vasi in ceramica, sentieri, e tantissimo altro. 

Torniamo al 1966 e al viaggio a Marrakech di Yves Saint Laurent e Pierre Bergé. In questa occasione i due scoprirono i giardini Majorelle e ne rimasero estasiati.

All’epoca, a causa degli alti costi di gestione, Majorelle fu costretto a vendere i giardini, questi versavano in uno stato di semi-abbandono, erano praticamente incustoditi e il pericolo più grande era la demolizione. Questo Saint Laurent non poteva permetterlo.

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Acquistò l’intero complesso nel 1980, ribattezzò la meravigliosa casa dell’artista francese in Villa Oasis, restaurandola con attenzione maniacale e scegliendo di andarci a vivere. 

I giardini sono stati di proprietà di Yves Saint Laurent e Pierre Bergé fino al 2008. Dopo la morte dello stilista francese le sue ceneri sono state sparse all’interno del roseto. 

Dal 2010 la proprietà è della Fondazione Pierre Bergé – Yves Saint Laurent e dal 2011 la gestione è affidata alla Fondation Jardin Majorelle, un’organizzazione senza scopo di lucro di Marrakech. Lo sviluppo dei giardini è tuttora in corso, sono una delle principali attrazioni turistiche della città e ogni anno attirano più di 700.000 visitatori.

Pierre Bergé è stato il direttore della fondazione dedicata ai giardini fino alla sua morte, avvenuta nel settembre 2017.

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La villa è sede del Musée Pierre Bergé des Arts Berbères mentre l’ex atelier di Majorelle è diventato il Museo d’Arte Islamica di Marrakech. Oggi questo ospita una collezione di tessuti nordafricani della collezione personale di Yves Saint Laurent, oltre a ceramiche e gioielli.

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Nell’ottobre del 2017, Bergé ha inaugurato il Musée Yves Saint Laurent de Marrakech situato vicino ai giardini Majorelle, nella strada che porta il nome del designer francese. 

Il museo è costruito in terracotta, cemento e terra battuta ed è stato realizzato dallo studio francese di architettura Studio KO. Questo ha cercato di incorporare nella struttura le linee del logo YSL abbracciando l’estetica tradizionale che lo circonda. 

Il museo vanta spazi espositivi permanenti e temporanei, alcuni ambienti sono a temperatura controllata per proteggere l’ampia collezione d’archivio di Yves Saint Laurent e i suoi migliaia di bozzetti originali. Ci sono inoltre un auditorium e una biblioteca di ricerca che ospita una serie di libri dalla letteratura e cultura araba e berbera fino alle realizzazioni dello stilista. 

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Quella di Yves Saint Laurent e di Pierre Bergé è una storia d’amore iniziata nel 1966 con un colpo di fulmine che continua ancora oggi nella memoria di tutti. È la storia di due personaggi iconici del mondo della moda e della cultura di tutti i tempi.

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Brice Gelot, per l’amor di Dio

Brice Gelot, per l’amor di Dio

Tommaso Berra · 8 ore fa · Photography

Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società.
“For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista francese Brice Gelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.

Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano.
Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.

Brice Gelot | Collater.al
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
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I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

Giorgia Massari · 2 giorni fa · Photography

La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografa Tetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista.
Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.

Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.

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La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

Laura Tota · 2 giorni fa · Photography

Abitare un corpo, vuol dire percepirlo, riconoscersi ed essere riconosciuti. Significa sentirsi familiari verso se stessi e gli altri, rapportarsi al Mondo attraverso terminazioni nervose, adipe e sensi.
Il corpo è il centro nevralgico della nostra identità e volontà, e il nudo in particolare è stato a lungo uno dei soggetti preferiti dai fotografi sin dalla nascita del mezzo fotografico. Tuttavia, parlando di nudo maschile, la sua diffusione risulta inferiore, salvo alcuni casi particolari, poiché ritenuto meno interessante (se non addirittura disturbante) dal dominante “Male Gaze” (ovvero la raffigurazione dell’universo femminile, nelle arti visive e nella letteratura, da un punto di vista non solo maschile, ma eterosessuale, che rappresenta le donne come meri oggetti sessuali finalizzati alla mera soddisfazione del pubblico maschile). Solo dalla fine degli anni ’70, grazie alla nascita del movimento di liberazione omosessuale e del mercato pubblicitario, abbiamo assistito a una sua nuova nuova vita, capace di trasformare il corpo maschile in oggetto erotico e di contemplazione edonistica. 

 
 
 
 
 
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Ne sono un esempio gli iconici scatti di Robert Mapplethorpe, attratto dal nudo maschile sin dall’infanzia, che rievocano le nudità classiche e restituiscono dignità e bellezza a una categoria di persone considerate allora degradanti, o i più recenti ritratti del fotografo Florian Hetz che, attraverso serrati close up, immortalano la vera essenza e l’innata sensualità del corpo maschile.

Ed è proprio sul confine tra arte ed erotismo che si gioca la narrazione di “Bodies”, l’ultimo progetto di Francesco Paolo Gassi, giovane autore pugliese che nella sua pratica si confronta con la fisicità del corpo. Francesco è letteralmente ossessionato dalle imperfezioni e dalla naturalezza della sbavatura, lontana dai cliché estetici patinati: peli, pelle e fluidi corporei sono il suo terreno di gioco, dettagli e particolari i suoi punti di vista preferiti. Si muove con attenzione attorno al corpo maschile, ovvero ciò che è per lui più familiare, ma che allo stesso tempo è stato a lungo motivo di vergogna da parte di una comunità cui ha dovuto per anni nascondere la propria sessualità.

Arte, pornografia e tassonomia dialogano nello spazio fotografico. Le pose, studiate meticolosamente, proprio come l’illuminazione e la relazione del corpo con lo spazio, suggeriscono e alludono a un’erotizzazione del corpo che non è mai esplicita, orientano l’anatomia umana per enfatizzare l’insignificante e il banale, elevandolo a oggetto del desiderio. Il suo è un approccio quasi scientifico che, attraverso l’immagine fotografica, mira a rendere eterna la materia organica di cui l’uomo è costituito e a raggiungere l’essenza di ogni soggetto ritratto.
Così, i corpi maschili diventano il terreno da gioco ideale su cui rinegoziare l’identità, scevra da sovrastrutture sociali e libera da condizionamenti, presentata all’occhio dell’osservatore nella sua totale, disturbante e ambivalente autenticità. Il progetto abbina fotografie digitali a istantanee: nell’unicità di una polaroid si perpetua infatti l’irripetibilità del corpo, così come nella qualità dell’immagine digitale si riflette ogni singolo dettaglio della specificità epidermica di ogni corpo fotografato.

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi
Photography
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 3 giorni fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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