Sebbene si parli sempre più di immagini create artificialmente, la fotografia analogica vive una vera e propria rinascita. Ma come differisce rispetto a quella digitale? Come si approccia un fotografo alla pellicola e come si affronta il suo processo di stampa? Ne abbiamo parlato con Mariano Doronzo, fotografo e un poeta italiano con base in Inghilterra dal 2013.
La sua ricerca fotografica inizia con la documentazione del suo viaggio personale all’interno del paesaggio e della cultura britannica con una vecchia macchina analogica. Allo stesso tempo, si specializza nell’utilizzo della camera oscura, dallo sviluppo del negativo alla stampa tradizionale in camera oscura.
Nel 2021, uno dei suoi lavori è selezionato dalla Magnum Photos per una mentorship a lungo termine con Matt Black e Susan Meiselas. Attualmente sta lavorando alla realizzazione del suo primo libro fotografico.
Scattare in analogico, quindi su pellicola, è sicuramente un modo molto peculiare di approcciarsi al mondo della fotografia. Nonostante lo sviluppo della fotografia digitale, la pellicola sembra resistere e anzi vivere una nuova giovinezza. Da autore, come motivi questa sua estrema vivacità?

È una questione di percezione, paragonabile a quello che è successo nella musica con il ritorno dei vinili. In generale, una foto digitale è più nitida, più definita e contiene più informazioni di una foto analogica, ma da molti sarà ritenuta fredda e asettica. Impressa su rullino, un’immagine conterrà meno informazioni, eppure quasi sicuramente le verrà attribuito un maggiore valore a livello emotivo. Questo accade, in primis, perché si ha a che fare con un oggetto concreto che si può toccare con mano.
In secondo luogo, la fotografia analogica non ha la stessa immediatezza del digitale. Il processo è più lungo e complesso e si è più limitati. Gli scatti non si sprecano inutilmente (soprattutto considerando il costo attuale dei rullini) e il tempo dedicato a ogni singola immagine fa sì che ogni scatto abbia un’importanza maggiore. Cosa è successo in tutto questo? Ci siamo complicati terribilmente la vita per poter ritrovare un certo senso di conquista e riuscire ad apprezzare il risultato.
C’è chi giustifica il revival analogico anche col fattore nostalgia per una questione puramente estetica. Io credo che abbia a che fare molto di più con una reazione alla maniacale ricerca della perfezione estetica (e non solo) che regna nella nostra società. L’errore, l’imprevedibilità e l’imperfezione ci ricordano invece che siamo umani, che bisogna evitare di essere schiacciati dalle aspettative di un obiettivo finale, ma soprattutto che dobbiamo imparare a godere dell’intero processo, lasciando che la vita faccia il proprio corso.


Sappiamo come spesso, di norma, nel momento in cui si voglia stampare una foto, la sua forma tangibile venga già formalizzata nella mente del fotografo: secondo te, cambia l’approccio alla stampa dall’analogico al digitale?
Idealmente, ogni fotografo – qualsiasi tecnologia utilizzi – dovrebbe avere ben in mente il risultato finale desiderato, che si tratti di una foto da stampare o da pubblicare online. La correzione a posteriori, a volte, può essere complicata e non sempre garantisce di poter ottenere quello che si è immaginato. Nella fotografia analogica anche la stampa è un processo più lungo e complicato, molto costoso e ogni cambio di parametro (persino il semplice cambio di contrasto) richiede una prova di stampa per visualizzare il risultato. Perciò si cerca di facilitare le cose intervenendo già al momento dello scatto e dello sviluppo (ad esempio utilizzando tecniche particolari come “tirare” la pellicola) in modo da minimizzare gli interventi in fase di stampa in camera oscura.
Si ritiene che (forse erroneamente) che rispetto alla fotografia digitale (e la relativa postproduzione) lo scatto in analogico permetta meno creatività o modifiche dopo lo scattto: è un preconcetto o no?
È decisamente un preconcetto! La post-produzione è sempre esistita. Un esempio (non l’unico) è quello di una foto del Partito Comunista dell’URSS nel 1934, da cui Stalin fece rimuovere uno dei membri perché in seguito considerato nemico dello stato. Si dice che col passare del tempo, sospettando di tradimento, Stalin fece rimuovere, uno dopo l’altro, anche gli altri membri del partito fino ad essere l’unico e solo membro a comparire in foto.


La camera oscura è un po’ la stanza delle meraviglie per chi stampa le proprie foto: quali sono gli strumenti imprescindibili per ottenere delle stampe ottimali? E soprattutto, quanto si può sbagliare e riprovare a stampare la stessa foto da pellicola?
Le stampe ottimali non esistono. Tutto dipende dai gusti e dalla visione personale ovvero da come si vuole rappresentare il concept di un progetto attraverso un particolare tipo o modo di stampare. Che feeling voglio trasmettere con le mie foto? È questa la domanda che cerco di chiedermi ogni volta che stampo. E ogni volta mi ritrovo a produrre stampe completamente diverse, anche da uno stesso negativo, semplicemente perché ogni giorno abbiamo uno stato d’animo diverso. Non esiste stampa giusta o sbagliata, ma diversi modi di vedere una foto.

Puoi spiegarci brevemente il processo di stampa in camera oscura? Quali consigli ti senti di dare a chi vuole costruire una sua piccola camera oscura?
Diamo per scontato di aver già sviluppato un rullino, stampato il provino a contatto (posizionando appunto i negativi sulla carta fotografica) e scelto il negativo da stampare con relativo crop. Inseriamo il negativo nell’ingranditore e ci accertiamo che la sua proiezione, sul piano dove andremo a posizionare la carta fotografica, è delle dimensioni prestabilite e perfettamente a fuoco. A questo punto, partendo da un contrasto neutro, dobbiamo calcolare il corretto tempo di esposizione per cui la foto appare come desideriamo. Per fare questo dobbiamo tagliare un foglio di carta fotografica in cinque strisce di egual misura ed esporre ciascuna di essa per un tempo diverso ad esempio 2, 4, 8, 16, 32 secondi. Sviluppiamo le strisce immergendole insieme prima nella chimica di sviluppo, poi nel bagno stop per arrestare lo sviluppo e infine nel fixer per stabilizzare l’immagine. Se una delle strisce apparirà esattamente come immaginiamo la foto allora possiamo esporre direttamente l’intero foglio al tempo corrispondente per poi immergerlo nelle tre diverse chimiche. Quindi si procede al lavaggio della stampa e infine si appende ad asciugare. Il mio consiglio è di cominciare a stampare, anche nel bagno di casa, con il minimo della strumentazione e in piccole dimensioni, almeno per far pratica con le basi. Una volta perfezionata la propria tecnica, sarà poi molto più semplice e meno dispendioso saper gestire spazi più grandi e attrezzati come quelli di un laboratorio professionale.
Nel caso ci si rivolga a laboratori professionali, quali sono i criteri di scelta principali per vedere un risultato ottimale di stampa?
La maggior parte dei laboratori professionali riesce a garantire in genere delle buone stampe. Per avere delle stampe ottimali io sceglierei in base allo stampatore che predilige uno stile più simile al look che vogliamo dare alle nostre stampe in modo che risuonino con i nostri gusti. Simile alla scelta degli studi di registrazione nella musica, benché la tecnologia garantisca una buona qualità di suono, sceglieremo lo studio affine al nostro genere per dare al nostro album un sound che rispecchi la nostra visione artistica.

Ascolta: Spigola Ep. 6 – Emanuele Ferrari