Abbiamo intervistato Zamoc, Pagliardini e Barcellona in occasione della live performance #PaginaBlanca di Espòlon

Abbiamo intervistato Zamoc, Pagliardini e Barcellona in occasione della live performance #PaginaBlanca di Espòlon

Giulia Pacciardi · 6 anni fa · Art

In occasione del lancio del profilo Instagram di Espòlon, tequila tra i più bevuti al mondo, Luca Zamoc, Davide Pagliardini e Luca Barcellona si sono esibiti in una live performance durante la quale hanno reinterpretato l’iconica etichetta della bottiglia su un moderno canvas ispirato al social media.

Noi li abbiamo intervistati per voi e ci siamo fatti raccontare del progetto, del loro rapporto con i social e, più in generale, delle loro carriere.

Luca Zamoc

Crei illustrazioni digitali, murali, inchiostro su carta e animazioni 2D, quali sono le tue principali fonti d’ispirazione?

Come tutti gli autodidatti sono partito con il fumetto ed essendo di Modena la cosa che mi ha influenzato di più è stata sicuramente la scena degli anni ’80.
Evolvendomi poi mi sono concentrato sull’arte sacra perché l’iconografia mi ha sempre affascinato, la cosa interessante dell’arte sacra è che ci sono diversi media nelle loro tecniche più alte, collimate tutti insieme.
Pittura, scultura, architettura, tutto è portato al massimo livello.

Per quanto riguarda invece la cosa che preferisco fare, è sicuramente il muralismo.
Il muralismo non è solo dipingere su un muro, è cantiere, devi sapere utilizzare determinati strumenti, guidare dei mezzi, dover scalare, fare attenzione ad un milione di cose, devi saper riportare un disegno da un A4 a 500mq2.
Ci sono tantissime tecniche in ballo che nessuno ti insegna, non c’è una scuola dove puoi impararlo, lo devi fare solo e con i tempi giusti, questa è la cosa bella.

Ultimamente hai preso parte ad un progetto nato dalla collaborazione con Luca Lattuga e Massimo Bottura. Come è nata questa collaborazione e come è stato lavorare ad un’opera fortemente legata a Modena, la tua città d’origine?

Il lavoro con Massimo è arrivato attraverso il suo capo ufficio Enrico Vignoli con cui ho collaborato già l’anno scorso.
La collaborazione è andata talmente bene che appena c’è stata la possibilità di aprire il Refettorio di Modena, sono stato contattato dall’Osteria Francescana di Massimo Bottura per occuparmi dei suoi muri.
La sfida è stata quella di partire dai dipinti di una ex Cappella di Modena, quindi un luogo da omaggiare e di cui avere rispetto, senza però fare nulla di religioso perché non sarebbe stato il mio stile.
Quindi ho deciso di lavorare su una leggenda popolare, una storia che a Modena tutti conoscono ma che non è mai stata raccontata ovvero la leggenda della nebbia di San Geminiano.
Ed è una leggenda a cui i modenesi sono ancora molto attaccati, tant’è che la risposta che abbiamo ottenuto è stata molto positiva e le persone stanno frequentando quel luogo molto di più.

Con Esplòn la tua performance artistica del 6 Luglio è stata ripresa in live streaming sul suo canale Instagram, vuoi raccontarci questa iniziativa?

Siamo stati invitati qui per celebrare l’arte messicana del 900, satirica e macabra, con ironia e con i nostri stili che sono tutti diversi.
L’idea di collimare questo progetto con i social è la modernizzazione di quello che è il nostro lavoro, abbiamo una base artistico-storica e un approccio che invece che è molto più moderno, così come il canvas, la struttura e un tipo di evento intorno attuato per poter comunicare a più persone possibili.
E’ un’iniziativa che trovo molto interessante, come trovo che le persone che sono state scelte per occuparsene siano perfette.
Abbiamo Luca Barcellona che è il più grande calligrafo italiano, e la parte testuale in un lavoro è fondamentale, lo completa e aggiunge un livello, con Davide Pagliardini invece stiamo facendo un lavoro a 4 mani in cui stiamo unendo i nostri stili.

Davide Pagliardini

Sei un graphic designer, un illustratore e ti occupi anche di animazione, qual è la cosa che preferisci fare e quanto ti diverti a incastrarle tutte?

Diciamo che non c’è una cosa che preferisco fare, tant’è che non ho rinunciato a nessuna, anzi la cosa che mi piace di più è quando riesco ad unirle.
Quando riesco a mettere nel motion design, che diciamo è un po’ il raccoglitore di tutte le arti grafiche applicate e visuali, anche il lettering e via dicendo.
Una cosa un po’ complicata è far convivere insieme le mie diverse personalità artistiche, non ci riesco sempre ma quando ci riesco mi diverto molto e i progetti mi danno molta soddisfazione.

Uno dei tuoi progetti più famosi è Broken Boards, tavole da skate rotte che decori attraverso l’handmade lettering, come è nata l’idea?

L’idea è nata non grazie a me ma grazie a mia moglie che si era stufata di avere le tavole rotte in casa e mi ha chiesto di portarle in studio.
A quel punto le avevo lì nei momenti di rabbia per un cliente o semplicemente di attesa tra un lavoro e l’altro ho iniziato ad abbozzarci sopra.
Era il momento in cui stavo ricominciando ad appassionarmi al lettering e invece che andare sui muri ho iniziato con le tavole, da lì ne sono uscite un paio che mi piacevano, le ho postate, ho aperto una pagina Facebook e sono iniziate delle commissioni che mi hanno portato mostre e da lì è stata tutta una discesa.

Il progetto con Espolòn è strettamente legato ai social network, in particolare Instagram, come vivi il rapporto tra Arte e social media?

Come ogni rapporto ha i suoi alti e i suoi bassi, ma dipende anche da come lo intendiamo.
La promozione dell’arte attraverso i social media, come quello che abbiamo fatto con Espolòn è una cosa che mi piace, non sono invece totalmente d’accordo con chi usa il mezzo per “diventare” artista, creando delle opere che al di fuori del mezzo non esisterebbero.
Se mi considerassi “artista”, non mi piacerebbe come fenomeno, ma dovrei comunque adeguarmi perché ormai le logiche dietro al mercato dell’arte sono cambiate.
Io, non considerandomi tale, sono contento se la mia arte mi porta un guadagno ma molti degli artisti che stimo non fanno l’arte per considerarla in questo modo.
E’ un discorso che va preso con le pinze.

Zamoc prima ci ha detto che, secondo lui, siete gli artisti più giusti per lavorare a questo progetto. Sei d’accordo?

Sicuramente chi ha curato l’art direction del progetto è stato lungimirante.
Luca Barcellona è un master nel lettering e può incarnare bene lo spirito che vogliono comunicare, Zamoc ovviamente stessa storia, io sono una via di mezzo fra tutti e due.
Personalmente sono stato molto contento di poter lavorare in mezzo a loro due.

Luca Barcellona

La tua carriera è iniziata con un progetto musicale strettamente legato al rap, è continuata con i graffiti fino ad arrivare alla calligrafia, come si è evoluto il tuo processo artistico?

La musica per me non è mai stata una carriera ma un hobby, mentre per quanto riguarda la scelta artistica è avvenuta in maniera naturale.
Mi piaceva disegnare e ho cominciato a farlo tramite tutti i mezzi possibili, poi con l’avvento dei social network tutti hanno cominciato a fare calligrafia e questa cosa mi ha dato la possibilità di far vedere i miei lavori e in qualche modo anche tramandarli.

Che rapporto hai con i social media?

I social sono uno strumento, se li si usa per diffondere quello che si fa, per condividere dei contenuti, sono molto positivi. Per me, quanto meno, lo sono stati.
Non trovo altre spiegazioni al fatto che vengo chiamato ad insegnare dall’altra parte del mondo, internet rende il lavoro fruibile ad un ampio pubblico nell’esatto momento in cui lo fai.
Il lato più oscuro, invece, è quello di utilizzarli per creare dei contenuti e non perchè ci siano davvero. Questa cosa non mi piace per niente, però è una parte dello strumento e bisogna conoscerla anche se, al momento, non è così semplice farlo.
Io i social li uso per lavoro, non condivido la mia vita personale. Le persone preferiscono vivere la vita virtuale perchè non ha limiti, è continua, ma non ci sono istruzioni e le conseguenze le conosciamo tutti.
Io ho avuto periodi in cui avrei voluto chiudere tutti i miei profili, poi ho cambiato idea e ho imparato ad utilizzarli nel modo giusto per il mio business.

Come riesci a far convivere insieme tre lati della tua personalità artistica così diversi fra loro?

All’inizio è stato difficile, anzi volevo tenerle separate.
Nell’ambito della calligrafia mi veniva sempre chiesto se davvero fossi anche un rapper e viceversa.
Oggi invece ne vado fiero, sono tutte arti che hanno a che fare con le parole e le parole sono comunicazione.

Durante la tua carriera di calligrafo hai collaborato con molti marchi, come cambia il tuo approccio quando oltre ad esprimere te stesso devi esprimere anche l’idea del brand?

Dipende dai casi.
In questo con “Espolòn” ho realizzato un’opera che è legata al brand, non una pubblicità del brand, quindi ho giocato sulla parola Espolòn e su quello che per me potesse esprimere.
Quando lavoro come grafico per una pubblicità è diverso, lì risolvo dei problemi, rappresento il brand. È sempre frutto di un compromesso però dipende da come agisci, se da grafico o da artista.
In questo caso sto facendo quello che piace a me, ho scelto uno stile che non è leggibile ma che per estetica è legato al mondo delle illustrazioni messicane di inizio 900.
Per il marchio è meglio far esprimere l’artista, soprattutto se vuole che comunichi attraverso i suoi social come se fosse un suo lavoro. 

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Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Tommaso Berra · 5 giorni fa · Photography

Basta ascoltare le conversazioni che nascono dentro la propria testa a Cecilie Mengel per immaginarsi come potrebbero essere rappresentate fotograficamente. L’artista danese e ora residente a New York realizza scatti che sono dialoghi interiori nati dagli stimoli che lei stessa riceve da ciò che la circonda e dalle persone con cui si trova a vivere momenti molto quotidiani.
Il risultato è una produzione artistica che è contraddistinta da una forte varietà nei soggetti e nelle ambientazioni, così come nello stile, una volta documentaristico, altre volte più vicino a una certa fotografia posata e teatrale. Si passa da scatti rubati in casa durante una conversazione a dettagli di una latta di salsa Heinz trovata nel porta oggetti di un taxi, tutto ricostruisce una storia comune e quotidiana.
Anche la tecnica di Cecilie Mengel rispecchia questa stessa idea di varietà. L’artista infatti combina fotografia digitale e analogica, in altri casi la post produzione aggiunge segni grafici alle immagini. Le luci talvolta sono naturali altre volte forzatamente create con il flash, creando un senso d’insieme magari meno omogeneo ma ricco di suggestioni e raconti personali.

Cecilie Mengel è stato recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Cecilie Mengel | Collater.al
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Diego Dominici e il velo di Maya

Diego Dominici e il velo di Maya

Giorgia Massari · 5 giorni fa · Photography

Un velo delicato, quasi trasparente e impercettibile, fluttua davanti ai nostri occhi e filtra la realtà, che diventa soggettiva e mai assoluta. Il filosofo Schopenhauer lo chiamava “il velo di Maya”, quell’impedimento che vieta all’uomo di fare esperienza del reale, che ci illude di conoscere la Verità. Il fotografo Diego Dominici lo pone tra lo spettatore e i suoi soggetti, trasformandolo in effettivo protagonista delle serie Atman e Red Clouds. Le figure – uomini e donne – sono intrappolate nel velo, lottano con esso tentando di evadere, aggrappandosi con forza, cercando di penetrarlo, in altri casi invece lo accolgono, adagiandosi e uniformandosi alla sua morbidezza che persuade. Allo spettatore è permesso solo intravedere le forme dei loro corpi nudi e le loro ossa impresse sulla superficie, in una danza di luci e ombre che trasmettono sensualità e solitudine allo stesso tempo.


Diego Dominici tenta di rompere la bidimensionalità della fotografia, creando due piani di profondità: quello dettato dal tessuto e dalle sue increspature e quello in cui è posizionato il soggetto. L’occhio dello spettatore è portato a muoversi continuamente sulla superficie, cercando di superarla e raggiungere così il soggetto e le sue forme dunque, in altre parole, la Verità.
L’analogia con la psicologia umana è dichiarata dal fotografo che vuole “squarciare la bidimensionalità per indagare i grovigli dell’interiorità umana”. Come nei suoi scatti, l’uomo può scegliere di farsi cullare dal velo dell’illusione, farsi accarezzare da una fittizia realtà e rimanere fermo sul suo punto di vista, oppure può scegliere di romperla, raggiungendo così l’altro lato e guardare la realtà da un’altra prospettiva. Il tessuto, o meglio il velo, diventa l’emblema delle barriere relazionali, quegli ostacoli che si interpongono tra noi e gli altri, che ci impediscono di comprendere le ragioni altrui e che creano distanze incolmabili. Allo stesso tempo, il velo diventa parte di noi, una sorta di involucro che ci avvolge e ci plasma, impedendoci di andare oltre. Ma, come diceva Schopenhauer, il velo di Maya dev’essere abbattuto, squarciato come una tela di Fontana, l’uomo deve abbandonare l’involucro come un serpente che cambia la propria pelle, per potersi aprire all’altro. Del resto, cos’è l’amore se non “l’annullamento dell’ego, il crollo di ogni discriminazione cosciente e la rinuncia a ogni metodica scelta”? diceva Salvador Dalì ne La mia vita segreta. Le opere di Diego Dominici invitano quindi a una profonda riflessione intima ma, grazie alla sua estetica attentamente curata, possono anche semplicemente appagare la vista e apparire come opere sensuali, in cui il velo diventa un preludio al piacere intimo.

Diego Dominici | Collater.al
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6 foto per scoprire la magia di Rodney Smith

6 foto per scoprire la magia di Rodney Smith

Tommaso Berra · 2 giorni fa · Photography

È stato prima un grande insegnante, educatore e saggista, poi anche un grande fotografo, che ha legato la propria carriera al ritratto e più avanti al mondo della moda. Nel corso della sua carriera di Rodney Smith (1947-2016) ha rappresentato scene meticolosamente costruite, umoristiche, paradossali, romantiche e divertenti, che verranno ora raccolte in un volume intitolato “Rodney Smith: A Leap of Faith“, contenente oltre duecento fotografie – alcune inedite – appena acquisite dal J. Paul Getty Museum.
Il progetto e l’acquisizione di Getty ripercorrono una traiettoria creativa che ha fatto della fantasia e dell’eleganza un vero filone fotografico. Gli spettatori sono invitati ad attivare un confronto con il surrealista René Magritte, il pittore che per temi e soggetti si avvicina maggiormente a Rodney Smith, mentre il curatore del Getty Museum Paul Martineau descrive Smith: “…come Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, le sue fotografie ci conducono nella tana del coniglio in un luogo fantastico che è appena fuori dalla nostra portata ma destinato a ispirarci a essere versioni migliori di noi stessi”.

Collater.al ha selezionato sei tra le più belle fotografie di Rodney Smith: A Leap of Faith, l’impressione è quella di avere davanti frame di un film fantastico o scene di un grande musical in costume, con i protagonisti che si trovano a ballare e baciarsi sopra il tetto di un taxi giallo di New York.

Rodney Smith | Collater.al
Figure 1 Twins in the Tree, Snedens Landing, New York, 1999 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 41 Self-Portrait with Leslie, Siena, Italy, 1990 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 86 A.J. Chasing Airplane, Orange County Airport, New York, 1998 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 110 Reed Leaping Over Rooftop, New York, New York, 2007 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 115 Wessel Looking Over the Balcony, Paris, France, 2007 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
Rodney Smith | Collater.al
Plate 126 Edythe and Andrew Kissing on Top of Taxis, New York, New York, 2008 © 2023 Rodney Smith Ltd., courtesy of the Estate of Rodney Smith
6 foto per scoprire la magia di Rodney Smith
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 14 ore fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

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