STRIPS è un format di Collater.al nel quale differenti fumettisti realizzano una striscia interpretando il tema “Essere fumettisti è fantastico. Lo odio”. Non si tratta di essere bipolari come nel caso dell’album Ye di Kanye West, è solo la condizione di molti artisti, perennemente alla ricerca di una storia da raccontare.
Ogni due settimane un fumettista realizzerà una strips per Collater.al, riprendendo un contenuto tipico della tradizione giornalistica cartacea come la vignetta umoristica.
Per il quarto episodio di IN STUDIO, siamo andati a trovare la product designerAstrid Luglio. Co-founder del collettivo The Ladies’ Room insieme a Ilaria Bianchi, Agustina Bottoni e Sara Ricciardi, Astrid si specializza in una specifica branca del design, quella legata alla cultura culinaria. Provenendo da una famiglia di ristoratori e a seguito di un viaggio in Australia durato un anno, Astrid entra sempre più in contatto con la ristorazione e in particolare con gli ingredienti nel mondo della gastronomia, che la ispirano nella creazione di oggetti volti alla loro esaltazione. Siamo andati a trovarla nel suo studio a Milano, per scoprire di più sul suo percorso, sulla sua ricerca e sulla sua metodologia.
Chi è Astrid Luglio?
Classe ’88, Astrid Luglio nasce a Napoli per poi trasferirsi a Milano per studiare Product Design alla Nuova Accademia di Belle Arti. La dimensione del viaggio è stata parte integrante della sua formazione, in particolare quello in Australia che l’ha portata a interfacciarsi con il mondo della ristorazione. Tornata in Italia, dopo aver vissuto tre mesi in Vietnam, Astrid inizia a collaborare con TourDeFork di Milano, uno studio di design ispirato al cibo e alla cultura culinaria. Nel 2018 apre il suo studio indipendente e inizia a insegnare Design of Small Objects agli studenti internazionali del triennio della NABA. Con il collettivo The Ladies’ Room avvia una riflessione sul design contemporaneo, per indagare il bisogno di un coinvolgimento sensoriale. Proprio sulla sensorialità, Astrid Luglio sviluppa la sua ricerca legata alla cultura culinaria. Partendo dallo studio e dalla conoscenza approfondita di un preciso ingrediente, progetta una serie di oggetti che possano esaltare le proprietà del prodotto e, in senso più ampio, poter generare un’esperienza percettiva.
Lo studio
Ci troviamo alla fine di via Padova, sulla Martesana. Un quartiere un po’ lontano dal centro che senza dubbio lascia spazio alla concentrazione. Lo studio di Astrid Luglio è in realtà ibrido, qui lavora con i suoi collaboratori e vive con il suo compagno Sirio Vanelli, Direttore della Fotografia, e con la loro piccola figlia Lea, Blu. Il complesso che accoglie la casa-studio è già di per sé molto curioso. Si tratta della ex fabbrica Gio’Style ristrutturata dall’architetto Gianluigi Mutti. L’identità del luogo è stata mantenuta, dalle grandi vetrate industriali ai piccoli dettagli, come i campanelli che sono veri e propri pulsanti. Appena entrati nell’appartamento, siamo sorpresi dalla luminosità e dal respiro degli spazi. Una musica di sottofondo e piante sparse qua e là, ci accolgono in un ambiente rilassato e sereno, che ci proietta nel micro ecosistema della designer.
Da quanto tempo sei in questo studio?Come lo concepisci?
Siamo qui da poco, da un anno e mezzo. Stiamo capendo ancora come organizzarci, è tutto in divenire. Con Sirio abbiamo cercato apposta uno spazio che potesse essere casa-studio. Prima lavoravo in un co-working alla Fabbrica del Vapore, ma sentivo la necessità di avere più spazio, sia per fotografare e, in generale, per espandermi. Per questo abbiamo cercato uno spazio che potesse essere versatile. Per esempio, ho progettato appositamente dei tavoli con le ruote per rendere lo spazio adattabile alle nostre esigenze. È uno ambiente conviviale, sempre in evoluzione ed è proprio la caratteristica che per me deve avere lo studio.
Com’è stato il passaggio da uno studio esterno a casa-studio?
All’inizio è stato un po’ difficile perché sono un po’ gelosa del mio spazio-tempo. Con l’evoluzione della vita però l’ho trovato un super vantaggio perché prima di tutto ho la possibilità di gestire lo spazio come voglio. Poi il fatto che lo viviamo anche in modo molto famigliare è una cosa che mi piace molto. Mi piace l’idea di creare un ambiente in cui chi lavora con me si senta a casa. Con il fatto che abbiamo una figlia questo aspetto diventa fondamentale. Essere una madre freelance in una società che non ci mette nelle condizioni di far convivere l’aspetto lavorativo e quello famigliare non è facile, quindi ci siamo creati noi una dimensione in cui invece diventa gestibile. Ricrei quella micro società che vorresti in macro, con le proprie regole.
Nel concreto come vivi lo studio? Ti piace avere visite?
Abbiamo suddiviso l’area di lavoro in modo che ci sia sempre uno spazio super flessibile nella parte centrale. Quando dobbiamo scattare, usiamo i tavoli per gli still life, mentre in altre situazioni diventano luogo di cene con amici, designer e creativi in generale. La configurazione è ibrida anche per questo, chi viene, viene a mangiare in una casa-studio che è anche un ambiente produttivo e lavorativo. Chi passa magari ha anche piacere a lavorare qua, l’idea è questa. La porta è sempre aperta.
Questa dimensione casalinga ti fa sentire alienata in questo spazio?
Questa è una bolla, io qui perdo completamente la concezione del tempo e dello spazio. Sarà forse il contesto architettonico che invita ad isolarsi. La dimensione Martesana è un po’ a sé rispetto al resto di Milano. Per me tutta questa area è un po’ una bolla nella quale a volte mi perdo. Perdo la dimensione del tempo e dello spazio ma la cosa bellissima è che, in poco, se voglio riconnettermi con il mondo posso farlo. Per me è una novità perché prima eravamo in Sarpi, nel quartiere di Chinatown, in pieno casino. Indubbiamente un quartiere più vivo, però questo per me è un tempio della concentrazione entro cui lavoro molto bene. Poi in realtà le distrazioni ci raggiungono.
Parlando più di te invece, qual è stato il progetto che ha segnato una svolta nella tua carriera?
Ce ne sono due in realtà. Il primo è quello iniziale che mi ha fatto capire che potevo avere una visione su questa nicchia e che poteva funzionare. Si tratta del progetto Camere Olfattive, un calice per la degustazione olfattiva che ho progettato per il Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP. In pratica è un bicchiere che enfatizza le proprietà organolettiche del balsamico tradizionale o di qualsiasi liquido versato al suo interno, come fragranze, olio, caffè e vino. La cosa significativa di questo progetto è che fu il mio primo autonomo. Il Consorzio aveva indetto un bando per il quale bisognava progettare delle esperienze intorno al balsamico tradizionale. La prima cosa che ho notato è che la degustazione avveniva nei calici di vino o in cucchiaini in plastica, quindi con strumenti che non erano concepiti per questa funzione e non erano adatti a enfatizzarlo. Per cui io ho proposto questo calice che è in realtà una bolla di vetro borosilicato. La cosa interessante è che loro erano rimasti particolarmente colpiti da come gli odori riuscivano a esprimersi. Con questa esperienza ho capito come ci siano una serie di ingredienti che appartengono alla nostra cultura culinaria che mancano di una serie di strumentazione apposita, quindi quale pretesto migliore per progettare proprio partendo dal loro studio e arrivare a enfatizzazione alcune loro qualità.
Il secondo progetto che segna una svolta è uno degli ultimi che ho fatto, in cui c’è stato un cambio di scala completo. Io parto come progettista del prodotto, però il Panificio di Davide Longoni mi ha chiesto di affrontare una progettazione in scala maggiore, ripensando a uno spazio all’interno del panificio. In realtà, il processo creativo è uguale perché parto sempre dalla ricerca dell’ingrediente, in questo caso il pane. Siamo partiti dal back del magazzino, che loro usano per panificare. Qui c’era uno spazio inutilizzato nel quale Longoni voleva creare una situazione di scambio e di intimità intorno al tema della panificazione, che abbiamo chiamato Il Circolino del Pane. Una cucina in cui poter invitare pochissime persone, fare cene, talk e workshop. Il punto di partenza di questo progetto è stato capire come esprimere la miscela del pane attraverso i materiali, esprimendo al contempo anche la milanesità del panificio, essendo Longoni un punto di riferimento su Milano. Per cui siamo andati ad indagare un po’ quello che è la tecnica del cotto lombardo variegato, che mescola argille differenti. Con questa tecnica abbiamo realizzato delle piastrelle che sono alla base del progetto della cucina, realizzato con Very Simple Kitchen. Il risultato estetico vede la miscela di tre ingredienti che simbolicamente rimandano alla farina, all’acqua e al grano. Tra l’altro, le piastrelle si tagliano proprio come delle fette di pane. È un blocco di argilla in cui si mescolano tutte e tre e poi vengono affettate. Questo progetto mi ha aperto tutto un altro mondo, che è quello della progettazione di spazi, una cosa che fino ad adesso non avevo considerato. Mi è sembrato un altro punto di svolta perché c’è stato un passaggio dal prodotto allo spazio e ho capito che, se si parte comunque da un ingrediente, alla fine la progettazione può evolversi in altri modi.
Come avviene la tua fase di ricerca?
Se si parla di ingredienti, molto spesso devi andare a trovare questi ingredienti nel loro habitat naturale o comunque dove nascono e vengono prodotti. Per esempio, un progetto che ho disegnato due anni fa per la valorizzazione dell’olio extra vergine d’oliva, richiedeva che ci fosse un lavoro di ricerca a partire dai frantoi. Invece di partire qui dalla scrivania, siamo andati in Costiera dove si coltiva e lavora l’oliva campana. C’è una parte del lavoro che ha un output molto artigianale e poi ci sono anche progetti che sono completamente industriali, prodotti di massa che necessitano una progettazione differente. In entrambi i casi cerco sempre di tenere uno storytelling e una poetica comune, nonostante i processi produttivi diversi. Oltre alla parte sul campo, per me è molto importante avere un riferimento bibliograficoe materico, ogni progetto prevede l’acquisto di una moltitudine di libri sull’argomento, oltre che di oggetti curiosi legati ad esso.
Tornando allo studio, qual è lo strumento che non può mancare qui?
La cosa che posso definire imprescindibile è l’archivio dei sample, dei materiali che ho collezionato nel tempo. Mi servono tantissimo di volta in volta per creare moodboard materici dai quali partono le ispirazioni per i progetti. Poi anche la vecchia radio a transistor di mio padre, di cui amo la casualità con la quale sceglie i brani.
Anche se la risposta sembra scontata, te lo chiediamo lo stesso: te ne andresti domani da questo studio?
In realtà ti sorprenderò, sì. Mi piace pensare che questo sia lo spazio che va bene in questo periodo della mia vita. Un giorno potrebbe non rispettare più la mia metodologia. Sono molto aperta al cambiamento rispetto all’ambiente lavorativo. Anzi, io mi annoio spesso, per questo i tavoli hanno le ruote, perché tutto deve poter cambiare sempre, anche proprio dove mi posiziono nello spazio. La metodologia troppo rigida non mi appartiene, nonostante mi nutra di una serie di ossessioni per quanto riguarda il metodo di ricerca, però poi mi piace poterle mescolare in modo più randomico. Mi piace pensare che ci sia sempre un’evoluzione.
Come ultima domanda vogliamo un piccolo spoiler. A cosa stai lavorando al momento?
Sto lavorando per il team italiano del Bocuse d’Or, un concorso di alta cucina che si tiene ogni due anni a Lione. Ogni team studia e progetta un grande vassoio con quattordici portate, che sfila davanti a una giuria di giudici esperti. Il vassoio dev’essere molto sontuoso e avere una relazione stretta con quello che lo chef va a cucinare. Ogni anno ci sono chef emergenti che si presentano per la prima volta al pubblico internazionale. Se vincono il Bocuse d’Or è un po’ come per noi vincere il Compasso d’Oro. Per il progetto di quest’anno siamo partiti dalla ricerca sul mosaico fiorentino, sulle sue origini e sulla sua tecnica di applicazione. Quello che succede in questo concorso è che partecipando un po’ da tutti i Paesi del mondo, è importante valorizzare il Paese di provenienza. Di volta in volta, c’è una ricerca specifica su una tecnica o un mondo di riferimento che possa richiamare l’italianità in modo fine, senza essere troppo didascalici.
Dopo un post andato virale, Snoop Dogg ha annunciato proprio oggi che non é vero che avrebbe smesso di fumare cannabis. Tutto per uno spot pubblicitario su un camino senza fumo. Una mossa sicuramente divertente che ci ha fatto subito pensare a WEED’D, il progetto spin-off di WOOD’D che si concentra sui cosiddetti smoking objects. L’intenzione della strategia marketing di questo brand sta nel ribaltare la concezione che abbiamo del consumo dei cannabinoidi trasformando l’atto in un’occasione per staccare dalla vita di tutti giorni e, finalmente, rilassarsi. I designer coinvolti in questo progetto dal Design Director – Simone Bonanni – per il secondo drop sono Gabriele Chiave, Cara \ Davide, Attila Veress, Valerio Sommella, Maddalena Casadei e tutti i prodotti sono Handmade in Italy, realizzati in ceramica.
WEED’D è nato nel 2022 e siamo già al secondo drop di tre bong, questa volta realizzati nei colori grey e sky blue. Anche i pezzi del primo drop sono stati realizzati in nuovi colori fra cui il red e il grey. Ma non ci sono solo bong. Un porta candele, una pipa e un posacenere sono parte degli oggetti inediti presentati dal brand. Una piccola curiosità: tutti i prodotti portano le iniziali dei nomi dei designer che li hanno disegnati.
Cambiare prospettiva
L’intenzione di cambiare il modo in cui pensiamo al fumo della cannabis ha reso possibile a WEED’D di diventare il primo brand di bong di design interamente Made in Italy. Un’idea sicuramente inesplorata nel nostro paese prima dell’anno scorso che ha riscosso molto successo fra gli amanti del design. La scelta di Simone Bonanni di coinvolgere altri designer attivi nella scena del design italiano e internazionale è sicuramente coraggiosa ma sicuramente esteticamente stimolante. Secondo Interni, «il risultato è radical al punto che sembra nato da una ricerca provocatoria di Memphis e dall’immaginario scanzonato e curioso dei suoi designer».
Fare del buon design non è semplice, soprattutto oggi. Il pluripremiato designerDavid Dolcini affronta questo argomento nel suo nuovo libro TIMEMADE, presentato oggi – 16 novembre alle ore 18 – all’ADI Design Museum di Milano, nell’ambito di Bookcity Milano. L’espressione “Made with Time” diventa il sottofondo, nonché il core del libro che presenta l’omonimo progetto, portato avanti dal designer dal 2021. In altre parole, il design ha bisogno di dialogare con la materia e con il tempo. L’arte del fare necessita di “una certa finezza che può essere acquisita solo con il lavoro e il tempo trascorso a stretto contatto con i materiali”, che nel caso di Dolcini è il legno. Nel suo progetto TIMEMADE, il legno diventa protagonista di un viaggio temporale che non è altro che il riflesso di un percorso personale di Dolcini. Ricerca e ispirazioni di vario genere, come gli innesti botanici, l’architettura tradizionale giapponese e l’antica pittura a inchiostro cinese, hanno dato vita a un progetto che è libero nel metodo e che si sviluppa, come ha dichiarato lo stesso Dolcini, «attraverso il piacere semplice del fare con le proprie mani».
Il libro TIMEMADE comunica il progetto di Dolcini attraverso i testi di Piergiorgio Caserini e Marco Sammicheli, accompagnati dalle bellissime fotografie di Mattia Balsamini, che pongono gli oggetti di legno in dialogo con un ambiente più freddo e urban. In questo senso è importante menzionare l’attenzione che David Dolcini ha nei confronti dell’ambiente circostante. Il contesto ambientale e l’interazione umana sono per lui elementi fondamentali nella definizione e nella creazione di ogni singolo pezzo – una ‘microarchitettura‘ che non raggiunge mai uno stato definitivo, ma si trasforma costantemente nel corso del tempo, fugace e allo stesso tempo eterno.
A un certo punto del Novecento, più precisamente a partire dagli anni Cinquanta, gli artisti hanno iniziato a interrogarsi sui materiali naturali da poter utilizzare per i loro lavori. L’aria era forse la più impensabile, ma senza dubbio la più diffusa. Da questa riflessione nasce l’Inflatable design o, in parole più semplici, l’arte gonfiabile. Dalle famose opere pubbliche di Christo alle sculture gonfiabili di Franco Mazzucchelli (di cui vi abbiamo parlato qui), sono tanti gli artisti, architetti e designer che iniziano a sperimentare con l’aria, creando oggetti, ma anche strutture di grandi dimensioni, sfruttando quella che è la risorsa più disponibile sulla superficie terracquea. Oltre a non creare alcun tipo di spreco, se “intrappolata” diventa incredibilmente accogliente e dà prova delle sue proprietà strutturali. Nascono così oggetti leggeri ma allo stesso tempo pieni e resistenti, dall’aspetto pop e divertente. Le possibilità di utilizzo diventano infinite ma, soprattutto, con la giusta progettazione, gli oggetti gonfiabili hanno una grande potenzialità d’utilizzo. Dalla realizzazione di oggetti di arredo – come i divani per esempio -, a vere e proprie strutture abitabili, oltre che opere d’arte sensazionali e installazioni su larga scala. La trasportabilità, la disponibilità infinita dell’aria e i bassi costi di realizzazione, rendono l’Inflatable design sostenibile e utilizzabile anche in casi di emergenza, come nel caso dei rifugi ParaSITE di Michael Rakowitz, strutture gonfiabili costruite per ospitare i senzatetto. Oggi abbiamo selezionato cinque strutture gonfiabili da farvi scoprire.
#1 La poltrona gonfiabile Blow di Jonathan De Pas, Donato D’Urbino e Paolo Lomazzi (1967)
La poltrona gonfiabile Blow, ideata nel 1967 da Jonathan De Pas, Donato D’Urbino e Paolo Lomazzi, rappresenta un’icona del design contemporaneo. Caratterizzata da forme organiche e materiali innovativi come il vinile, la poltrona sfida i canoni tradizionali con un approccio audace e sperimentale. Blow non è solo una poltrona, ma un’opera d’arte funzionale che incarna lo spirito creativo e avanguardistico degli anni ’60. Il suo design giocoso e dinamico ha contribuito a ridefinire il concetto di arredamento, diventando un simbolo di audacia e innovazione nel mondo del design d’interni. La persistente popolarità della Blow testimonia la sua rilevanza nel panorama del design moderno e dell’affermazione dell’inflatable.
#2 Innerling sofa per IKEA di Jan Dranger (1997)
Negli anni ’90, il designer svedese di mobili Jan Dranger si rivolse a Ingvar Kamprad, fondatore di IKEA, con un’idea rivoluzionaria: risolvere il problema dell’imballaggio di divani e poltrone in pacchi piatti per semplificarne il trasporto e ridurre i costi. La sfida era notevole, considerando la struttura pesante in legno di molti mobili imbottiti. Dranger propose un nuovo concetto di mobili gonfiabili chiamato SoftAir, utilizzando nuove tecnologie e materiali resistenti. La sua innovazione includeva il fatto che non era più necessario gonfiare i mobili con aria compressa, ma potevano essere gonfiati con un normale asciugacapelli. Nel 1995, presentò a Kamprad prototipi di divani, poltrone e sgabelli gonfiabili rivestiti in tessuto. L’approccio gonfiabile non era nuovo per IKEA, che aveva tentato soluzioni simili nel passato, tra cui l’ispirazione agli interni delle auto alla fine degli anni ’70. Dopo una serie di incontri segreti, IKEA firmò un contratto con SoftAir per introdurre questa innovativa linea di mobili gonfiabili nei loro negozi.
#3 I Waterfall Arches di Cyril Lancelin nel negozio Hyundai in Corea del Sud (2022)
L’artista Cyril Lancelin ha creato l’installazione Waterfall Arches, esposta presso un grande magazzino in Corea del Sud. Questa scultura gonfiabile, emulando la forma architettonica di un arco contemporaneo, trasforma lo spazio commerciale in un ambiente espositivo coinvolgente. I giganteschi archi verdi si sviluppano in una serie ripetitiva, invitando i visitatori a interagire da vari livelli. L’uso del colore richiama l’acqua e la vegetazione circostante, integrandosi con l’ambiente. L’installazione unisce i concetti di museo e grande magazzino, cercando di coinvolgere i visitatori e promuovere la connessione sociale. L’artista enfatizza la partecipazione attiva, trasformando il labirinto in un paesaggio artificiale di possibilità, dove i visitatori condividono momenti creativi attraverso foto e video, stabilendo un dialogo visivo e sociale.
#4 L’Organic Concept di Shih Chieh Huang al Worcester Art Museum (2017)
Forse in tanti ricorderanno la grande scultura gonfiabile a forma di verme dell’artista Shih Chieh Huang nella corte rinascimentale del Worcester Art Museum. La struttura, alimentata da ventilatori a scatola, si snodava attraverso lo spazio, pulsando e sembrando viva. Utilizzando materiali comuni, Huang trasforma oggetti familiari in forme complesse, creando opere cinetiche che si muovono, lampeggiano e cambiano colore nella penombra.
#5 Super Maxi disegnato dagli studenti di architettura del Pratt Brooklyn (2021)
Come ultimo esempio vi riportiamo un recente progetto realizzato dagli studenti di architettura del Pratt Institute di Brooklyn, Ayse Bengiserp, Sophi Lilles, Jia Yi (Melody) Lin, Beren Saraquse e Rithika Vedapuri. Si tratta del progetto Super Maxi, tramite il quale gli studenti del Pratt Institute hanno affrontato il problema dei rifiuti di plastica creando strutture gonfiabili su larga scala durante uno studio di architettura. Utilizzando plastica riciclata, hanno sviluppato efficienti sistemi geometrici, sollevando questioni cruciali sulle problematiche dei rifiuti di plastica sottile. Il corso, condotto da Robert Lee Brackett III e Duks Koschitz, ha coinvolto la sperimentazione di tecniche di costruzione gonfiabili per realizzare pareti, tubi e cupole autoportanti. Le installazioni, esposte nel campus di Brooklyn, hanno offerto visioni distinte del design gonfiabile, affrontando tematiche come l’uso della plastica monouso e stimolando la riflessione sulle alternative sostenibili.