Suona di sicuro come una provocazione il titolo “Israeli Girls”.
O almeno, questa è l’idea che viene fuori cercando il testo in giro per il web, uscito ormai due anni fa. Ma è esattamente quello che voleva fare la fotografa. E ce lo ripete varie volte.
Dafy Hagai fotografa israeliana di cui vi abbiamo già parlato, che vive tra NY e Londra e che ha all’attivo numerose collaborazioni con il mondo della moda, voleva provocare l’osservatore in maniera velata. E quello che oggi è un testo bell’e fatto, all’inizio nasce come una zine, in cui la fotografa israeliana ripercorre i suoi luoghi dell’infanzia e ritorna da adolescente.
Negli scatti è del tutto assente quella voluttà che ci aspettiamo di trovare e che vedremmo volentieri come indice di provocazione, perché i soggetti in questione sono ragazze che al tempo delle fotografie stanno appena cominciando ad avere coscienza del loro corpo. E non hanno affatto bisogno di essere rivoluzionare, perché godono della stessa identica libertà di una ragazza del New Jersey – probabilmente anche di più, verrebbe da dire.
Tel Aviv sullo sfondo è del tutto impercettibile e la scelta un po’ ricalca una cifra stilistica del modus operandi dell’autrice, interessata a paesaggi e quadri “dreamy”, onirici che si riflette anche nella palette scelta e nelle inquadrature, che risentono esattamente del modello del XX secolo.
Quello che Dafy Hagai vuole mostrare in questa raccolta non è una cultura repressa che stenta a trovare un canale espressivo. Al contrario, ogni ragazza della Hagai è libera ed emancipata.
Non manca quell’accenno lolitiano alle pose scelte dall’artista, ma nulla ha a che vedere con la drammaticità e la pervicacia delle iraniane che Lolita provano davvero a leggerlo a Teheran.
Israeli Girls testimonia in maniera inconsapevole e con un pizzico di ironia, come la repressione e un possibile sovvertimento di un ordine imposto sia solo nelle nostre teste. E come, ancora oggi, i dibattiti culturali si fondino su quello che ci aspettiamo di leggere e non su quello che realmente è.
Un po’ come hanno fatto i giornalisti con le elezioni americane.
Testi: Giuliana Pizzi – @jouppiter