Cos’è un confine? Un limite, un inizio, ma anche una fine. Una linea (in)visibile in continuo movimento che delimita un «di qua», che conosciamo bene, e un «di là», che invece è altro da noi e non ci appartiene. A caratterizzare da sempre questo termine è infatti la sua natura mutevole. È così che nel tempo ha saputo estendersi a molti campi dell’esperienza umana, cambiando forma e sostanza. Basti pensare a come, ogni volta che il concetto di confine ha attraversato le sfere della creatività, è riuscito a raggiungere sfumature di significato sempre diverse. Un’evoluzione che per certi versi sembrerebbe assomigliare a quella dell’uomo e forse il motivo è perché idealmente rappresenta quella finestra dalla quale osservare le nostre azioni, quella finestra che ci offre l’opportunità di conoscerci più a fondo. Di conseguenza ogni volta che ne parliamo è come se stessimo parlando di noi stessi. Qui sono gli scatti di Viktoria Andreeva, Loc Boyle, Alessio Bucciero, Sara Camporesi e Gaia Caramellino a indagare, in chiave fotografica e da prospettive differenti, la natura sfuggente del concetto di confine.

Quello che esplora la fotografa bulgara Viktoria Andreeva nella serie Relay è il più primordiale dei confini, quello della nostra pelle. Nel progetto si approfondisce il complesso rapporto tra gli individui, esplorando temi come l’identità, la dualità umana e la metamorfosi. All’interno di ogni composizione il protagonista assoluto è il corpo che diventa lo strumento per dar vita a una serie di contraddizioni. Nelle sue fotografie infatti i soggetti possono apparire vicini e intimi e allo stesso tempo schivi e distanti. Questo perché Andreeva spersonalizza intenzionalmente questi ultimi, catturando le loro curve in modo astratto e surreale e nascondendo e rivelando di volta in volta parti dei loro corpi. Attraverso la distorsione delle figure la fotografa mira a superare il confine tra realtà e illusione e, così facendo, ci fa comprendere come questo concetto dipenda esclusivamente dalla nostra percezione e sia perciò soggettivo e indefinito, quindi astratto.

La distorsione della percezione adottata da Andreeva torna poi nella fotografia di Loc Boyle. In questo caso il fotografo australiano immagina nuove forme del corpo e sperimenta una tipologia di confine differente: la capacità di un uomo di «essere arte», incorniciando i corpi come fossero sculture monolitiche. Li vediamo ricoperti di vernice, intrappolati nella lycra, allungati e a volte persino piegati su se stessi; tutto ciò mentre sono intenti a mantenere pose astratte, drammatiche o semplicemente bizzarre. Il risultato sono immagini ricche di contrasti: potenti, delicate, immobili, in movimento, astratte, umane. Immagini che, allo stesso tempo, sanno incuriosire e confondere l’osservatore, il quale, stordito, si chiede «È un’opera d’arte, una scultura o l’essenza di qualcosa ancora sconosciuto?».

Per Alessio Bucciero il confine non va inteso come sinonimo di separazione, «Per me significa avvicinarsi a qualcosa», afferma il fotografo italiano. Questo approccio emerge sin dal primo sguardo nella foto dei due amanti colti in un abbraccio, che Bucciero fa apparire come fossero due parti di un’unica identità. Qui, quella soglia che distingue – come è stato detto all’inizio di questo testo – un «di qua» e un «di là» non si pone più come linea di inclusione/esclusione, ma diventa sempre più rarefatta fino a sparire, andando a creare qualcosa che non è mai esistito e che va esplorato. E così, senza volerlo, ci si dimentica quel bisogno ancestrale di sentirsi protetti dentro uno spazio delimitato, superando una volta per tutte la definizione più tradizionale di confine.

Mentre Andreeva, Boyle e Bucciero indagano il concetto di confine nella sola dimensione corporea, la ricerca di Sara Camporesi si concentra sulla definizione di «presenza» che il corpo occupa nell’ambiente circostante. Quello che prende in esame la fotografa italiana è dunque lo spazio che si crea tra il corpo e l’architettura, tra pieni e vuoti. «L’attimo in cui tutto è ancora sospeso, in cui siamo e non siamo, in cui tratteniamo qualcosa di sfuggente, qualcosa che ci precede e senza il quale nulla potrebbe cominciare», afferma Camporesi. Nello scatto realizzato nella Città Metafisica di Tresigallo, nella pianura ferrarese, vediamo quel confine diventare l’inizio di un viaggio condiviso alla scoperta di un altrove, nuovo e inimmaginabile. Un altrove in cui immergersi e lasciarsi stupire da ciò che è in grado di rivelare: qualcosa di noi che non sapevamo esistesse, che ci aiuta a (ri)conoscere o ritrovare.

Differente, ma per certi versi simile a quello di Camporesi è il confine inteso da Gaia Caramellino. Nelle sue fotografie questo concetto prende improvvisamente forma, diventando quel luogo in cui risultare introvabili per potersi ritrovare ogni volta. Non si tratta dunque di uno spazio sconosciuto, ma di uno di cui si ha esperienza. Una culla anzi «un luogo salvo, cristallizzato nel tempo, in cui poter essere deboli, aperti ai colpi, alle cadute. Una sorta di sala d’attesa finalizzata al nulla, una terra di mezzo di nessuno dove si arbitra alla pari con la propria storia», afferma la fotografa. Di fronte ai suoi scatti l’osservatore si trova quindi a fissare un confine che non gli appartiene.
Nelle indagini dei cinque fotografi presi in esame abbiamo compreso che il concetto di confine è soggettivo e astratto. Per quanto si voglia tentare di delimitarne il perimetro, il risultato non sarà mai definitivo perché non è nient’altro che un’idea che non esiste. Un’idea che abbiamo costruito noi, con il solo scopo di raccontarla.




