Non siamo soli e non siamo tutti uguali. Spesso tendiamo a dimenticarcelo, ci dimentichiamo che esistono comunità e luoghi sopravvissuti alla forza dirompente della globalizzazione, che uniforma e appiattisce ogni aspetto della società.
Gabriele Zago è un fotografo italiano che ha concentrato il suo lavoro proprio sulla ricerca e la documentazione di gruppi etnici, territori e popolazioni che, sebbene minacciati da ciò che noi definiamo progresso, riescono a preservare tradizioni, usi, costumi e valori.
Ciò che Gabriele ci offre è un viaggio in territori lontani che, tra sguardi che raccontano mille storie, ha l’obiettivo di farci conoscere cosa accade nel mondo e farci scoprire realtà distanti dalla nostra e per questo dall’immenso valore.
La fotografia di Gabriele Zago è scoperta e testimonianza al tempo stesso, grazie alla quale veniamo trasportati tra le tribù africane, o addirittura in Papua Nuova Guinea dove ha realizzato il suo ultimo progetto dal titolo “Colors still remain”.
Gli scatti di questo progetto potrete vederli dal vivo dal 27 novembre a Torino, dove Gabriele esporrà per Ph.ocus – About photography nella sezione “Please, Take Care”.

Aspettando l’inizio della mostra, noi ci siamo fatti raccontare meglio il suo lavoro. Non perderti l’intervista qui sotto!
Come ti sei avvicinato alla fotografia?
Ho una formazione artistica tradizionale, sono cresciuto attraverso il disegno a mano libera e quindi con un linguaggio più accademico, ma sono sempre stato interessato alle arti visive in tutte le sue declinazioni. È stato però grazie ai miei viaggi se ho trovato nella fotografia il mezzo espressivo che più mi rappresenta. Quando ho la fortuna di esplorare nuovi territori ed entrare in contatto con situazioni inedite mi sento in dovere di immortalare quei momenti già sapendo che quella fotografia non descriverà solo un istante, ma sarà l’inizio di un processo che si evolverà in qualcosa di nuovo.
Con le tue fotografie ci porti in luoghi lontani come l’Etiopia, il Madagascar, il Benin. Di quali storie vai alla ricerca? Quali storie vuoi raccontare?
La mia ricerca si concentra sul documentare fotograficamente etnie, territori e popolazioni minacciati oggi dal progresso e dalla globalizzazione. Le fotografie che utilizzo per i miei progetti nascono prevalentemente da esperienze di viaggio.

Scelgo mete che possano arricchire la mia cultura e che mi mettano alla prova, non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Cerco tematiche spesso poco conosciute in Occidente per rendere il mio lavoro uno strumento di diffusione e informazione. ll mio scatto non vuole pertanto descrive il soggetto, ma porta alla luce la realtà che il soggetto stesso è costretto ad affrontare.
Sono particolarmente affascinato e stimolato dal continente africano, ma ho avuto la possibilità di visitare tutti e 5 i continenti alla ricerca di spunti creativi. Da uno dei più recenti viaggi, quello in Papua Nuova Guinea, trae ispirazione il progetto “Colors still remain” che espongo quest’anno nell’ambito di Ph.ocus – About photography di Paratissima, presentato per la prima volta dalla Galleria Ferrero Arte Contemporanea di Ivrea.
Che ruolo ha la post-produzione nel tuo processo creativo?
I miei lavori nascono come scatti di reportage, ma la post-produzione è elemento fondante della mia espressione artistica.
La manipolazione delle mie fotografie attraverso espedienti grafici mostra, in maniera evidente ed enfatizzata, quei processi socio-politici che spesso non sono visibili o non raggiungono la nostra realtà. Non si tratta solo di fotografie, ma di scatti che restituiscono chiaramente a tutti un processo di modificazione, stravolgimento e alienazione subiti dai soggetti e dal territorio in cui vivono.
È scontato dire che durante i viaggi hai a disposizione un’attrezzatura molto differente da quella che ha un fotografo in studio. Qual è, secondo te, l’attrezzatura necessaria per questo tipo di fotografia?
Durante i miei viaggi di reportage viaggio sempre estremamente leggero, il più delle volte con un solo bagaglio a mano. Questo determina anche il volume dell’attrezzatura che porto con me. Viaggio sempre con la mia inseparabile reflex e con un paio di obiettivi che possono servirmi in funzione delle situazioni in cui mi trovo. Mi piacerebbe portare con me una scelta di lenti più ampia, ma a causa delle condizioni estreme in cui spesso mi trovo, risulterebbero solo d’intralcio. Non trattandosi di foto posate, risulterebbe molto difficile cambiare obiettivo in base alla situazione, con il rischio di perdere l’attimo. In alcuni casi anche lo smartphone mi è stato d’aiuto per immortalare alcune situazioni che richiedevano maggiore discrezione!
Il supporto tecnico per me ha un ruolo secondario in quanto il fulcro della mia ricerca non è tanto lo scatto tecnicamente perfetto quanto la restituzione grafica che ne deriva.
C’è uno scatto che è stato particolarmente complicato realizzare? Raccontacelo.
Devo ammettere che ogni volta che mi trovo in situazioni di reportage la difficoltà più grande da superare è proprio la tensione di non riuscire ad ottenere lo scatto “giusto”. I miei viaggi mi portano a entrare in contatto con realtà talmente rare e uniche che è quasi sempre difficile immortalarle in maniera obiettiva.
I motivi di queste “difficoltà” possono essere i più disparati, dalla diffidenza delle persone, alle differenze culturali e ai tabù religiosi, senza trascurare spesso le avversità delle condizioni atmosferiche e geografiche. Spesso raggiungere le tribù più remote mi ha costretto ad intraprendere anche faticose traversate di più giorni in canoa sotto il sole cocente o pericolose tempeste.
Ad esempio, presso molte tribù africane la fotografia viene vista come uno strumento che ruba l’anima; in alcune zone remote del Nord del Vietnam ancora fortemente soggiogate dalla Guerra, lo zoom della fotocamera spaventa come un’arma; in Benin, la fotografia può diventare strumento di ricatto nel voodoo; in Papua Nuova Guinea molte tribù non hanno la minima percezione del motivo per cui la loro immagine debba essere intrappolata dentro una scatola nera.

In tutte queste situazioni riuscire a fotografare in modo naturale il soggetto risulta molto difficile e spesso ho dovuto rinunciare a scattare per rispettare la cultura con la quale mi misuravo.
Ricollegandomi al progetto “Colors still remain”, una grande difficoltà è stata rappresentata anche dalla stessa natura socio-politica e geografica della Papua Nuova Guinea, un territorio molto instabile e pericoloso in cui la bellezza delle tribù e dei loro rituali si mischia alla violenza e alle guerriglie che quotidianamente bisogna affrontare e accettare per poter avvicinare queste incredibili comunità.
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