Kevin Van Aelst è un artista e fotografo americano che sembra aver compreso appieno la filosofia e le esperienze dei movimenti artistici Neo-Dada e Surrealista.
Van Aelst crea delle reinterpretazioni visive utilizzando oggetti banali, chiedendo allo spettatore di completare e ri-valutare la sua comprensione del soggetto.
Come ci ha insegnato Carlo Giulio Argan, il bello nell’arte non esiste più da tempo, è una categoria morta. Negli ultimi due secoli gli artisti hanno spostato la loro ricerca verso altro, verso l’astrazione o il movimento, lo studio delle forme o quello dei materiali, dello spazio, della luce. L’arte è diventata anti-arte e concetto. Gioco e metafora.
È con questo che si confronta Van Aelst.
Le sue opere (come quelle di Sarah Illenberger, Nancy Foutes e Ron Ulcunny) sono dissacranti, provocatorie, ironiche. I suoi sono abbinamenti per contraddizione, che creano una situazione di paradosso, un controsenso. O trasformano il senso, provocando un’accelerazione di significato. La funzione originaria degli oggetti è smarrita e ritrovata sotto una forma diversa. Una logica associativa e metonimica regola le sue trovate, e così un nastro di misurazione si trasforma in un tratto di strada, un rotolo di nastro adesivo in un oceano, gocce di pioggia sul parabrezza formano un aeroplano e della senapa per un sandwich disegna un enorme impronta digitale.
Realtà rimane solo una parola in grado di soffocare l’immaginario.