A vent’anni dalla loro uscita, le Nike TN tornano con Legacy of Disobbedience, un progetto nato dalla collaborazione tra Tedua, uno dei trapper più attivi della scena italiana, e il fotoreporter Gabriele Micalizzi.
La campagna, realizzata in una settimana tra Milano e Genova, ha richiesto al fotoreporter un periodo di preparazione lungo tre mesi, utilizzando lo stesso approccio che è solito avere durante i suoi viaggi in zone di guerra. L’obiettivo era quello di restituire in tutta la sua interezza l’immagine di una scarpa che, negli anni, è diventata un’icona della gioventù urbana, degli artisti di periferia e oggi rappresenta un’intera generazione mossa da una strana energia, simbolo di una disobbedienza positiva.
La coppia Tedua/Micalizzi si rivela fin da subito sorprendentemente affiatata e, oltre alla loro bravura, è anche grazie a questa alchimia che il progetto è di un’affascinante bellezza. Il trapper e il fotografo condividono un background simile, una storia difficile e la voglia di fare di Tedua, la sua fame, è la stessa che ha portato Micalizzi dove è oggi, rappresentando una speranza per il futuro.
“Il futuro è in mano ai deboli che si sono fatti coraggio”.
Noi li abbiamo incontrati alla Leica Galerie in via Mengoni, 4, Milano e ci siamo fatti raccontare questa fantastica collaborazione.
Come e quando nasce la tua passione per la fotografia? Ci sono stati degli incontri particolari durante il tuo percorso che hanno influito sulla scelta di diventare un reporter di guerra?
La mia passione per la fotografia nasce quando da ragazzino facevo i graffiti, mi è sempre piaciuta l’idea di lasciare il segno, di sporcare, di vandalizzare. A quel tempo avevo la necessità di fotografare questi graffiti perché poi i treni su cui li realizzavano andavano via, partivano, quindi per averne il ricordo ho cominciato a fotografare.
Poi ho frequentato un liceo artistico dove, ho scoperto, c’era una camera oscura. Quando sono entrato, ho visto questo processo alchemico dove tiravano fuori queste stampe, dove si creava la fotografia che usciva dallo sviluppo e sono rimasto folgorato.
È un linguaggio incredibile, anche perché io sono una persona molto impaziente e vista questa mia impazienza mi scocciavo subito, non avevo voglia di ripensare, di rimettermi a fare le cose, anche quando disegnavo e facevo tatuaggi spesso pensavo già al disegno successivo. La fotografia mi permetteva di incanalare tutta la mia energia nello scatto e di fare una cosa molto difficile, fissarla e riportarla in maniera molto pratica. È stato quello il momento in cui ho deciso che la fotografia sarebbe stato il mezzo che avrei usato, il mio linguaggio.
Poi da lì ho fatto quei dieci metri che c’erano dalla camera oscura alla biblioteca della scuola e ho visto questi cataloghi francesi con tutti i più grandi reporter, da Robert Capa a Don McCullin. Ero molto affascinato perché io non avevo mai viaggiato e vedere questi posti esotici e lontani mi ha fatto pensare di voler fare questo mestiere, di voler vivere in prima persona quelle emozioni. Così, una settimana dopo il diploma sono andato a lavorare in un’agenzia qua a Milano, dove facevo lo scattino, ovvero andavo col motorino a fare tutte quelle foto che nessuno voleva fare, tipo l’incidente a ponte Lambro alle nove e mezza e quelle cose lì. Lì ho imparato un po’ il mestiere, a sgomitare, a entrare ovunque, a non chiedere il permesso, quella è stata un po’ la gavetta, poi ho iniziato a viaggiare un po’ per il mondo, sono andato in Australia, in Indonesia dove ho vissuto per un periodo. Poi ho avuto la grande occasione di lavorare in questo studio con Alex Majoli che è il mio mentore ed è un fotografo della Magnum e da lì ho fatto cinque anni con lui. Successivamente ho cominciato a fare reportage, andare in giro per guerre, conflitti… e poi ho incontrato Mario.
Rimanendo sull’argomento reportage, il primo è stato in Afghanistan nel 2009. Com’è stata come esperienza?
Sì, lì io mi aspettavo Apocalypse Now e invece no, però è stato interessante perché ho comunque imparato le cose base. Ad esempio, una volta ho fatto una foto a un soldato, gli sono andato davanti durante un pattugliamento e quando gli faccio le foto vedo che mi fa in francese, “ma sei matto, non puoi andare lì, non puoi superare la linea in cui sono io, ci sono le mine qua”. Questo è stato il primo insegnamento della guerra. Dopo sono andato a Bangkok dove ho vissuto sei mesi e ho fatto le camicie rosse, poi sono passato alle primavere arabe, ho cominciato con la Tunisia, l’Egitto, la Libia e non mi sono più fermato. Ho iniziato a lavorare con i magazine grossi, come il New York Times e il New Yorker e da lì si si sono aperte molte porte.
Come si riesce ad avere la fermezza e la lucidità per scattare una foto mentre intorno a te c’è letteralmente la guerra?
Innanzitutto la macchina fotografica è un filtro tra te e la realtà e poi comunque sei lì perché in questo grande teatro della guerra tutti hanno un ruolo, anche il reporter e il giornalista ne hanno uno. Ognuno è lì per un motivo e l’unico motivo per cui io sono in mezzo a una guerra è che devo fare le foto. Quindi anche quando a un funerale una madre piange cinque figli morti io sono lì per fotografarlo e devo fotografarlo.
Per quanto riguarda la questione del filtro, la macchina fotografica è sicuramente uno spunto non per darti delle risposte, ma è qualcosa che dà la possibilità di farti delle domande. Grazie alla macchina fotografica tu cominci a guardare la realtà in maniera diversa perché sei più attento, devi comunque incorniciare una situazione e nonostante sia emotivamente forte riesci comunque a chiudere i momenti in questa cornice. In ogni caso, però, la guerra ti lascia dei segni, ad esempio ho perso tante persone, tra cui un amico carissimo. È un lavoro che dà sia gioie che dolori.
La realtà che fotografi è molto distante da quella dei talent televisivi, eppure nel 2016 hai non solo partecipato, ma anche vinto la prima edizione di Master of Photography, come è stata questa esperienza?
In realtà ho partecipato perché avevo bisogno di soldi, perché fare questo lavoro costa, in quel periodo in particolare avevo bisogno di soldi per finire un progetto sulla Libia.
Inoltre ero appena arrivato secondo al Carmignac Photojournalism Award, che è uno dei premi più importanti al mondo e ci sono rimasto molto male perché hanno premiato un fotografo che taroccava le foto. E in quel periodo una ragazza mi ha consigliato questa roba in televisione con in palio 150k e così ho mandato un video e il giorno dopo mi hanno chiamato. Una volta in gara mi sono talmente convinto che avrei vinto che alla fine è successo. È andata così e devo dire anche grazie a Leica che era sponsor di questa manifestazione e che in un momento di indecisione mi hanno detto che alla fine avrei dovuto fare delle foto e ci stava, nel senso io non sono un meccanico, sono un fotografo e faccio un contest di fotografia. Tutti erano contro questa cosa perché i miei colleghi mi dicevano che dovevo fare solo le foto di reportage, però erano tutte persone altolocate, con delle basi economiche forti e a me questa esperienza ha dato la possibilità di avere un capitale da investire.
Quest’anno, in occasione della riedizione delle Nike Air Max Plus, tu e Tedua avete collaborato alla realizzazione di questo progetto. Vi conoscevate già e come è stato lavorare l’uno con l’altro?
Tedua: No, non ci conoscevamo, ma abbiamo scoperto dopo di avere delle amicizie in comune ed è stato subito, così a primo impatto, bello per noi lavorare insieme perché siamo due persone sciolte, socievoli, aperte, è stato come quando due che non si conoscono prendono confidenza subito.
Avete scattato la campagna tra le strade di Genova e Milano, cosa rappresentano queste due città per voi?
Tedua: Per me sono due lati della stessa medaglia. Genova, per quel che mi riguarda, è il mare di Milano, a un’ora e un quarto di distanza, anzi a un’ora da casello e casello, da Famagosta all’uscita del casello andando a 160km/h è esattamente un’ora. Ho sempre detto che è come andare da Roma est a Ostia lido incontrando un pochino di traffico, la concezione è quella. La grande frase di battaglia che io dico è che Genova insegna il contenuto e Milano la forma, quindi l’una non potrebbe esistere senza l’altra, o comunque esisterebbe ma perdendo valore.
Gabriele: Alla fine Genova è molto più profonda, ha dei contenuti molto forti…
Tedua: Un tessuto sociale.
Gabriele: Sì, un tessuto sociale, il concetto di comunità e anche i vicoli sono un mondo a parte, ci sono tante realtà, invece Milano è molto più concetto che forma è l’unica città in Italia che è molto europea.
Tedua: Per l’Italia è Europa per l’Europa è Italia.
Gabriele: È molto contaminata, è molto dinamica e questa cosa ti dà tanta spinta, c’è frenesia e poi penso che Milano sia in un momento molto particolare a livello storico, sta cambiando tutto e si vede, c’è fermento artistico, nascono le novità e comunque il rap, quando lo ascoltavo io negli anni ’90 con altri 20 sfigati del centro sociale, adesso conta invece persone come Tedua che sono riuscite a portarla all’estero, è una cosa nuova.
Da quando ha fatto il suo ingresso nel mercato la Nike TN è diventata il simbolo della gioventù urbana e degli artisti di periferia, legata a un concetto di disobbedienza positiva. In quali aspetti del progetto con Nike ritroviamo questo concetto di disobbedienza positiva?
Gabriele: Innanzitutto nella scelta di Mario. Lui calza a pennello perché ha una storia forte, ha un contenuto forte, ma non lo ostenta nei suoi testi, anzi parla sempre con molto rispetto delle cose, invece se guardi molti suoi colleghi hanno questo modo di ostentare qualsiasi cosa. Quindi anche l’obiettivo della campagna era quello di veicolare tutto questo, cercare di utilizzare un’idea positiva. Puoi anche vivere in una situazione disagiata ma il tuo training di vita, il tuo percorso ti dà l’esperienza per diventare qualcos’altro, ed è questa la cosa importante. Ci ritrovo anche il concetto di TN, la cosa interessante è questa, è sempre stata una scarpa legata e usata in un underground, anche ai tempi quando tutti la volevamo e andavamo alle giostre a picchiarci, alla fine sì è stata una scarpa un po’ dell’underground popolare e lo è ancora, ma se guardi adesso, prendendo anche come esempio Mario, questo richiamare gli anni ’90 che noi li abbiamo visti, li abbiamo vissuti, loro li vedono in un altro modo perché ovviamente il passato ha un filtro che è il tuo ricordo, invece la sua generazione ha preso spunto ma non ha visto quello che abbiamo visto noi, quindi riesce a veicolare in maniera perfetta le cose positive.
Tedua: Sì, poi la nostra generazione è a cavallo, io ho avuto un fratello dell’87 che mi ha fatto vivere il primo gameboy e anche le prime Nike tamarre.
Gabriele: Esatto, volevamo utilizzare le TN per trasmettere dei valori. Io credo che una scarpa possa diventare un simbolo. Faccio questo esempio, io sono 10, 12 anni che faccio guerra e in tutte le guerre vedevo questa maschera di V per Vendetta che usa anche Anonimus, che è diventato in un film molto anarchico e i contenuti della pellicola sono stati veicolati attraverso una maschera. Ecco se pensiamo alla TN è la stessa cosa, cioè una scarpa può essere davvero il veicolo di messaggi positivi.
Tedua: Vorrei aggiungere che quando hanno scelto me è perché sono fuori dai cardini attuali, lontano dal luogo comune dell’artista trap. Provano a etichettarmi seppur la scena non riesca ancora a capirmi. C’è quindi una specie di disobbedienza da parte nostra nel voler stare al di fuori dei canoni ma riuscendo comunque a fare un lavoro con un senso.
Ultima domanda, avete in mente già altri progetti di cui potete parlarci?
Tedua: Io è da 3 anni che ci sto riuscendo e proseguirò così, il mio unico interesse è spaccare meno di domani e più di ieri. Basta, non ho altri interessi, per ora sto continuando, migliorandomi, dal saper l’inglese, al sapere cantare meglio, dal saper suonare uno strumento, al modo in cui mi pongo, migliorare la mia comunicazione perché comunque il dono della sintesi è un’arte e soprattutto fare musica che rimane e rimanere una colonna portante, un personaggio emblematico, un’icona per la mia generazione e quelle che verrano.
Gabriele: Io torno nel mio mondo, andrò in Libia e forse farò una storia su Milano.