Benvenuti ne “La terza estate dell’amore”, un disco libero che sprizza libertà da tutti i pori, come il suo autore Marco Jacopo Bianchi meglio noto come Cosmo.
“La terza estate dell’amore è una pernacchia in faccia a chi nega l’essenzialità della festa e dello spirito di comunità. Non ce ne facciamo niente delle città cadavere, luoghi di morte dell’anima e del corpo. Le vogliamo cambiare. Vada a farsi fottere il pil, si fotta la Borsa.“
Un disco che si muove, anzi va dritto verso il futuro, accompagnato da suoni psichedelici, ritmi più che movimentati, 12 tracce che non vi faranno mai annoiare. La terza estate dell’amore è il manifesto di qualcosa che ancora non ha un nome. Un corpo pulsante e desiderante che spruzza il suo sudore sull’etica del lavoro.

Per capirci qualcosa in più, o meglio entrare ancor di più nel complesso universo di Cosmo, abbiamo fatto quattro chiacchiere per farci spiegare ogni traccia, dalla prima alla dodicesima, nessuna esclusa.
Tra confessioni, svolte nelle produzioni, Cosmo ci ha più o meno sintetizzato il processo di realizzazione che lo ha portato a pubblicare il suo nuovo album. La terza estate dell’amore è un’invocazione, più che una realtà. È una possibilità, ma anche una necessità.
Ma prima, se non l’hai ancora fatto, ascoltalo, non te ne pentirai.

Partiamo dal titolo “La terza estate dell’amore”. Un album che è un manifesto, una rappresentazione della nostra epoca, una restituzione del tempo perso, un’invocazione. È un album, come tu stesso hai scritto, che va verso il futuro, ma dove vuole arrivare? Cosa si impone di fare?
Il disco è solo un disco, una cosa che tu ascolti e che entra a far parte della tua vita. Per me è stata un’opera che ho concepito, concluso e che mando in giro. Poi su dove vuole arrivare, sai, quando la lasci andare una cosa se ne va, non penso di avere grande controllo ne di poter avere chissà che ambizione. La speranza è che passi il messaggio musicale che ho messo dentro, che è quello di una musica libera. Ogni volta che facevo le cose, ogni volta che sentivo che spezzavo una regola o che non stavo costringendo la canzone a seguire uno schema, era in quei momenti che stavo bene. È una cosa che mi piacerebbe passasse. Che passasse sia nel corpo delle persone che ascoltano ma anche nella testa. Se devo trovare un’ambizione forse è quella che questo disco sia una bella ventata di libertà e che ispiri altra libertà, ecco. Ma anche che altre persone possano iniziare a fare questo tuffo nel vuoto.
Mi permetto di fare un paragone, giusto per iniziare al meglio il nostro track by track. Possiamo considerare “DUM DUM” una sorta di intro come “Bentornato” in Cosmotronic? Un’intro che ci fa capire in che tipo di mondo ci stai per far entrare.
Sì, ha proprio la funzione di introduzione però, rispetto a “Bentornato”, è un po’ più pesante. Penso sia il pezzo più scuro e sperimentale che ho fatto finora, anche come struttura, non ha minimamente un ritornello, non esplode, ha questo finale quasi creepy, strano, dissonante. Voleva essere un inizio in cui viene introdotta subito una conflittualità, una tensione. “DUM DUM” è questo, non è risolto, inizia in un modo strano, parte la cassa e tutto rallenta, il testo è semplice, “ficcante” e poi il finale si sfibra e ti lascia un po’ così. “Bentornato” era un pezzo più introduttivo, era più un flusso di coscienza.
Antipop l’abbiamo pensato un po’ come un manifesto. In una scena dove tutti sono alla ricerca della hit, del primo posto in classifica, possiamo dire che tu ti sei sempre trovato al polo opposto?
Sì, questa volta forse in modo più esplicito. Poi non è sempre stato così, ad esempio “L’ultima festa” era un pezzo nato facendo festa con gli amici, cazzeggiando a casa mia, poi è venuta fuori quella roba lì ed è esplosa una bomba che ha preso trasversalmente la popolazione. Però quello che volevo dire è che fare hit non è lo scopo, almeno non il mio e non dovrebbe esserlo neanche della musica. La musica non è un numerino. Se vogliamo provare a quantificare il successo, la musica vuol dire durare nel tempo, nell’immaginario collettivo, e non per forza una hit che sfonda tutto. Quello che succede attualmente quando tutti vogliono fare i numeri e millantare i dischi di platino è solo bruciarti in fretta. Alla fine bisogna vedere cosa rimane, quante di quelle canzoni rimangono. Io preferisco fare canzoni che mi rimangano attaccate addosso, il fatto di fare la hit ti schiavizza a livello musicale, perché devi cercare di capire cosa piacerà al pubblico, ma è sbagliato fare musica pensando a questo. Io al massimo mi chiedo: “la capiranno?”. Quello che cerco di fare io è di farmi capire, di portare la gente nel mio mondo musicale.
Se ripensiamo a questi mesi, la musica è stata davvero illegale, hai provato con la tua voce anche a cambiare alcune cose, facendoti promotore di importanti discorsi. Ci spieghi com’è nata questa pazza traccia dai suoni psichedelici, che sembra riassumere un po’ quest’ultimo periodo?
È un inno alle feste, a prescindere che siano legali o meno diciamo. È un dato di fatto che la musica sia diventata illegale, nel senso che è diventata un problema con la pandemia. E quindi io mi sono messo ad inneggiare l’esatto opposto. L’idea era quella di far venire voglia alla gente di organizzare o partecipare a una festicciola illegale.
Quando utilizziamo il termine “Fresco”, non lo si fa mai per caso. È una sorta di complimento assoluto. Per noi tu lo sei, forse anche troppo, per cui ci piacerebbe conoscere il segreto della freschezza di Cosmo.
[Ride] Non lo so, giuro. In realtà “Fresca” è dedicata a mia moglie. “Sei fresca” è lei, è una canzone d’amore dove non sapevo che complimento fare. Cercavo proprio di fare un pezzo che fosse fresco dal punto di vista della produzione, che avesse delle sorprese, delle novità. Ho trovato questa parola e ho pensato fosse perfetta, anche perché ogni tanto gliela dico. Personalmente cerco di tenermi fresco, ad esempio senza dirmi che a 39 anni dovrei fare l’adulto, è una cosa che fa invecchiare.
La freschezza la hanno anche i bambini, è comportarsi e pensare come un bambino, e godersi sempre tutto. È quello che cerco di fare, sono sempre dietro a organizzare momenti di convivialità, feste in famiglia, è una cosa che mi piace, che facevano anche i miei quando ero piccolo.
Forse, poi, per rimanere freschi bisogna giocare, giocare tanto e fare gli scemi, qualcosa che ci è mancato in questo periodo.
Mango invece è un pezzo super carico ma da cui traspare grande leggerezza, come un gelato in pieno agosto. Come mai Mango? Qual era l’idea di partenza del pezzo?
Allora io avevo abbozzato questa produzione con la cassa che invece di andare dritta faceva “bum bum bum”. La vera svolta però è arrivata quando mia cognata mi ha mandato un video di mio figlio Carlo che si era fatto da solo con un filtro cantando “bando dichidi bando”, esattamente con quella vocina che si sente nel ritornello. L’ho sentita e ho pensato “wow!”. Sapevo perfettamente dove inserirla. Forse lui lì stava cercando senza saperlo di imitare Anna nella canzone “Bando”.
Tutto il pezzo è dedicato a mio figlio, ci ho messo la sua leggerezza, la sua energia pazza. Senza volerlo è venuta fuori questa roba qua, giocosa, leggera, esplosiva come lui. Quello che sentite nel pezzo è Carlo Adriano Bianchi.

In Francia c’è un proverbio molto usato che dice così: “Bisogna rimettere la cattedrale al centro del villaggio”. “Cattedrale” è il 6 pezzo dell’album su 12, una coincidenza che potevamo lasciarci sfuggire. Chiaramente il proverbio ha un significato intrinseco molto grande, cioè che dopo un periodo di smarrimento poi ogni cosa tornerà al proprio posto.
Dopo 3 anni di silenzio assoluto, possiamo dire che con quest’album hai rimesso tutto al suo posto?
Sì, diciamo che in questo disco mi sento di aver fatto una bella sintesi tra il mio percorso musicale che si è trovato ad un certo punto nel pop mainstream e il mio passato underground. Dal mio punto di vista questo disco mi sembra quello più centrato su di me, a cui sono arrivato con un lavoro lungo. Poi, magari tra due anni ti dirò no quel disco no, ma adesso sento che è così.
Comunque “Cattedrale” in realtà è finita lì in mezzo, per caso. Il pezzo parla di sesso e quindi farmacia e cattedrale erano due elementi, due metafore che rappresentavano dolore e piacere, due componenti che non riesco mai a scindere. Non sono un sadico eh, mi piaceva fare un pezzo sul sesso con questi termini qui, in cui c’è un gioco, in cui si entra. Appunto, dietro la farmacia trovi la cattedrale, no?
Arriviamo adesso a “Puccy bom”. Da dove arriva questo strano titolo? E cosa vuole dirci il singolo per intero, visto in alcune parti dici: “come finirà manco Dio lo sa”.
Puccy Bom è un termine venuto fuori a caso, improvvisando, non ha un significato particolare, ma ho deciso di tenerlo perché funzionava. Mi ricordava un po’ quando chiami il gatto “Pucci Pucci”. Il pezzo poi è abbastanza politico, parla dell’organizzazione sociale, della crisi in cui si trova e delle condizioni in cui ci siamo trovati, una sorta di gabbia. “Come finirà manco Dio lo sa” è un riferimento un po’ a Fisher, a “Realismo Capitalista” e la classica frase è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Invece io ribadisco che manco Dio sa cosa accadrà in futuro, infatti il pezzo si conclude con me che bisbiglio: “ma il capitalismo bla bla bla”.
Bisogna sgombrare il futuro da qualsiasi tipo di narrazione pessimistica e aprirla alle possibilità positive. Questo significa che possiamo prenderci in mano la vita adesso e la pandemia l’ha dimostrato. Adesso si parla di modernizzare questo Paese, c’è la volontà politica di affrontare alcune cose, la sostenibilità e via dicendo. Bisogna poi vedere, bisognerà vigilare, però la bella narrazione che ci estingueremo, che va tutto male, che è tutto uno schifo si è presa una pausa.
Come l’ottava traccia andiamo per un attimo “Fuori” dal tuo album. Nelle tue storie, abbiamo visto Pan Dan, artista che ci ha colpito, adesso l’unico feat del disco è con Silvia Kostance. Cosa ci dici di loro?
Non lo sa nessuno, ma Silvia è una cantante di una band italo-spagnola che si chiama Dame Area, un gruppo fighissimo, che consiglio. Sono di Barcellona, vengono fuori dalla scena industrial, sperimentale. Mi ha subito colpito la sua voce, la sua intonazione, questa stonatura, questo modo di cantare molto viscerale, sentito.
Gundala invece è un pezzo per lasciarsi andare, per perdercisi dentro.
“Gundala” è il modo in cui mio figlio Pietro pronunciava la parola musica da piccolo. Lui diceva proprio “Gundala Gundala”. Questa parola l’avevo annotata sapendo che prima o poi l’avrei utilizzata. Questo pezzo si divide un due scene, due parti separate. La prima l’ho scritta in studio durante il primo lockdown. Praticamente, uscito di casa, stavo per attraversare e ho visto mio figlio salutarmi da dietro la finestra e mi è salito un magone tremendo a vederlo chiuso in casa, allora ho scritto questa cosa, quasi una dichiarazione d’amore per lui. Poi il pezzo cambia e la seconda scena è scritta dopo una vacanza in Trentino fatta in bicicletta. Io guardavo mio figlio pedalare di fronte a me, vedevo solo la sua nuca e mi emozionavo, mi viene da piangere anche adesso. Rivederlo che pedalava libero, mi ha molto emozionato.
Quindi la canzone si chiude così in modo indefinito, lo dice anche il testo se siete stati attenti.
L’undicesima traccia si intitola “Io ballo”. Per riprendere quello che dici nel testo: “è un ballo sulla carcassa di una società incapace di godere e di organizzarsi per essere felice”. Cosa possiamo fare per essere felici e ripartire?
La risposta è banale, ballando (ride ndr). Culturalmente quel pezzo è un riferimento al libro di un mio amico sociologo Enrico Petrilli, “Notti tossiche”, una raccolta di studi su pratiche artistiche che possono dimostrare che il ballo, il clubbing, sia una forma di micropolitica, una forma di resistenza alla soggettività in cui il corpo è il campo di battaglia. Il clubbing e certi rituali connessi possono essere uno degli antidoti di resistenza fisica diciamo a questo tipo di soggettivizzazione. Un soggetto che si scopre in qualche modo più fluido, come muove il proprio corpo, quindi nel ballo c’è una carica eversiva da non sottovalutare, è quasi pericoloso. Con il ballo metti in campo, evochi delle forze di sovreccitamento che sono difficili da contenere, fanno paura. La massa di persone sovreccitata fa paura, è un problema. E invece noi dobbiamo proprio spingerci verso quella cosa.
Arriviamo adesso a Vele al vento. È un pezzo così libero che non ci siamo sentiti di ingabbiarlo in una sola domanda, per cui ti lasciamo campo libero, introducilo tu stesso.
Vele al vento è proprio questo, dopo la conflittualità iniziale, verso la fine del disco si arriva a una sorta di pace con sé stessi e con gli alti. In Vele al vento il pensiero principale era di aprire il futuro. Ad un certo punto mi chiedo nel pezzo: “cosa facevamo 200mila anni fa?”, perché se ci pensi l’uomo esiste da tanto tempo. È un modo per chiedersi: cosa siamo davvero noi? Cosa saremo? Nella traccia volevo lasciare questa sorta di viaggio aperto, di sgombrare di nuovo il campo del futuro. Poi mi piaceva la metafora della barca perché a volte mi sento in viaggio in mare con qualcuno che capisce cosa sto provando, qualche incosciente come me che dice: “boh molliamo gli ormeggi e andiamo”. Quindi è un pezzo così, proiettato in avanti.
Purtroppo tutto ha una fine, e noi siamo arrivati alla 12 traccia, “Noi”, che chiude la terza estate dell’amore. Come mai hai deciso, dopo un bel po’ di cassa storta, di chiudere così pacificamente l’album?
Perché “Noi” è la risoluzione del conflitto, cioè nel disco sottolineo diversi punti di conflitto, critico parecchio la società, cerco di levare delle contraddizioni. Invece in “Noi” arriva l’empatia. La base da cui partire è sentirsi parte di un tutto e identificarsi con l’altro, tutto il contrario di ciò che spinge questa società. Quindi è un pezzo in cui c’è un’identificazione con tutta la natura e tutto quello che esiste. Perché alla fine il nostro corpo si dissolverà, lo fa quotidianamente anzi, perdiamo pelle, capelli o escrementi. Il nostro corpo è soltanto attraversato da un flusso di energia e di scambi con la materia che a un certo punto sarà definitivo, come lo era dall’inizio, come lo era prima di noi. Quindi, in qualche modo bisogna cominciare a sentirsi parte del tutto, la soluzione a questa crisi forse è proprio questa: cambiare rotta e passare dal conflitto a un’idea di società basata sull’empatia, perché siamo esseri empatici, e su questo non c’è un cazzo da fare.
