Phoebe Philo, la storia di una rivoluzionaria gentile

Phoebe Philo, la storia di una rivoluzionaria gentile

Andrea Tuzio · 2 mesi fa · Style

La notizia è di quelle che fa rumore, dopo 10 anni come direttrice creativa di Celine e 5 lontana dalle scene, Phoebe Philo torna finalmente nel mondo della moda. 

“Essere nel mio studio ancora una volta è stato eccitante e incredibilmente appagante” ha dichiarato la stessa Phoebe Philo in un’intervista rilasciata a Business of Fashion, ed ha aggiunto: “Non vedo l’ora di essere di nuovo in contatto con il mio pubblico e con la gente di tutto il mondo. Essere indipendente, governare e sperimentare alle mie condizioni è enormemente significativo per me”.

La designer inglese, infatti, ha fatto il suo ritorno nel fashion fondando il proprio omonimo brand di abbigliamento e accessori dove la designer avrà il pacchetto di maggioranza mentre LVMH sosterrà il progetto come investitore di minoranza.

Quello che sappiamo per ora è soltanto questo: “la nostra collezione inaugurale sarà rivelata e disponibile all’acquisto a settembre 2023”, ed è quello che la designer inglese ha condiviso tramite un post Instagram sul suo account, poi eliminato.

Ma chi è Phoebe Philo?
Phoebe è nata a Parigi da genitori inglesi che lavoravano nella capitale francese. Richard, suo padre, era un geometra mentre Celia, sua madre, era una commerciante d’arte e una graphic artist – ha contribuito a realizzare la copertina dell’album Aladdin Sane di David Bowie.
Tutta la famiglia fece ritorno in Inghilterra quando Phoebe aveva due anni e si sistemarono a Harrow, nel nord-ovest di Londra.

Phoebe Philo


La designer inglese mostrò di avere un’enorme passione per la moda sin da piccola al punto tale da spingere i suoi genitori a regalarle, per i suoi 14 anni, una macchina da cucire grazie alla quale iniziò a personalizzare i propri vestiti. 
Ha studiato presso il Central Saint Martins College of Art and Design di Londra, laureandosi nel 1996 e, una volta terminati gli studi, è stata assunta come assistente di Stella McCartney da Chloé l’anno successivo trasferendosi a Parigi.
Nel 2001 è stata nominata direttore creativo della maison francese, succedendo alla McCartney, per poi lasciare l’incarico e l’azienda nel 2006 per tornare a Londra per stare con la sua famiglia e dove ha avuto il suo secondo figlio. Nel 2008 però arriva la chiamata di Bernard Arnault e del gruppo LVMH che le offrono il ruolo di direttore creativo della maison francese Céline. Phoebe accetta ma ad un’unica condizione, l’ufficio creativo doveva trasferirsi a Londra perché lei non avrebbe lasciato di nuovo la sua famiglia. Arnault acconsente e l’anno successivo la Philo debutta con la sua prima collezione per Céline riscuotendo un successo enorme, di pubblico e di critica.

Nel 2017, dopo 10 anni a capo della maison francese, la designer britannica si dimette da direttore creativo dopo aver presentato la Pre-Fall 2018.

Phoebe Philo

Phoebe Philo attraverso il suo lavoro ha ridefinito i canoni dell’abbigliamento femminile, grazie alla sua estetica minimalista, alla pulizia delle linee, alle palette di colori utilizzate e alla sua straordinaria capacità di rivoluzionare attraverso una semplicità estremamente affascinate e senza eccessi. 
Una rivoluzione all’insegna della semplicità che ha fatto di Céline un punto di riferimento della moda femminile.

Ora Phoebe torna nel mondo della moda non più a capo di una famosa maison ma con un suo progetto personale e non ci resta che aspettare per godere ancora del suo straordinario lavoro.

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I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

Giorgia Massari · 4 giorni fa · Photography

La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografa Tetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista.
Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.

Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 
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20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast

20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast

Tommaso Berra · 3 giorni fa · Photography

Venezia è una città di tesori, gemme sparse per la città e custodite nei palazzi della laguna, come per esempio Palazzo Grassi, che da qualche giorno ospita una mostra che raccoglie alcune di queste gemme, 407 tra fotografia e illustrazioni provenienti dall’archivio storico di Condé Nast.
Il titolo della mostra è “CHRONORAMA. Tesori fotografici del 20° secolo” ed è la prima esposizione mondiale dedicata alle opere – recentemente acquistate dalla Pinault Collection – provenienti dagli archivi della casa editrice americana fondata nel 1909 che pubblica tra gli altri Vogue e Vanity Fair.
Nelle bellissime sale di Palazzo Grassi la selezione è divisa in decenni, partendo dal 1910 e arrivando fino al 1979, raccogliendo lo straordinario lavoro di artisti come Irving Penn, Helmut Newton, Ugo Mulas Cecil Beaton e tanti altri, che hanno saputo intuire la potenza delle immagini nel secolo che ne ha sancito l’importanza artistica e sociale.

Le immagini mostrano ovviamente fotografie di moda, ma anche di architettura, nature morte e ritratti di icone del ‘900, partendo da figure politiche come Charles de Gaulle e J.F. Kennedy arrivando ad artisti del calibro di Pablo Picasso, Igor Stravinsky o Charlie Chaplin. Tante anche le foto di figure femminili, modelle come Twiggy e Veruschka ma anche Dr. Mary Walker, attivista per i diritti delle donne che nel 1911 veniva ritratta su Vanity Fair con indosso un paio di pantaloni, una scelta insolita per l’epoca ma che racconta tanto del contesto storico di queste fotografie.
la mostra sarà aperta al pubblico fino al 7 gennaio 2024 e nel frattempo, aspettando la vostra visita, il museo ha anche realizzato “Chronorama. Istantanee dal Novecentoun podcast in tre episodi prodotto da Chora Media che accompagna il visitatore a una lettura più chiara e approfondita delle opere.

CECIL BEATON, Standing portrait of General Charles de Gaulle, 1944, Vogue © Condé Nast
CECIL BEATON, Paternoster Row, London, after bombing, 1940, Vogue © Condé Nast
TONI FRISSELL, WAAC (Women’s Army Auxiliary Corps) officers sitting under hair dryers, 1943, Vogue © Condé Nast
PAUL HIMMEL, The Isetta car parked beside the glass-stair-railed apartment Moretti, 1954, Vogue © Condé Nast
EVELYN HOFER, Frank Lloyd Wright, 1959, Vogue, © Condé Nast
JEAN HOWARD, Marlon Brando, 1951, Vogue © Condé Nast
LUSHA NELSON, Heavyweight boxing champion Joe Louis, 1935, Vanity Fair © Condé Nast
DUANE MICHALS, Two models in an office looking at negatives, 1976, Vogue, © Condé Nast
DORA KALLMUS, Tsuguharu Foujita, 1928, Vanity Fair © Condé Nast
GEORGE HOYNINGEN-HUENE, Josephine Baker, 1927, Vanity Fair © Condé Nast
GEORGE HOYNINGEN-HUENE, Igor Stravinsky seated with a hat, 1927, Vanity Fair © Condé Nast
IRVING PENN, Mr. and Mrs. Henri Cartier-Bresson, 1946, Vogue © Condé Nast
FRANCO RUBARTELLI, Veruschka, head-to-head with a cheetah, 1967, Vogue © Condé Nast
BERT STERN, Actor and director Anthony Newley playing with two models, 1963, Vogue © Condé Nast
BERT STERN, Twiggy wearing a mod minidress by Louis Féraud and leather shoes by François Villon, 1967, Vogue © Condé Nast
STRAUSS-PEYTON STUDIO, Actor Charlie Chaplin, 1921, Vanity Fair © Condé Nast
PAUL THOMPSON, Dr. Mary Walker, the first woman to wear trousers in public, c. 1911, Vanity Fair © Condé Nast
20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast
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Brice Gelot, per l’amor di Dio

Brice Gelot, per l’amor di Dio

Tommaso Berra · 2 giorni fa · Photography

Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società.
“For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista francese Brice Gelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.

Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano.
Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.

Brice Gelot | Collater.al
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
Photography
Brice Gelot, per l’amor di Dio
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 5 giorni fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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