Ogni immagine ha un significato che va oltre ciò che mostra. Una fotografia è l’istantanea del momento in cui è stata scattata, racconta le storie di chi sta di fronte, ma anche dietro l’obiettivo. Luca Romano, che alla fotografia è arrivato attraverso lo studio, lo sa bene.
Classe 1985, Luca è laureato in scienze filosofiche e oggi, oltre a scrivere e collaborare per diverse testate, continua ad analizzare il profondo legame che c’è tra la filosofia e l’immagine. È proprio cercando il collegamento tra queste due materie che, alla fine, Luca si è convinto a imbracciare la propria macchina fotografica e cominciare a scattare.
Alcuni scatti di Luca Romano saranno esposti a Torino per Ph.ocus – About Photography nella sezione “Please, Stay Home”, ma noi, incuriositi, gli abbiamo fatto qualche domanda per farci raccontare al meglio il suo lavoro.
Non perderti la nostra intervista!

Come ti sei avvicinato alla fotografia?
Generalmente mi avvicino alle tecniche attraverso la teoria e spesso partendo dalla filosofia, è capitato così con la critica letteraria e successivamente anche con la fotografia. In questo caso, infatti, ho studiato storia della fotografia e poi sono passato alla filosofia della fotografia. È stato un percorso di diversi anni che è culminato con un dottorato dedicato al rapporto tra filosofia e immagine. L’idea è sempre cercare di portare un ambito al di fuori dei propri confini, contaminandolo e a volte anche perdendolo. E così dopo aver letto e studiato, ho deciso che era arrivato il momento di provare a fare delle foto.
Quest’anno hai dato vita al progetto “Chiudi gli occhi“. Raccontaci come è nata l’idea e in cosa consiste.
L’idea è nata poco per volta, si è costruita da sé mettendo insieme diverse letture, dagli studi sul volto di Levinas, a quelli sul contatto e sul corpo di Nancy, per arrivare alla questione dell’occhio e dello sguardo in Bataille e Derrida. Rimettendo insieme i pezzi mi è sembrato necessario iniziare un percorso fotografico orientato alla messa in scena dell’impossibilità di vedere la visibilità. E così sottraendo lo sguardo da un ritratto ho voluto sottrarre la visibilità stessa di chi guarda e di chi è guardato. Poi continuando per sottrazione ho fatto scoprire le spalle, mettendo in mostra una nudità nascosta dal taglio della foto. E in ultimo è arrivata la pandemia che ha nascosto anche la possibilità di vedere la bocca. E così alla fine il lockdown è diventato totale, ho provato a raccontare una chiusura interiore che forse non è ancora emersa del tutto a livello sociale, ma che con questa seconda ondata, purtroppo, emergerà in maniera ancora più forte.
Oltre a dedicarti alla fotografia, scrivi per diverse testate. Ad oggi pensi che abbia più forza la parola o l’immagine?
Credo che la parola ormai abbia forza solo in ambienti ristretti, nelle élite, mentre l’immagine riesce ad arrivare a tutti, perché è disponibile subito e perché non esiste una educazione all’immagine nelle scuole. Sul come arriva poi c’è molto da dire. Le persone imparano, se imparano, a guardare le immagini (e le fotografie in particolare), guardandole.

È ancora una forma culturalmente clandestina, nessuno ti insegna a scuola che la fotografia è una forma di potere, che scegliere cosa farti vedere è una forma di potere, che la creazione di un archivio fotografico corrisponde allo scarto di molto materiale che non verrà visto. Mentre con la parola questo avviene, chi detiene il discorso è percepito come una persona che detiene il potere, a partire dalla cattedra a scuola per gli insegnanti.
Ecco perché un’educazione all’immagine può portare con sé molti cambiamenti, a partire dal corpo di chi viene fotografato, alla libertà di potersi mostrare, fino a una cultura del rispetto per chi sceglie di mostrarsi.
Quali sono i fotografi o gli artisti a cui ti ispiri? E quelli che segui?
Le foto che faccio nascono principalmente dalle parole, quindi alla base dei miei scatti ci sono pagine di teoria, più che fotografie, quindi tra le ispirazioni non posso non citare studiosi come Didi-Huberman, o come Susan Sontag. Anche se non posso negare d’aver amato molto (ma come tutti, spero) le foto di Ghirri per la composizione, quelle di Brassai per la capacità di saper raccontare un corpo e quelle di molti altri grandi maestri. Devo però ammettere che preferisco il confronto con fotografi meno classici, ma che hanno molta voglia di sperimentare e di guardare in maniera diversa. Penso a Alexander Bronfer, Fontanesi, Martina Matencio, Guen Fiore, e tanti altri.
C’è uno scatto al quale sei particolarmente legato? Raccontacelo.
Se parliamo di foto di grandi fotografi, c’è una foto di Balzac spesso attribuita a Nadar (anche se in realtà era di Louis Auguste-Bisson) che racconta molto bene sia la nascita della fotografia con i suoi fantasmi, sia una storia molto affascinante che è quella che Balzac ha scritto poi all’interno de “Il capolavoro sconosciuto”, un libricino che è stato veramente molto importante sia per la storia dell’arte, sia per la letteratura.
Se invece parliamo di una mia fotografia, forse sceglierei una delle prime che ho realizzato con la consapevolezza che attraverso la fotografia avrei potuto raccontare quel senso di perdita e di fine che ogni cosa porta con sé.
È una foto nata per caso su una spiaggia, ci sono soltanto delle gambe incrociate, c’è stato un momento al di fuori dell’immagine che sarebbe dovuto durare per sempre, come tutti i momenti felici, ma, ovviamente, come è giusto che sia, non è successo. Ma tutto quello che nessuno saprà è necessario immaginarlo.

Amo molto questa foto forse perché spero riesca in quello che le foto dovrebbero saper fare, portare le persone altrove.
