Cinque muse d’artista con un nome e una storia

Cinque muse d’artista con un nome e una storia

Giorgia Massari · 4 settimane fa · Art

La figura della donna è uno dei soggetti più ricorrenti nella storia dell’arte: dalle statuine della fertilità preistoriche alle statue greche di divinità dalla bellezza codificata, dai ritratti di regine e dame a opere pittoriche cariche di emotività. Ma chi sono queste donne? Come si chiamano? E qual è la loro storia? Spesso erano parte della famiglia del pittore, mogli, madri, figlie o sorelle, o altrettanto spesso erano amanti oppure soltanto modelle. Le muse giocavano un ruolo chiave all’interno delle vite degli artisti, in molti casi determinandone il successo, tuttavia costrette a rimanere nell’ombra.
In occasione della Giornata internazionale della donna, abbiamo scelto 5 figure femminili, con storie particolari e uniche, legate al lavoro di grandi artisti come Edward Hopper, Alberto Giacometti, Oskar Kokoschka, Sandro Botticelli e Alberto Modigliani.  

Josephine Verstelle Nivison: pittrice di talento che visse infelice per il marito Edward Hopper

C’è solo un ritratto di Josephine Verstelle Nivison fatto dal pittore realista Edward Hopper ed è intitolato Joe painting, ma solo dal titolo sappiamo che la donna stava dipingendo.
Quando Joe e Edward si incontrarono era lei ad essere un’artista affermata nella cerchia newyorkese, ma dopo il matrimonio venne esclusa da tutto. A Hopper pesava la fama della Verstelle Nivison e per questo le spense ogni scintilla e ogni ambizione. Agli inizi della loro relazione, fu proprio lei ad incoraggiare l’insicuro compagno a passare dalle incisioni agli acquarelli, convincendo anche il Brooklyn Museum a visionare le opere di Hopper. Da quel momento, Joe venne ignorata e Hopper celebrato.

Hopper soffrì per tutta la vita il confronto con la moglie tanto da sentire il bisogno di controllare qualsiasi sua scelta e azione, le vietò di guidare così come di nuotare. La stessa artista in uno dei suoi diari scrisse: “Grazie a dio avevo imparato a leggere a scrivere prima di diventare sua moglie, altrimenti avrebbe cercato di negarmi anche questa conquista universale. Perché è cosi spietatamente competitivo? Perché devo sempre essere io quella da battere?
Nonostante lui denigrasse lei e la sua pittura, Joe lo confortava nei momenti di insicurezza, lo aiutava a trovare i titoli – come per il famosissimo Nighthaws. Joe era la modella di tutte le sue opere, anche quelle più erotiche, come nel caso di Girlie Show, per cui all’età di quasi sessant’anni posò completamente nuda sui tacchi. Hopper non le lasciò neanche l’orgoglio di essere ritratta per com’era, infatti, come in molte altre opere in cui compare (Morning in a City, A Woman in the Sun e Summertime) il suo corpo veniva snaturato dal marito, che ne allungava le proporzioni e ne ingrandiva il seno.  

Lettura consigliata: Edward Hopper. Biografia Intima scritta da Gail Levin partendo dai diari di Joe Nivison. La moglie infatti non si ribellò mai, subì per tutta la vita, sfogandosi suoi suoi innumerevoli diari.

Yvonne Poiraudeau (conosciuta come Caroline): la prostituta ultimo amore di Alberto Giacometti

Alberto Giacometti ha ormai cinquantasette anni e da due anni attraversa una crisi artistica, si trova a Parigi e qui incontra Yvonne Poraudeau, una prostituta appena ventenne conosciuta con il nome di Caroline. La sua bellezza e la sua raffinatezza colpiscono l’artista, che se ne innamora perdutamente, nonostante Giacometti fosse già sposato e frequentasse altre amanti. Tra i due nasce una relazione passionale e folle, Caroline diviene la sua compagna di avventure, nonché modella e musa.

L’incontro con Yvonne Poriaudeau segna l’inizio dell’ultimo periodo artistico di Giacometti, quello degli “ultimi ritratti”: l’artista dipinge infatti una trentina di ritratti della giovane donna, tra cui quello del 1965 intitolato Caroline e conservato al Museo d’arte moderna di Parigi.
A Giacometti non importava che lei vendesse il suo corpo e neppure che rubasse, facendo piuttosto i salti mortali per tirarla fuori dal carcere. Caroline faceva rivivere all’artista la sua giovinezza, portandolo per le vie della Parigi notturna, che Giacometti tradusse in 150 litografie presenti nel libro Parigi senza fine.
Anche Caroline finì per innamorarsi perdutamente di Alberto che, nonostante l’amore per la giovane donna, non lasciò mai la moglie Annette. Poco dopo, Giacometti si ammalò di cancro e sul punto di morte allontanò la moglie, chiamando a sé Caroline, l’ultima a stringergli la mano.

Lettura consigliata: L’ultima modella di Franck Maubert che racconta fedelmente le parole di Caroline, l’ultimo amore di Alberto Giacometti, incontrata dallo scrittore quando, ormai anziana, viveva in un appartamento a Nizza

Alma Maria Schindler: la sposa del vento di Oskar Kokoschka

All’inizio del Novecento a Vienna è Alma Maria Schindler ad essere la più bella donna della città. Figlia di un pittore e di una cantante, a soli diciassette anni divenne la “Giuditta di Klimt. Compositrice e donna di grande cultura, dopo il primo matrimonio, incontrò ad un pranzo l’allievo di Klimt Oskar Kokoschka.
Lei quasi trentaduenne e ancora bellissima, lui appena ventiquattrenne, magro, alto, con gli occhi leggermente strabici e la testa rasata. Oskar stava passando un periodo di blocco artistico e per stimolarlo il patrigno di Alma commissionò al giovane pittore un ritratto della figlioccia. Da quel momento in poi Kokoschka divenne completamente ossessionato dalla ragazza. Nel periodo tra i due matrimoni di Alma, il primo con il compositore Gustav Mahler e il secondo con Walter Gropius, i due furono amanti passionali, ma più il tempo passava e più cresceva la gelosia di Oskar nei suoi confronti. 
Kokoschka sviluppò un rapporto morboso con lei, tant’è che in soli due anni dipinse Alma in 400 opere, tra tele e disegni. L’artista voleva sposarla a tutti i costi ma la sua risposta fu: “Ti sposerò quando dipingerai un vero capolavoro”. Oskar prese una tela enorme e nel 1914 iniziò a lavorare a quello che diventerà il suo vero capolavoro: La sposa del vento. Alma riconobbe la grandiosità del dipinto, ma non mantenne la parola: non lo sposò e scomparve. L’ultimo dipinto che la raffigura è Donna in Blu (1919) conservato alla Staatsgalerie di Stoccarda.

Lettura consigliata: Alma Mahler. O l’arte di essere amata di Francoise Giroud

Simonetta Cattaneo Vespucci: la Venere di Botticelli 

Simonetta Cattaneo Vespucci è stata una bellissima donna rinascimentale, canone di bellezza e una delle figure più riconoscibili nella storia dell’arte. È infatti la musa e soggetto della celebre opera di Sandro Botticelli La nascita di Venere, conservata oggi alle Gallerie degli Uffizi di Firenze.
Genovese di nascita, nobile e moglie di Marco Vespucci, il cugino del celebre Amerigo, il suo rapporto con Botticelli nasce proprio grazie alla famiglia del marito, protettori del pittore rinascimentale. Probabilmente Sandro e Simonetta non ebbero alcun tipo di rapporto amoroso anzi, la giovane donna morì tragicamente all’età di ventitré anni e da quel momento in poi divenne oggetto di venerazione da parte dei poeti di Firenze.

A Botticelli venne dato il compito di renderla immortale, di trasformarla nella donna ideale. La figura di Simonetta è presente in molte delle sue opere: dalla più celebre Nascita di Venere alla Venere pudica, diventando volto anche della Vergine Maria in Madonna della melagrana e in Madonna del Magnificant, oltre alle molte illustrazioni della Divina Commedia dedicate a Beatrice e ad opere meno conosciute come Ritratto ideale di dama del 1475.

Lettura consigliata: L’ultima rosa di aprile. Simonetta Cattaneo Vespucci, la Venere di Botticelli di Simona Bertocchi, un romanzo che traccia il profilo della musa fiorentina 

Jeanne Héburterne: l’amore travagliato di Amedeo Modigliani

Amedeo e Jeanne si conoscono nel 1917 all’Académie Colarossi di Parigi. Entrambi artisti, lei ha diciannove anni, lui trentatré ed è ancora tormentato dal precedente amore con Beatrice Hastings. Si dice che Jeanne fosse timida e malinconica ma incredibilmente talentuosa, lui invece alcolizzato, drogato e malato di tubercolosi. I due finirono comunque per innamorarsi perdutamente e vissero una storia d’amore lunga tre anni, che li portò entrambi alla morte.

Le condizioni di Amedeo non gli rendevano facile esprimere i sentimenti per lei, affidati così ai suoi dipinti. Modigliani dipinse più di venti ritratti di Jeanne, raffigurata in ogni modo: a mezzo busto, frontalmente, di profilo, con il cappello o con la sciarpa. Uno degli elementi distintivi delle opere di Amedeo Modigliani è l’assenza di pupille delle donne che ritraeva, anche nelle prime opere che ritraggono Jeanne le pupille non sono disegnate, salvo comparire in una seconda fase, a questo proposito il pittore affermava: “Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi”.

Ebbero una figlia che Modigliani non riconobbe mai, la vita sregolata del pittore finì per influenzare anche Jeanne che, dopo un improvviso peggioramento della salute di Alberto e della sua conseguente morte, si suicidò incinta e appena ventunenne, buttandosi dal quinto piano di un palazzo. Sepolti insieme nel cimitero Père Lachaise di Parigi, sulla lapide di lei si legge: “Jeanne Hébuterne compagna devota di Amedeo Modigliani fino all’estremo sacrifizio”.

Lettura consigliata: Di schiena. Jeanne Hébuterne senza Modigliani di Anna Burgio

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I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

Giorgia Massari · 4 giorni fa · Photography

La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografa Tetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista.
Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.

Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 
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20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast

20 foto bellissime dall’archivio storico di Condé Nast

Tommaso Berra · 3 giorni fa · Photography

Venezia è una città di tesori, gemme sparse per la città e custodite nei palazzi della laguna, come per esempio Palazzo Grassi, che da qualche giorno ospita una mostra che raccoglie alcune di queste gemme, 407 tra fotografia e illustrazioni provenienti dall’archivio storico di Condé Nast.
Il titolo della mostra è “CHRONORAMA. Tesori fotografici del 20° secolo” ed è la prima esposizione mondiale dedicata alle opere – recentemente acquistate dalla Pinault Collection – provenienti dagli archivi della casa editrice americana fondata nel 1909 che pubblica tra gli altri Vogue e Vanity Fair.
Nelle bellissime sale di Palazzo Grassi la selezione è divisa in decenni, partendo dal 1910 e arrivando fino al 1979, raccogliendo lo straordinario lavoro di artisti come Irving Penn, Helmut Newton, Ugo Mulas Cecil Beaton e tanti altri, che hanno saputo intuire la potenza delle immagini nel secolo che ne ha sancito l’importanza artistica e sociale.

Le immagini mostrano ovviamente fotografie di moda, ma anche di architettura, nature morte e ritratti di icone del ‘900, partendo da figure politiche come Charles de Gaulle e J.F. Kennedy arrivando ad artisti del calibro di Pablo Picasso, Igor Stravinsky o Charlie Chaplin. Tante anche le foto di figure femminili, modelle come Twiggy e Veruschka ma anche Dr. Mary Walker, attivista per i diritti delle donne che nel 1911 veniva ritratta su Vanity Fair con indosso un paio di pantaloni, una scelta insolita per l’epoca ma che racconta tanto del contesto storico di queste fotografie.
la mostra sarà aperta al pubblico fino al 7 gennaio 2024 e nel frattempo, aspettando la vostra visita, il museo ha anche realizzato “Chronorama. Istantanee dal Novecentoun podcast in tre episodi prodotto da Chora Media che accompagna il visitatore a una lettura più chiara e approfondita delle opere.

CECIL BEATON, Standing portrait of General Charles de Gaulle, 1944, Vogue © Condé Nast
CECIL BEATON, Paternoster Row, London, after bombing, 1940, Vogue © Condé Nast
TONI FRISSELL, WAAC (Women’s Army Auxiliary Corps) officers sitting under hair dryers, 1943, Vogue © Condé Nast
PAUL HIMMEL, The Isetta car parked beside the glass-stair-railed apartment Moretti, 1954, Vogue © Condé Nast
EVELYN HOFER, Frank Lloyd Wright, 1959, Vogue, © Condé Nast
JEAN HOWARD, Marlon Brando, 1951, Vogue © Condé Nast
LUSHA NELSON, Heavyweight boxing champion Joe Louis, 1935, Vanity Fair © Condé Nast
DUANE MICHALS, Two models in an office looking at negatives, 1976, Vogue, © Condé Nast
DORA KALLMUS, Tsuguharu Foujita, 1928, Vanity Fair © Condé Nast
GEORGE HOYNINGEN-HUENE, Josephine Baker, 1927, Vanity Fair © Condé Nast
GEORGE HOYNINGEN-HUENE, Igor Stravinsky seated with a hat, 1927, Vanity Fair © Condé Nast
IRVING PENN, Mr. and Mrs. Henri Cartier-Bresson, 1946, Vogue © Condé Nast
FRANCO RUBARTELLI, Veruschka, head-to-head with a cheetah, 1967, Vogue © Condé Nast
BERT STERN, Actor and director Anthony Newley playing with two models, 1963, Vogue © Condé Nast
BERT STERN, Twiggy wearing a mod minidress by Louis Féraud and leather shoes by François Villon, 1967, Vogue © Condé Nast
STRAUSS-PEYTON STUDIO, Actor Charlie Chaplin, 1921, Vanity Fair © Condé Nast
PAUL THOMPSON, Dr. Mary Walker, the first woman to wear trousers in public, c. 1911, Vanity Fair © Condé Nast
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Brice Gelot, per l’amor di Dio

Brice Gelot, per l’amor di Dio

Tommaso Berra · 2 giorni fa · Photography

Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società.
“For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista francese Brice Gelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.

Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano.
Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.

Brice Gelot | Collater.al
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 5 giorni fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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