Sinking House, la casa che affonda contro il cambiamento climatico

Sinking House, la casa che affonda contro il cambiamento climatico

Giulia Guido · 1 anno fa · Art

È apparsa pochi giorni fa nel centro della località inglese di Bath, proprio nel mezzo del fiume Avon nei pressi del Pulteney Bridge, Sinking House, l’installazione realizzata dallo studio d’architettura Stride Treglown

Sinking House è una piccola casetta in legno dipinta di rosso che sembra affondare nel fiume. Seduta sul tetto troviamo una figura umana che sta cercando di salvare la casa da una distruzione quasi certa tendendosi con forza a una corda legata al ponte. Su questa corda si può notare un’inconfondibile scritta bianca su cartelli rossi: COP26

Sinking House

Gli architetti di Stride Treglown hanno voluto creare un’opera che affrontasse il tema del cambiamento climatico e del pericolo che corriamo proprio a pochi giorni dal COP26 ovvero la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre. 

Sono molte le speranze riposte in questo appuntamento. Gli Stati partecipanti infatti dovranno rinnovare gli impegni presi con l’Accordo di Parigi e porre dei nuovi obiettivi volti a combattere il cambiamento climatico. 

Sinking House non potrebbe rappresentare in modo migliore i pericoli che corriamo. Mai come in questi ultimi anni abbiamo provato sulla nostra pelle i primi effetti concreti del cambiamento climatico e una piccola casetta rossa che affonda non è poi così lontana dalla realtà. Nel nostro piccolo ci basti ricordare le immagini dell’acqua alta che inonda Venezia o dei più recenti video di Catania completamente sommersa. 

Non casuale, inoltre, è stata la scelta del colore rosso: Sinking House ricorda infatti le casette e gli alberghi del Monopoly. Lo studio Stride Treglown ha voluto in questo modo sottolineare come spesso gli stati hanno preso decisioni solamente pensando agli aspetti economici. 

Come per l’installazione, il COP26 può essere l’ultima nostra ancora di salvezza. 

Sinking House
Sinking House
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Sinking House, la casa che affonda contro il cambiamento climatico
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Sinking House, la casa che affonda contro il cambiamento climatico
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Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Tommaso Berra · 3 giorni fa · Photography

Basta ascoltare le conversazioni che nascono dentro la propria testa a Cecilie Mengel per immaginarsi come potrebbero essere rappresentate fotograficamente. L’artista danese e ora residente a New York realizza scatti che sono dialoghi interiori nati dagli stimoli che lei stessa riceve da ciò che la circonda e dalle persone con cui si trova a vivere momenti molto quotidiani.
Il risultato è una produzione artistica che è contraddistinta da una forte varietà nei soggetti e nelle ambientazioni, così come nello stile, una volta documentaristico, altre volte più vicino a una certa fotografia posata e teatrale. Si passa da scatti rubati in casa durante una conversazione a dettagli di una latta di salsa Heinz trovata nel porta oggetti di un taxi, tutto ricostruisce una storia comune e quotidiana.
Anche la tecnica di Cecilie Mengel rispecchia questa stessa idea di varietà. L’artista infatti combina fotografia digitale e analogica, in altri casi la post produzione aggiunge segni grafici alle immagini. Le luci talvolta sono naturali altre volte forzatamente create con il flash, creando un senso d’insieme magari meno omogeneo ma ricco di suggestioni e raconti personali.

Cecilie Mengel è stato recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Cecilie Mengel | Collater.al
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Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
Photography
Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore
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Diego Dominici e il velo di Maya

Diego Dominici e il velo di Maya

Giorgia Massari · 3 giorni fa · Photography

Un velo delicato, quasi trasparente e impercettibile, fluttua davanti ai nostri occhi e filtra la realtà, che diventa soggettiva e mai assoluta. Il filosofo Schopenhauer lo chiamava “il velo di Maya”, quell’impedimento che vieta all’uomo di fare esperienza del reale, che ci illude di conoscere la Verità. Il fotografo Diego Dominici lo pone tra lo spettatore e i suoi soggetti, trasformandolo in effettivo protagonista delle serie Atman e Red Clouds. Le figure – uomini e donne – sono intrappolate nel velo, lottano con esso tentando di evadere, aggrappandosi con forza, cercando di penetrarlo, in altri casi invece lo accolgono, adagiandosi e uniformandosi alla sua morbidezza che persuade. Allo spettatore è permesso solo intravedere le forme dei loro corpi nudi e le loro ossa impresse sulla superficie, in una danza di luci e ombre che trasmettono sensualità e solitudine allo stesso tempo.


Diego Dominici tenta di rompere la bidimensionalità della fotografia, creando due piani di profondità: quello dettato dal tessuto e dalle sue increspature e quello in cui è posizionato il soggetto. L’occhio dello spettatore è portato a muoversi continuamente sulla superficie, cercando di superarla e raggiungere così il soggetto e le sue forme dunque, in altre parole, la Verità.
L’analogia con la psicologia umana è dichiarata dal fotografo che vuole “squarciare la bidimensionalità per indagare i grovigli dell’interiorità umana”. Come nei suoi scatti, l’uomo può scegliere di farsi cullare dal velo dell’illusione, farsi accarezzare da una fittizia realtà e rimanere fermo sul suo punto di vista, oppure può scegliere di romperla, raggiungendo così l’altro lato e guardare la realtà da un’altra prospettiva. Il tessuto, o meglio il velo, diventa l’emblema delle barriere relazionali, quegli ostacoli che si interpongono tra noi e gli altri, che ci impediscono di comprendere le ragioni altrui e che creano distanze incolmabili. Allo stesso tempo, il velo diventa parte di noi, una sorta di involucro che ci avvolge e ci plasma, impedendoci di andare oltre. Ma, come diceva Schopenhauer, il velo di Maya dev’essere abbattuto, squarciato come una tela di Fontana, l’uomo deve abbandonare l’involucro come un serpente che cambia la propria pelle, per potersi aprire all’altro. Del resto, cos’è l’amore se non “l’annullamento dell’ego, il crollo di ogni discriminazione cosciente e la rinuncia a ogni metodica scelta”? diceva Salvador Dalì ne La mia vita segreta. Le opere di Diego Dominici invitano quindi a una profonda riflessione intima ma, grazie alla sua estetica attentamente curata, possono anche semplicemente appagare la vista e apparire come opere sensuali, in cui il velo diventa un preludio al piacere intimo.

Diego Dominici | Collater.al
Diego Dominici e il velo di Maya
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Diego Dominici e il velo di Maya
Diego Dominici e il velo di Maya
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La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy

La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy

Giorgia Massari · 5 giorni fa · Photography

Da un reel di Instagram del fotografo canadese Sean Mundy si intuisce la complessità delle sue opere fotografiche. I suoi non sono solo scatti ma piuttosto si può affermare che le sue opere siano il risultato di una grande immaginazione veicolata dalla fotografia, da abilità tecniche di post produzione digitale e dalla dettagliata costruzione scenografica. Nel reel infatti, il fotografo mostra il processo di realizzazione dell’opera Summoning che raffigura una serie di corpi precipitare da un’apertura nel soffitto. I personaggi “volanti” alla Magritte sono in realtà la stessa persona: il fotografo realizza molteplici autoscatti mentre si lancia su un materasso, simulando la caduta, per poi lavorarli digitalmente e creare la composizione. Il risultato è un lavoro concettuale e sorprendente, in cui l’armonia visiva accentua e veicola messaggi sociali, con un focus particolare sulle dinamiche di comportamento collettivo.

Sean Mundy | Collater.al

Ricorrente nelle opere di Sean Mundy è la figura di un uomo incappucciato di cui non è visibile il volto. L’abbigliamento total black che indossa lo rende una figura misteriosa, inquietante e tenebrosa, come se fosse un’ombra senz’anima. Molto spesso il personaggio in nero appare in maniera ripetuta nella stessa opera, creando un gruppo unito somigliante ad una setta, intento in azioni a tratti macabre. In alcune opere il gruppo è messo in opposizione ad un singolo, come nell’opera Elude del 2014, in cui le figure in nero inseguono un uomo in fuga, che si differenzia per l’abbigliamento da uomo comune, in jeans e t-shirt. In altre opere invece vengono eseguiti comportamenti rituali, ne è un esempio l’opera Idolatry che mostra il gruppo inginocchiato davanti ad un enorme cubo nero sospeso nell’aria. Questa serie di opere è un chiaro riferimento ai comportamenti sociali in cui il singolo non possiede una propria identità personale ma piuttosto emerge un’identità collettiva che spinge il singolo ad uniformarsi alla massa, sia dal punto di vista ideologico che estetico.
In altre serie il protagonista, solo o in gruppo, è messo in relazione ad elementi che dominano la composizione come il fuoco nella serie Barriers, paesaggi urbani distrutti in RUIN e teli rossi in Tethered, la serie più recente di Sean Mundy. L’intento rimane sempre quello di comunicare problematiche attuali, legate in particolar modo ai meccanismi psicologici umani indotti dall’esterno ma con evidenti ripercussioni intime.

Sean Mundy | Collater.al
Sean Mundy | Collater.al
Courtesy by Sean Mundy
La massa e il singolo nelle opere di Sean Mundy
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Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale

Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale

Laura Tota · 6 giorni fa · Photography

Il 21 marzo, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, dialogica vuole indagare la capacità delle immagini di contribuire, attraverso un’azione di alfabetizzazione visuale interculturale, all’abbattimento dei preconcetti legati ai fenomeni della migrazione o della diversità culturale.
Da quando a cavallo degli anni ’60 e ’70 Gordon Parks ha iniziato a raccontare con dignità e sensibilità la povertà, l’ingiustizia sociale e l’emarginazione vissute dagli afroamericani negli Stati Uniti, una nuova modalità narrativa ha affiancato il fotogiornalismo d’assalto, contribuendo a delineare una nuova iconografia capace di restituire una visione de-colonizzata, più realistica e meno stereotipata della figura del migrante o, più in generale, delle comunità nere. All’approccio puramente documentaristico le nuove generazioni di autori che lavorano con le immagini preferiscono un’indagine che si focalizzi più sul territorio in cui vivono, ricorrendo a linguaggi più ricercati o che approfondiscono le implicazioni sociali del fenomeno della migrazione.

Il lavoro “Nowhere Near” dell’autrice Alisa Martynova si concentra proprio sulla necessità di restituire un’identità peculiare all’erroneamente monolitica visione del migrante. Alisa ricorre a metafore e similitudini per raccontare le testimonianze di giovani migranti, intervistati in Italia (e non solo) nell’arco di oltre tre anni. I gruppi di migranti, protagonisti di viaggi estenuanti, vengono metaforicamente paragonati a costellazioni di stelle fuggitive, ovvero corpi celesti intrappolati sul confine dei buchi neri, una sorta di limbo da cui possono sottrarsi sono grazie a uno scontro tra due buchi neri: un evento eccezionale che proietta le stelle lontane da un equilibrio precario per raggiungere destinazioni non note.

Così, il Sogno di una vita migliore, del raggiungimento di un Eldorado a lungo immaginato, ma mai realmente visualizzato, viene poeticamente reso attraverso scatti realizzati in notturna in cui la luce svela per qualche secondo ciò che è nascosto, mostrando tessuti e vestiti iconograficamente legati alla cultura afro/orientale, ma catturati in luoghi altri, in cui spesso è presente quel mare attraversato coraggiosamente per raggiungere una vita migliore, o il bosco/foresta in cui nascondersi per diventare fantasmi in terra straniera.

Un cortocircuito visivo che ribadisce l’insistere di una cultura altra in un territorio sconosciuto, ma che accende una riflessione sul mondo interiore dei migranti con l’intento di suscitare reazioni in chi guarda e sottolineare l’individualità e peculiarità di ogni soggetto ritratto, portatore di storie, vissuti e racconti unici e irripetibili.

Sul pericolo di un appiattimento culturale delle comunità di colore si concentra anche il progetto “Black skin white algorithms” dell’autrice di origini angolane Alice Marcelino. Alice, il cui lavoro esplora la dimensione dell’appartenenza a partire dai concetti di cultura, tradizione, migrazione e identità, denuncia le anomalie presenti nelle tecnologie di rilevamento facciale nel momento in cui queste interagiscono con soggetti di pelle nera. Essendo principalmente programmate dall’uomo occidentale per rilevare pelle chiara, queste tecnologie non individuano in maniera ugualmente accurata le tonalità di pelle più scura, restituendo visioni sommarie o approssimative dei soggetti riconosciuti.

L’idea di inferiorità viene perpetrata quindi non solo in pregiudizi sociali inconsci, ma è alimentata anche dalle tecnologie, programmate da mani bianche occidentali, con una conseguente fornitura di potenziali false dichiarazioni. A sottolineare questo livellamento, Alice sostituisce la foto segnaletica dei soggetti con l’equivalente traduzione in codice ASCII (un set di caratteri standard compreso da tutti i computer) – che ne riduce l’identità a un risultato binario, privo di significato e complessità: la lettura del volto viene così annullata totalmente e resa illeggibile sia dall’uomo che dal sistema di riconoscimento facciale.

Alisa Martynova | Collater.al
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Alice Marcelino | Collater.al
Alice Marcelino | Collater.al
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Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale
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Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale
Dialogica: due progetti sull’eliminazione della discriminazione razziale
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