“Forever Valentino”, la mostra che celebra la legacy della maison

“Forever Valentino”, la mostra che celebra la legacy della maison

Andrea Tuzio · 5 mesi fa · Style

In occasione del Qatar Creates, il Qatar Museum e Maison Valentino presentano “Forever Valentino”, un’importante mostra che omaggia il suo fondatore Valentino Garavani e la sua inestimabile legacy di eccellenza nell’Haute Couture, ancora tutta da scoprire e riscoprire.

Presso l’M7, l’hub del design e dell’innovazione di Msheireb, Downtown Doha, oggi è stata inaugurata – resterà aperta al pubblico fino al 1 aprile 2023 –  “Forever Valentino”, un’esplorazione dei codici Haute Couture della Maison e un viaggio attraverso Roma, la casa di Valentino, il luogo in cui tutto è iniziato e a cui appartiene la sua identità. 

La più grande mostra della Maison fino ad oggi e la sua prima presentazione in assoluto in Medio Oriente, arriva in concomitanza con il 90° compleanno di Valentino Garavani e con la presentazione della collezione Valentino Haute Couture Autunno/Inverno 2022 nel cuore di Roma.
La mostra è concepita come una vasta panoramica della storia della Maison, inserita in una scenografia che evoca la Città Eterna, che è stata la casa di Valentino fin dalla sua fondazione nel 1959.

L’esposizione costruisce un’immagine onirica della città di Roma, guidando gli spettatori dentro e fuori da palazzi, piazze e cortili, consentendo al contempo l’accesso esclusivo a spazi appartati e intimi come i celebri Atelier Valentino, gli archivi storici della Maison e i salotti di prova della mitica sede di Piazza Mignanelli.

La mostra “Forever Valentino” racconta una città veloce costruita come un collage di ambienti ed esperienze in cui le creazioni di Valentino sono esposte in costante dialogo con molte delle fonti di ispirazione che hanno stimolato la creatività del fondatore e del suo successore e direttore creativo Pierpaolo Piccioli

La mostra compone una drammaturgia emozionale ispirata al capriccio, una forma d’arte del XVIII secolo che combinava scorci disparati di città e architetture, reimmaginandoli come paesaggi fantastici della mente. Ideata da geni del Barocco come Giovanni Antonio Canaletto e Giovanni Battista Piranesi, l’arte del capriccio trasformava i meravigliosi panorami italiani in miraggi incantati, creando molte delle icone e dei miti che ancora oggi costruiscono la percezione dell’Italia sia a livello locale che internazionale. La moda stessa è composta da capricci: fantasie, ispirazioni, arte, musica, cultura, il tutto tradotto in tessuto.

Con oltre 200 capi Haute Couture e abiti pret-à-porter di Valentino accompagnati da accessori e oggetti, “Forever Valentino” tesse un’immagine della città di Roma piena di ricordi privati e preziose scoperte provenienti da sei decenni di storia della Maison, tra cui abiti visti raramente e disegnati per personaggi come Elizabeth Taylor, Jacqueline Kennedy e, più recentemente, Zendaya.
Piuttosto che ricontestualizzate tra le mura di un museo, qui le creazioni di Valentino evocano il proprio contesto: trasportando con loro le tracce del luogo in cui sono state create, vengono scoperte nel loro habitat naturale.

I pezzi sono scelti istintivamente, emotivamente, evocando la gioia del colore, la dignità e la grazia dell’architettura romanica, l’amore cucito in ogni cucitura. Parte della storia della moda, della cultura e di Roma, le creazioni di Valentino appaiono come parte integrante del patrimonio della maison e del suo luogo di nascita. 

Pochi marchi hanno stabilito un legame profondo con la propria città d’origine come Valentino ha fatto con Roma, e nel lavoro del successore di Valentino Garavani, Pierpaolo Piccioli, Roma appare non più come un emblema esclusivo di opulenza ma come una metropoli vibrante e multiculturale. 

“Forever Valentino” mette in scena una visione pop-up e onirica di Roma, ancora più affascinante se vista a Doha, una città dove il passato e il futuro si incontrano a una velocità vertiginosa.

La mostra è curata da Massimiliano Gioni, direttore artistico del New Museum di New York, e dal critico di moda e autore Alexander Fury, in stretta collaborazione con Pierpaolo Piccioli.

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Brice Gelot, per l’amor di Dio

Brice Gelot, per l’amor di Dio

Tommaso Berra · 22 ore fa · Photography

Per l’amor di Dio è un’espressione che esprime un’immagine della religione intesa come soluzione di salvezza, spesso associata a un senso di insoddisfazione o impazienza. È di uso comune, inserita nel linguaggio tanto quanto la religione stessa è pervasa, per ragioni molteplici e complesse, nella società.
“For the love of god” (“per l’amor di Dio” appunto) è anche il titolo della serie fotografica dell’artista francese Brice Gelot, che Collater.al pubblica in anteprima in versione integrale. Lo sguardo è quello verso la religione – quella cristiano cattolica in particolare – intesa come sistema socio-culturale di comportamenti, che supera spiegazioni razionali tendendo alla trascendenza. Sta forse in questo non esaurirsi mai di significato nel mondo reale il successo dell’arte religiosa nel corso dei secoli, chiamata a interpretare e raffigurare simboli sempre uguali che però assumono di volta in volta significati nuovi.

Fotografare la fede diventa per Brice Gelot espressione del reale. Osservare come le persone affrontano le sfide della natura e fotografarle significa vivere in prima persona una vita di fede, che diventa uno strumento di comprensione e analisi di ciò che è sacro e profano.
Negli scatti di Gelot emerge come la religione faccia parte dell’esperienza umana e come rappresenti una forza capace di plasmare il mondo che ci circonda e la sua rappresentazione estetica. Tattoo, statue, icone, nicchie per la venerazione dei santi, l’immaginario artistico di queste fotografie non è metafisico ma reale, vive lungo le strade e sulla pelle delle persone.

Brice Gelot | Collater.al
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Brice Gelot, per l’amor di Dio
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I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 

Giorgia Massari · 3 giorni fa · Photography

La foschia dell’incertezza, giunta con l’avvento della pandemia e della successiva guerra ucraina, ha travolto la fotografa Tetyana Maryshko, tanto da portarla a realizzare un progetto fotografico di lunga durata in cui ricerca inesorabile la propria essenza. Attraverso un percorso fatto di onestà verso sé stessa, la fotografa ucraina esplora la sua interiorità realizzando autoscatti in cui fonde elementi personali e relazionali. “Ci siamo io, la macchina fotografica e la verità” dice l’artista.
Ogni fotografia cattura un riflesso, una conversazione, un istante fermo nel tempo che dialoga con la sua anima. Gli scatti, in bianco e nero e a colori, tentano di andare oltre l’estetica del soggetto, applicando un velo di sfocatura che impedisce la chiara lettura dell’immagine, oppure inserendo superfici texturizzate davanti all’obiettivo, come un vetro bagnato o un foglio di pluriball. Altre volte invece la fotografia è chiara e nitida, come il suo scatto nella vasca che fa trasparire una certa sofferenza. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi arrossati trasudano pianto e disperazione mentre le labbra serrate comunicano impotenza, quella sensazione che ogni essere umano prova davanti alla guerra.

Un elemento che ricorre spesso nelle di Tetyana Maryshko è il fiore, posto in dialogo con il corpo: posizionato lungo la colonna vertebrale o davanti agli occhi, per coprire lo sguardo, simboleggiando una volontà di rinascita. Tetyana racconta come sia stato un lungo percorso, difficile e travagliato: “Quando rivolgiamo la macchina fotografica verso noi stessi, intraprendiamo un viaggio alla scoperta di noi stessi che richiede introspezione e vulnerabilità… Alla fine, questo progetto non è stato solo un viaggio personale, ma universale. Una testimonianza dell’esperienza umana.

I paesaggi interiori di Tetyana Maryshko 
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La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi

Laura Tota · 3 giorni fa · Photography

Abitare un corpo, vuol dire percepirlo, riconoscersi ed essere riconosciuti. Significa sentirsi familiari verso se stessi e gli altri, rapportarsi al Mondo attraverso terminazioni nervose, adipe e sensi.
Il corpo è il centro nevralgico della nostra identità e volontà, e il nudo in particolare è stato a lungo uno dei soggetti preferiti dai fotografi sin dalla nascita del mezzo fotografico. Tuttavia, parlando di nudo maschile, la sua diffusione risulta inferiore, salvo alcuni casi particolari, poiché ritenuto meno interessante (se non addirittura disturbante) dal dominante “Male Gaze” (ovvero la raffigurazione dell’universo femminile, nelle arti visive e nella letteratura, da un punto di vista non solo maschile, ma eterosessuale, che rappresenta le donne come meri oggetti sessuali finalizzati alla mera soddisfazione del pubblico maschile). Solo dalla fine degli anni ’70, grazie alla nascita del movimento di liberazione omosessuale e del mercato pubblicitario, abbiamo assistito a una sua nuova nuova vita, capace di trasformare il corpo maschile in oggetto erotico e di contemplazione edonistica. 

 
 
 
 
 
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Ne sono un esempio gli iconici scatti di Robert Mapplethorpe, attratto dal nudo maschile sin dall’infanzia, che rievocano le nudità classiche e restituiscono dignità e bellezza a una categoria di persone considerate allora degradanti, o i più recenti ritratti del fotografo Florian Hetz che, attraverso serrati close up, immortalano la vera essenza e l’innata sensualità del corpo maschile.

Ed è proprio sul confine tra arte ed erotismo che si gioca la narrazione di “Bodies”, l’ultimo progetto di Francesco Paolo Gassi, giovane autore pugliese che nella sua pratica si confronta con la fisicità del corpo. Francesco è letteralmente ossessionato dalle imperfezioni e dalla naturalezza della sbavatura, lontana dai cliché estetici patinati: peli, pelle e fluidi corporei sono il suo terreno di gioco, dettagli e particolari i suoi punti di vista preferiti. Si muove con attenzione attorno al corpo maschile, ovvero ciò che è per lui più familiare, ma che allo stesso tempo è stato a lungo motivo di vergogna da parte di una comunità cui ha dovuto per anni nascondere la propria sessualità.

Arte, pornografia e tassonomia dialogano nello spazio fotografico. Le pose, studiate meticolosamente, proprio come l’illuminazione e la relazione del corpo con lo spazio, suggeriscono e alludono a un’erotizzazione del corpo che non è mai esplicita, orientano l’anatomia umana per enfatizzare l’insignificante e il banale, elevandolo a oggetto del desiderio. Il suo è un approccio quasi scientifico che, attraverso l’immagine fotografica, mira a rendere eterna la materia organica di cui l’uomo è costituito e a raggiungere l’essenza di ogni soggetto ritratto.
Così, i corpi maschili diventano il terreno da gioco ideale su cui rinegoziare l’identità, scevra da sovrastrutture sociali e libera da condizionamenti, presentata all’occhio dell’osservatore nella sua totale, disturbante e ambivalente autenticità. Il progetto abbina fotografie digitali a istantanee: nell’unicità di una polaroid si perpetua infatti l’irripetibilità del corpo, così come nella qualità dell’immagine digitale si riflette ogni singolo dettaglio della specificità epidermica di ogni corpo fotografato.

La tassonomia del corpo maschile di Francesco Paolo Gassi
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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 4 giorni fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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