Dialogica: La cancellazione del ricordo nella fotografia

Dialogica: La cancellazione del ricordo nella fotografia

Laura Tota · 2 mesi fa · Photography

La cancellazione è una pratica assai diffusa nella fotografia e rappresenta uno dei modi in cui spesso questa assume il ruolo di strumento utile al superamento di un dolore o di una perdita. Cancellare una persona da una fotografia vuol dire relegarla alla damnatio memoriae, “vaporizzarla” (rubando un termine coniato a George Orwell nel suo romanzo 1984) ed eliminarne la presenza (per lo meno) dalla documentazione visiva della propria vita.
La cancellazione infatti si applica soprattutto alla fotografia vernacolare, proprio quella cui è affidato il compito di preservare il ricordo di attimi, luoghi e persone e che, in relazione a un evento traumatico, può trasformarsi in un’arma potentissima nel risvegliare dolori e sentimenti di nostalgia verso qualcosa/qualcuno che non esiste più nella propria vita.
Ma se l’atto di cancellare, deturpare, ritagliare o bruciare rappresenta in sé un processo di allontanamento, c’è chi ha trovato un modo per renderlo persino catartico.

The Unperson Project è il progetto creato dalle messicane Susana Moyaho e Andrea Tejeda K. mirato a una vera e propria realizzazione di un archivio dell’oblio. Le due artiste, attraverso un’open call, hanno invitato le persone a donare loro fotografie in cui avevano cancellato qualcuno dall’immagine: una volta ricevute, le foto vengono catalogate e hanno così la possibilità di essere ricontestualizzate diventando parte di un progetto di mostra.
Rendendo pubbliche le proprie foto, i partecipanti rinunciano al loro controllo su di esse e possono realmente prendere distanze dal soggetto vaporizzato. Non solo: la condivisione di esperienze spesso traumatiche o spiacevoli, può facilitare il loro superamento portando a una migliore comprensione ed elaborazione del dolore stesso: quanto più nello spazio fotografico il soggetto vaporizzato è assente, tanto più diventa rilevante la presenza di chi resta.
Eppure, allo stesso tempo, cancellare una presenza da una foto può voler dire anche dare forma a nuove speranze, visioni e storie. Ne è un riuscito e commovente esempio quello del progetto Jamais je ne t’oublierai, della fotografa marocchina Carolle Bénitah.

In possesso di pochissime fotografie sulla storia dei propri genitori prima del loro matrimonio, Carolle attinge a un patrimonio potenzialmente illimitato di materiale iconografico proveniente da foto recuperate in mercatini, spacci e robivecchi, trasformando le storie raccontate negli scatti in quelle della sua famiglia.
I “fantasmi” e le storie protagonisti di questi scatti, vengono nascosti sotto foglie d’oro per diventare parte del racconto della sua biografia personale: l’oro, simbolo di dimenticanza, ma anche colore per eccellenza legato alla dimensione divina, copre con delicatezza e dignità i volti per consentire a Carolle di rifuggire dall’oblio.
L’artista marocchina sceglie con cura le vecchie fotografie su cui intervenire: si tratta di scatti le cui pose e scene ricordano deja-vu familiari, momenti felici che non ricreano finzioni o menzogne, ma si ergono a simbolo universale di un passato mai posseduto.
Assenza e presenza, cancellazione ed enfasi dialogano nello stesso spazio iconografico, seppur con premesse diverse, al fine di raggiungere un unico obiettivo: la pacificazione con il passato.

Dialogica | Collater.al
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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6Ei6 “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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Ada “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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Domi “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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El camello “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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KarmaComa “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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Los Hijos del sol “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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SusieQ “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
Dialogica: La cancellazione del ricordo nella fotografia
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I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

Giorgia Massari · 4 giorni fa · Photography

La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografa Tetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista.
Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.

Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 
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20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast

20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast

Tommaso Berra · 3 giorni fa · Photography

Venezia è una città di tesori, gemme sparse per la città e custodite nei palazzi della laguna, come per esempio Palazzo Grassi, che da qualche giorno ospita una mostra che raccoglie alcune di queste gemme, 407 tra fotografia e illustrazioni provenienti dall’archivio storico di Condé Nast.
Il titolo della mostra è “CHRONORAMA. Tesori fotografici del 20° secolo” ed è la prima esposizione mondiale dedicata alle opere – recentemente acquistate dalla Pinault Collection – provenienti dagli archivi della casa editrice americana fondata nel 1909 che pubblica tra gli altri Vogue e Vanity Fair.
Nelle bellissime sale di Palazzo Grassi la selezione è divisa in decenni, partendo dal 1910 e arrivando fino al 1979, raccogliendo lo straordinario lavoro di artisti come Irving Penn, Helmut Newton, Ugo Mulas Cecil Beaton e tanti altri, che hanno saputo intuire la potenza delle immagini nel secolo che ne ha sancito l’importanza artistica e sociale.

Le immagini mostrano ovviamente fotografie di moda, ma anche di architettura, nature morte e ritratti di icone del ‘900, partendo da figure politiche come Charles de Gaulle e J.F. Kennedy arrivando ad artisti del calibro di Pablo Picasso, Igor Stravinsky o Charlie Chaplin. Tante anche le foto di figure femminili, modelle come Twiggy e Veruschka ma anche Dr. Mary Walker, attivista per i diritti delle donne che nel 1911 veniva ritratta su Vanity Fair con indosso un paio di pantaloni, una scelta insolita per l’epoca ma che racconta tanto del contesto storico di queste fotografie.
la mostra sarà aperta al pubblico fino al 7 gennaio 2024 e nel frattempo, aspettando la vostra visita, il museo ha anche realizzato “Chronorama. Istantanee dal Novecentoun podcast in tre episodi prodotto da Chora Media che accompagna il visitatore a una lettura più chiara e approfondita delle opere.

CECIL BEATON, Standing portrait of General Charles de Gaulle, 1944, Vogue © Condé Nast
CECIL BEATON, Paternoster Row, London, after bombing, 1940, Vogue © Condé Nast
TONI FRISSELL, WAAC (Women’s Army Auxiliary Corps) officers sitting under hair dryers, 1943, Vogue © Condé Nast
PAUL HIMMEL, The Isetta car parked beside the glass-stair-railed apartment Moretti, 1954, Vogue © Condé Nast
EVELYN HOFER, Frank Lloyd Wright, 1959, Vogue, © Condé Nast
JEAN HOWARD, Marlon Brando, 1951, Vogue © Condé Nast
LUSHA NELSON, Heavyweight boxing champion Joe Louis, 1935, Vanity Fair © Condé Nast
DUANE MICHALS, Two models in an office looking at negatives, 1976, Vogue, © Condé Nast
DORA KALLMUS, Tsuguharu Foujita, 1928, Vanity Fair © Condé Nast
GEORGE HOYNINGEN-HUENE, Josephine Baker, 1927, Vanity Fair © Condé Nast
GEORGE HOYNINGEN-HUENE, Igor Stravinsky seated with a hat, 1927, Vanity Fair © Condé Nast
IRVING PENN, Mr. and Mrs. Henri Cartier-Bresson, 1946, Vogue © Condé Nast
FRANCO RUBARTELLI, Veruschka, head-to-head with a cheetah, 1967, Vogue © Condé Nast
BERT STERN, Actor and director Anthony Newley playing with two models, 1963, Vogue © Condé Nast
BERT STERN, Twiggy wearing a mod minidress by Louis Féraud and leather shoes by François Villon, 1967, Vogue © Condé Nast
STRAUSS-PEYTON STUDIO, Actor Charlie Chaplin, 1921, Vanity Fair © Condé Nast
PAUL THOMPSON, Dr. Mary Walker, the first woman to wear trousers in public, c. 1911, Vanity Fair © Condé Nast
20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast
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Brice Gelot, per l’amor di Dio

Brice Gelot, per l’amor di Dio

Tommaso Berra · 2 giorni fa · Photography

Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società.
“For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista francese Brice Gelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.

Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano.
Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.

Brice Gelot | Collater.al
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
Photography
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 5 giorni fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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