London Fashion Week Men’s: dieci brand da tenere sott’occhio

London Fashion Week Men’s: dieci brand da tenere sott’occhio

Collater.al Contributors · 4 anni fa · Style

L’anno nuovo è appena iniziato e la moda non resta mai indietro, anzi guarda sempre avanti. A posticipare il rientro in ufficio ci ha pensato la London Fashion Week Men’s, che lo scorso sabato ha fatto luce sulle tendenze e le collezioni che domineranno la prossima stagione invernale.

La capitale inglese è rinomata in quanto a innovazione e sperimentazione e, anche stavolta, l’aspetto curatoriale delle varie presentazioni ci ha lasciato a bocca aperta. Dai modelli che sfilano tra urinatoi in ceramica ricoperti di muschio, ai cloni e cyborg che ci ha presentato Xander Zhou, di certo i designer della capitale sanno come far parlare di sé! Ma, scenografie a parte, quello che abbiamo visto sulle passerelle conferma parzialmente le tendenze che vi avevamo annunciato per il 2019, rivisitando i classici del guardaroba maschile (come il completo giacca-pantalone o il giubbotto in pelle) e suggerendoci di giocare sempre più con gli accessori, che da tocco finale diventano protagonisti.

Come sempre, il nostro focus è sullo streetwear e lo sportswear, e qui vi elenchiamo i brand che ci hanno colpito di più:

Liam Hodges

Liam Hodges è il designer inglese formatosi sotto la guida dello stylist Simon Foxton, Royal College of Art, classe ’94. Le sue creazioni esplorano l’universo della mascolinità con un’espressività polisillabica, che si traduce in ampie silhouette, patch working, sportswear e workwear. Le sue influenze variano dal mondo dell’Hip Hop e skatewear al paganesimo inglese, lo sportswear e la cultura Post Punk. La sua ultima collezione “Mutations in the 4th Dimension” è proprio un misto di tutto ciò.
Le t-shirt e le polo rigate sono rifinite da stampe alla Fergus Purcell (grafico di Palace, Ashley Williams e AriesArise) e scritte che invocano i marziani. La collezione vanta due collaborazioni: la prima con il brand emergente Stain Shade, per le stampe Tye dye; la seconda con il brand sportivo italiano Ellesse, con cui ha rivisitato i pezzi del guardaroba sciistico del brand, trasformando giacche e pantaloni da sci in capi di comodo streetwear giornaliero. Tra gli accessori, confermata la presenza del balaclava anche per la prossima stagione.

Cottweiler

Cottweiler è il brand nato nel 2016 dal duo di designer Ben Cottrell e Matthew Dainty. Questa stagione ci hanno catapultato in parcheggio situato 12 piani sotto terra, in un ambiente adornato da urinali in ceramica ricoperti di muschio e luci di fanali di automobili finte. Il paesaggio ricrea l’ambiente dell’East End londinese e la collezione spinge i limiti del codice d’abbigliamento maschili. Giocatori di golf e cricket, insieme a cacciatori e dog-walkers, sfoderano uno sportswear formale, fatto di felpe zippate fino al collo, gilet multitasca, e pantaloni con gli esastici alle caviglie. A completare i look, gli accessori (i cappellini col simbolo Mercedes e Lotus e le cinture dalle chiusure innovative – potrebbero diventare nuovi concorrenti per Alyx?), e le scarpe realizzate in collaborazione con Reebok, un ibrido tra le sneakers e i mocassini.

Robyn Lynch

Robyn Lynch è la designer irlandese che quest’anno ha fatto il suo debutto alla London Fashion Week Men’s. Recentemente laureata alla Westminster University, le sue collezioni sono un tributo alle sue origini. Lo vediamo a partire dalla sua palette di colori dove, accanto al bianco e al blu, il verde è predominante. I suoi look mono-tono sono composti da tute, felpe con zip, maglioni e giacche da caccia. Mentre le silhouette (che ricordano lo stile sportswear anni ’80) si ripetono, i materiali si alternano. A tute di nylon vengono accostati gilet e maglioni di lana, mentre il tutto è completato da pantaloni e camicie in cotone. Largo spazio agli accessori: zaini monospalla e berretti di pail e nylon o intrecciati in lana.

Alex Mullins

Alex Mullins lancia il suo omonimo brand nel 2014, dopo aver concluso il suo percorso accademico alla Central Saint Martins e al Royal College of Arts. Da subito si distingue per il suo stile ‘hand made’, che gli è conferito dall’uso di tessuti sviluppati appositamente e tecniche di produzione avanzate. Trae ispirazione da modelli dall’apparel maschile tradizionale, che rivisita in chiave contemporanea. La sua ultima collezione infatti rivisita modelli di sartoria classica, le cui proporzioni vengono stravolte: le giacche arrivano a metà gamba e le maniche coprono le nocche, mentre il pantalone acquisisce una forma più ampia e morbida. Altra fonte d’ispirazione per la collezione il mondo del motocross, da cui riprende le forme e i colori di giacche e pantaloni.

Saul Nash

Nato e cresciuto a nord-est di Londra, Saul Nash è un ballerino che, dopo aver concluso gli studi di Performance Design alla Central Saint Martins, si è dedicato al fashion design. La sua ‘STATIC | MOTION: A Conversation Part II’ è un’evoluzione della sua collezione di laurea al Royal College of Art, dove ha intrapreso un Master in Menswear. Gli indumenti presentati sono un perfetto punto d’incontro tra le due discipline che hanno segnato il percorso formativo di Saul: la danza e la moda. Una collezione luxury sportswear presentata attraverso una performance coreografata dal designer stesso, che gli permette di mostrare al meglio le qualità dei suoi indumenti. I suoi modelli sportivi sono larghi e morbidi, rifiniti da zip e cordoncini che permettono a chi li indossa di personalizzarli secondo il proprio gusto ed esigenze.

A-Cold-Wall

Anche nell’ultima collezione presentata da Samuel Ross per A-Cold-Wall l’elemento performativo è stato parte integrante dello spettacolo: il pubblico ha assistito alla sfilata da dietro un percorso acquatico che attorniava la passerella, dove ballerini ricoperti di grigio si contorcevano a gattoni. Ospite d’onore il Dobermann che abbaia, che è scomparso nel buio con la stessa velocità con cui ha esordito. L’atmosfera e la musica (sempre di Samuel Ross) volevano essere un riferimento all’atmosfera di ansia e irrequietezza che stiamo vivendo. I modelli, sudati, si guardavano tormentati l’un l’altro mentre sfilavano sotto una luce fioca e scintillante. La collezione ha sfoderato capi simbolo del guardaroba pratico giornaliero: trench, gilet e pantaloni imbottiti, pantaloni da lavoro, polo e maglioni a collo alto. Caratteristici i ritagli innovativi che lasciano intravedere gli outfit multistrato. Oltre alle tracolle, anche borse e valigie hanno completato alcuni dei look e, sciarpe dalle e stampe geometriche, e cappelli con i copriorecchie, sono stati il tocco finale di una collezione in pieno stile A-Cold-Wall.

Per Gotesson

Anche lui vanta un corso di studi al Royal College of Arts nel suo cv. Introdotto nel cerchio della moda da Fashion East nel 2016, le collezioni di Per Gotesson sono una personale reinterpretazione degli indumenti essenziali del guardaroba maschile. Il suo stile è caratterizzato dal minimalismo scandinavo, che viene ravvivato dalla sua capacita di scomporre le classiche silhouette. I pezzi chiave della sua collezione sono le magliette multistrato strappate, che spesso lasciano intravedere la pelle, e le camicie dai toni spenti lasciate sbottonate sulle t-shirt. Non mancano i jeans al rovescio e completi giacca-pantalone in tartan e classico nero; ma la particolarità sta soprattutto nel pantalone, che si posiziona anni luce avanti al solito modello skinny (ve lo avevamo detto!). I pantaloni infatti presentano cuciture trasversali che conferiscono all’indumento una silhouette a campana, perfettamente abbinabile ai suoi giubbotti e cappelli con inserti in pelliccia.

Craig Green

Craig Green è ormai tra i designer da non perdere nel calendario della London Fashion Week. Dopo aver vinto il premio Designer of the Year del British Fashion Council nel 2018, con l’anno nuovo non smette di stupirci. La sua ultima collezione è frutto di sperimentazione di nuove tecniche, tessuti e materiali, come quelli dei packaging industriali o delle plastiche colorate usate per creare full-look con tanto di cappello (letteralmente). Oltre ai completi in tartan con ritagli al posto delle tasche e sui gomiti e top con scollo a caftano, riproposto anche per i completi semitrasparenti, Craig Green riprende una silhouette anni 60 nel design di pantaloni e impermeabili lunghi fino al ginocchio. Altri elementi che ci hanno colpito gli impermeabili dalle stampe fucsia e verdi, proposti anche in grigio o nero, e i suoi classici pantaloni dalle tasche oversize.

Floyd Hogan

Laureata alla Parsons di New York, Madeline Hogan disegna sotto l’acronimo di Floyd Hogan, il brand che sovverte gli stereotipi di mascolinità, e lavora come Materials Designer per Nike. La sua collezione si ispira ai bodybuilders e al mondo della WWE al suo apice, negli anni 70 e 80. Giacche a dir poco voluminose, che si ispirano ai bicipiti e pettorali gonfiati dei wrestler, entrano in contrasto le camicie stampate attillate e i maglioncini abbinati sotto. A pantaloni dai rigonfiamenti sporgenti si alternano pantaloncini setosi a vita alta e camicie dai colletti esagerati e appuntiti. Ma negli essentials del guardaroba Floyd Hogan non possono mancare le t-shirt stampate e i giubbotti in pelle dalle spalle esagerate, proposti sia in nero che in azzurro.

Xander Zhou

Ultimo, ma non per importanza o effetti speciali, Xander Zhou, esponente della new wave di designer cinesi. Ha fatto sfilare una serie di cloni, dottori-ingegneri e le loro creazioni, bambini tenuti in braccio o in carrozzine, esseri extraterrestri e cyborg, che hanno dato vita alle sua collezione futuristica. Gli abiti presentano colori vivaci, come quelle dei completi spaziali, muniti di cinture multifunzionali. I dottori indossano pantaloni dritti e polo azzurre (quello dei camici da ospedale), i maglioni dal collo alto ricordano i costumi di un film sci-fi degli anni 70, e le giacche in pelle dalle spalle imponenti sembrano uscite da Matrix. Predominanti, le comode felpe fleece, che vedete qui sopra in bianco e grigio. Insomma la collezione Supernatural, Extraterrestrial & Co, è un esplorazione dell’evoluzione umana e tecnologica, dove esseri geneticamente modificati sostituiranno la popolazione ordinaria.

Testo di Enrica Miller

London Fashion Week Men’s: dieci brand da tenere sott’occhio
Style
London Fashion Week Men’s: dieci brand da tenere sott’occhio
London Fashion Week Men’s: dieci brand da tenere sott’occhio
1 · 10
2 · 10
3 · 10
4 · 10
5 · 10
6 · 10
7 · 10
8 · 10
9 · 10
10 · 10
Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Tommaso Berra · 2 giorni fa · Photography

Basta ascoltare le conversazioni che nascono dentro la propria testa a Cecilie Mengel per immaginarsi come potrebbero essere rappresentate fotograficamente. L’artista danese e ora residente a New York realizza scatti che sono dialoghi interiori nati dagli stimoli che lei stessa riceve da ciò che la circonda e dalle persone con cui si trova a vivere momenti molto quotidiani.
Il risultato è una produzione artistica che è contraddistinta da una forte varietà nei soggetti e nelle ambientazioni, così come nello stile, una volta documentaristico, altre volte più vicino a una certa fotografia posata e teatrale. Si passa da scatti rubati in casa durante una conversazione a dettagli di una latta di salsa Heinz trovata nel porta oggetti di un taxi, tutto ricostruisce una storia comune e quotidiana.
Anche la tecnica di Cecilie Mengel rispecchia questa stessa idea di varietà. L’artista infatti combina fotografia digitale e analogica, in altri casi la post produzione aggiunge segni grafici alle immagini. Le luci talvolta sono naturali altre volte forzatamente create con il flash, creando un senso d’insieme magari meno omogeneo ma ricco di suggestioni e raconti personali.

Cecilie Mengel è stato recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Cecilie Mengel | Collater.al
Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
Photography
Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
1 · 12
2 · 12
3 · 12
4 · 12
5 · 12
6 · 12
7 · 12
8 · 12
9 · 12
10 · 12
11 · 12
12 · 12
Diego Dominici e il velo di Maya

Diego Dominici e il velo di Maya

Giorgia Massari · 2 giorni fa · Photography

Un velo delicato, quasi trasparente e impercettibile, fluttua davanti ai nostri occhi e filtra la realtà, che diventa soggettiva e mai assoluta. Il filosofo Schopenhauer lo chiamava “il velo di Maya”, quell’impedimento che vieta all’uomo di fare esperienza del reale, che ci illude di conoscere la Verità. Il fotografo Diego Dominici lo pone tra lo spettatore e i suoi soggetti, trasformandolo in effettivo protagonista delle serie Atman e Red Clouds. Le figure – uomini e donne – sono intrappolate nel velo, lottano con esso tentando di evadere, aggrappandosi con forza, cercando di penetrarlo, in altri casi invece lo accolgono, adagiandosi e uniformandosi alla sua morbidezza che persuade. Allo spettatore è permesso solo intravedere le forme dei loro corpi nudi e le loro ossa impresse sulla superficie, in una danza di luci e ombre che trasmettono sensualità e solitudine allo stesso tempo.


Diego Dominici tenta di rompere la bidimensionalità della fotografia, creando due piani di profondità: quello dettato dal tessuto e dalle sue increspature e quello in cui è posizionato il soggetto. L’occhio dello spettatore è portato a muoversi continuamente sulla superficie, cercando di superarla e raggiungere così il soggetto e le sue forme dunque, in altre parole, la Verità.
L’analogia con la psicologia umana è dichiarata dal fotografo che vuole “squarciare la bidimensionalità per indagare i grovigli dell’interiorità umana”. Come nei suoi scatti, l’uomo può scegliere di farsi cullare dal velo dell’illusione, farsi accarezzare da una fittizia realtà e rimanere fermo sul suo punto di vista, oppure può scegliere di romperla, raggiungendo così l’altro lato e guardare la realtà da un’altra prospettiva. Il tessuto, o meglio il velo, diventa l’emblema delle barriere relazionali, quegli ostacoli che si interpongono tra noi e gli altri, che ci impediscono di comprendere le ragioni altrui e che creano distanze incolmabili. Allo stesso tempo, il velo diventa parte di noi, una sorta di involucro che ci avvolge e ci plasma, impedendoci di andare oltre. Ma, come diceva Schopenhauer, il velo di Maya dev’essere abbattuto, squarciato come una tela di Fontana, l’uomo deve abbandonare l’involucro come un serpente che cambia la propria pelle, per potersi aprire all’altro. Del resto, cos’è l’amore se non “l’annullamento dell’ego, il crollo di ogni discriminazione cosciente e la rinuncia a ogni metodica scelta”? diceva Salvador Dalì ne La mia vita segreta. Le opere di Diego Dominici invitano quindi a una profonda riflessione intima ma, grazie alla sua estetica attentamente curata, possono anche semplicemente appagare la vista e apparire come opere sensuali, in cui il velo diventa un preludio al piacere intimo.

Diego Dominici | Collater.al
Diego Dominici e il velo di Maya
Photography
Diego Dominici e il velo di Maya
Diego Dominici e il velo di Maya
1 · 8
2 · 8
3 · 8
4 · 8
5 · 8
6 · 8
7 · 8
8 · 8
La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy

La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy

Giorgia Massari · 4 giorni fa · Photography

Da un reel di Instagram del fotografo canadese Sean Mundy si intuisce la complessità delle sue opere fotografiche. I suoi non sono solo scatti ma piuttosto si può affermare che le sue opere siano il risultato di una grande immaginazione veicolata dalla fotografia, da abilità tecniche di post produzione digitale e dalla dettagliata costruzione scenografica. Nel reel infatti, il fotografo mostra il processo di realizzazione dell’opera Summoning che raffigura una serie di corpi precipitare da un’apertura nel soffitto. I personaggi “volanti” alla Magritte sono in realtà la stessa persona: il fotografo realizza molteplici autoscatti mentre si lancia su un materasso, simulando la caduta, per poi lavorarli digitalmente e creare la composizione. Il risultato è un lavoro concettuale e sorprendente, in cui l’armonia visiva accentua e veicola messaggi sociali, con un focus particolare sulle dinamiche di comportamento collettivo.

Sean Mundy | Collater.al

Ricorrente nelle opere di Sean Mundy è la figura di un uomo incappucciato di cui non è visibile il volto. L’abbigliamento total black che indossa lo rende una figura misteriosa, inquietante e tenebrosa, come se fosse un’ombra senz’anima. Molto spesso il personaggio in nero appare in maniera ripetuta nella stessa opera, creando un gruppo unito somigliante ad una setta, intento in azioni a tratti macabre. In alcune opere il gruppo è messo in opposizione ad un singolo, come nell’opera Elude del 2014, in cui le figure in nero inseguono un uomo in fuga, che si differenzia per l’abbigliamento da uomo comune, in jeans e t-shirt. In altre opere invece vengono eseguiti comportamenti rituali, ne è un esempio l’opera Idolatry che mostra il gruppo inginocchiato davanti ad un enorme cubo nero sospeso nell’aria. Questa serie di opere è un chiaro riferimento ai comportamenti sociali in cui il singolo non possiede una propria identità personale ma piuttosto emerge un’identità collettiva che spinge il singolo ad uniformarsi alla massa, sia dal punto di vista ideologico che estetico.
In altre serie il protagonista, solo o in gruppo, è messo in relazione ad elementi che dominano la composizione come il fuoco nella serie Barriers, paesaggi urbani distrutti in RUIN e teli rossi in Tethered, la serie più recente di Sean Mundy. L’intento rimane sempre quello di comunicare problematiche attuali, legate in particolar modo ai meccanismi psicologici umani indotti dall’esterno ma con evidenti ripercussioni intime.

Sean Mundy | Collater.al
Sean Mundy | Collater.al
Courtesy by Sean Mundy
La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy
Photography
La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy
La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy
1 · 11
2 · 11
3 · 11
4 · 11
5 · 11
6 · 11
7 · 11
8 · 11
9 · 11
10 · 11
11 · 11
Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale

Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale

Laura Tota · 5 giorni fa · Photography

Il 21 marzo, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, dialogica vuole indagare la capacità delle immagini di contribuire, attraverso un’azione di alfabetizzazione visuale interculturale, all’abbattimento dei preconcetti legati ai fenomeni della migrazione o della diversità culturale.
Da quando a cavallo degli anni ’60 e ’70 Gordon Parks ha iniziato a raccontare con dignità e sensibilità la povertà, l’ingiustizia sociale e l’emarginazione vissute dagli afroamericani negli Stati Uniti, una nuova modalità narrativa ha affiancato il fotogiornalismo d’assalto, contribuendo a delineare una nuova iconografia capace di restituire una visione de-colonizzata, più realistica e meno stereotipata della figura del migrante o, più in generale, delle comunità nere. All’approccio puramente documentaristico le nuove generazioni di autori che lavorano con le immagini preferiscono un’indagine che si focalizzi più sul territorio in cui vivono, ricorrendo a linguaggi più ricercati o che approfondiscono le implicazioni sociali del fenomeno della migrazione.

Il lavoro “Nowhere Near” dell’autrice Alisa Martynova si concentra proprio sulla necessità di restituire un’identità peculiare all’erroneamente monolitica visione del migrante. Alisa ricorre a metafore e similitudini per raccontare le testimonianze di giovani migranti, intervistati in Italia (e non solo) nell’arco di oltre tre anni. I gruppi di migranti, protagonisti di viaggi estenuanti, vengono metaforicamente paragonati a costellazioni di stelle fuggitive, ovvero corpi celesti intrappolati sul confine dei buchi neri, una sorta di limbo da cui possono sottrarsi sono grazie a uno scontro tra due buchi neri: un evento eccezionale che proietta le stelle lontane da un equilibrio precario per raggiungere destinazioni non note.

Così, il Sogno di una vita migliore, del raggiungimento di un Eldorado a lungo immaginato, ma mai realmente visualizzato, viene poeticamente reso attraverso scatti realizzati in notturna in cui la luce svela per qualche secondo ciò che è nascosto, mostrando tessuti e vestiti iconograficamente legati alla cultura afro/orientale, ma catturati in luoghi altri, in cui spesso è presente quel mare attraversato coraggiosamente per raggiungere una vita migliore, o il bosco/foresta in cui nascondersi per diventare fantasmi in terra straniera.

Un cortocircuito visivo che ribadisce l’insistere di una cultura altra in un territorio sconosciuto, ma che accende una riflessione sul mondo interiore dei migranti con l’intento di suscitare reazioni in chi guarda e sottolineare l’individualità e peculiarità di ogni soggetto ritratto, portatore di storie, vissuti e racconti unici e irripetibili.

Sul pericolo di un appiattimento culturale delle comunità di colore si concentra anche il progetto “Black skin white algorithms” dell’autrice di origini angolane Alice Marcelino. Alice, il cui lavoro esplora la dimensione dell’appartenenza a partire dai concetti di cultura, tradizione, migrazione e identità, denuncia le anomalie presenti nelle tecnologie di rilevamento facciale nel momento in cui queste interagiscono con soggetti di pelle nera. Essendo principalmente programmate dall’uomo occidentale per rilevare pelle chiara, queste tecnologie non individuano in maniera ugualmente accurata le tonalità di pelle più scura, restituendo visioni sommarie o approssimative dei soggetti riconosciuti.

L’idea di inferiorità viene perpetrata quindi non solo in pregiudizi sociali inconsci, ma è alimentata anche dalle tecnologie, programmate da mani bianche occidentali, con una conseguente fornitura di potenziali false dichiarazioni. A sottolineare questo livellamento, Alice sostituisce la foto segnaletica dei soggetti con l’equivalente traduzione in codice ASCII (un set di caratteri standard compreso da tutti i computer) – che ne riduce l’identità a un risultato binario, privo di significato e complessità: la lettura del volto viene così annullata totalmente e resa illeggibile sia dall’uomo che dal sistema di riconoscimento facciale.

Alisa Martynova | Collater.al
Alisa Martynova | Collater.al
Alisa Martynova | Collater.al
Alisa Martynova | Collater.al
Alisa Martynova | Collater.al
Alisa Martynova | Collater.al
Alisa Martynova | Collater.al
Alice Marcelino | Collater.al
Alice Marcelino | Collater.al
Alice Marcelino | Collater.al
Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale
Photography
Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale
Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale
1 · 18
2 · 18
3 · 18
4 · 18
5 · 18
6 · 18
7 · 18
8 · 18
9 · 18
10 · 18
11 · 18
12 · 18
13 · 18
14 · 18
15 · 18
16 · 18
17 · 18
18 · 18