Il nudo artistico e la liberazione nelle foto di Lucie Nechanicka

Il nudo artistico e la liberazione nelle foto di Lucie Nechanicka

Tommaso Berra · 2 mesi fa · Photography

Forma di libertà e autoaffermazione nei confronti di un mondo di convenzioni e vincoli, fotografando il proprio corpo nudo l’artista Lucie Nechanicka vuole raggiungere questa condizione di libertà personale ed emotiva.
Nata in Repubblica Ceca e ora con base nel Regno Unito, Lucie rappresenta questa libertà innanzitutto spogliandosi di qualsiasi velo che può condizionare lo sguardo, per allontanarsi da una visione tradizionale della nudità e tornando a una tradizione del corpo, visto come unità pura, elemento che più condivide meccanismi con la Terra e la natura.
Tecnicamente Lucie Nechanicka rappresenta il concetto di libertà attraverso la distorsione prospettica oppure nascondendo il proprio corpo o giocando con le ombre, che sono sia naturali sia portate da altri oggetti che creano decori sulla pelle. L’utilizzo di angoli insoliti aiuta ad uscire dalla monotonia della narrazione sul corpo umano in fotografia, così come altri elementi che sembrano mettersi tra il soggetto e lo spettatore, come lenti, filtri o specchi, capaci alterare una prima impressione che è tutta la riscrivere, rivedere e analizzare fuori dagli schemi tradizionali.

Il nudo artistico e la liberazione nelle foto di Lucie Nechanicka
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“Lettere alla piccola me” per fare pace con il passato

“Lettere alla piccola me” per fare pace con il passato

Laura Tota · 1 mese fa · Photography

Sentiamo spesso dire che una fotografia vale più di mille parole e che spesso una buona fotografia non ha bisogno di parole per essere spiegata.
Sebbene fotografia e scrittura afferiscano a due mondi diversi e a due linguaggi molto differenti tra loro, la storia ci ha insegnato quanto la loro complementarietà e coesistenza possa essere salvifica: un testo a corredo di un’immagine può svelarne letture altre, così come un’immagine a supporto della scrittura può completarne la visione. Ma quando fotografia e scrittura coesistono all’interno di uno stesso spazio visivo, succedono cose inaspettate, in cui diventa difficile definire quale linguaggio supporti l’altro.
Ancora più interessante sarebbe chiedersi come cambi tale coesistenza quando si mettono in dialogo una scrittura e un’immagine concepiti in tempi diversi e nati con diverse finalità. In che modo cambia il significato di entrambi i linguaggi?

Mi sono imbattuta qualche mese fa in un delicato progetto di Alexa Sganzerla, giovane autrice italiana impegnata nell’affrontare le tematiche della femminilità, dell’auto-rappresentazione e dell’identità.

Lettere alla piccola me è un lavoro foto-grafico dedicato alla cura, alla guarigione e alla pacificazione con il passato attraverso l’utilizzo di fotografie vernacolari e testi.
La visione dell’infanzia, ovvero di quello che dovrebbe essere il periodo più felice nell’esistenza di ogni individuo, viene de-romanticizzata accostando alle foto di Alexa bambina frasi relative a stati d’animo, esperienze ed emozioni pensate e sperimentate dall’Alexa adulta.
Quello che ne risulta, è una dissonanza potente, acuita da un lettering delicato, a volte giocoso e ironico che veicola però contenuti testuali spesso violenti, disincantati e sofferenti.

Così il sorriso della piccola Alexa, viene celato dall’imbarazzo provato dall’Alexa adolescente nel mostrare i suoi denti, a detta di molti storti e poco fotogenici o ancora l’Alexa bambina nel seggiolone viene redarguita sul ruolo del cibo per le donne nella società contemporanea. O ancora, altre foto sono piccoli abbracci di consolazione, tenerezza e affetto per tutte le volte che Alexa ha resistito e tenuto duro.

Quello di Alexa è insieme un genuino tentativo di mettere la piccola sé in guardia rispetto a situazioni e sensazioni che mai avrebbe immaginato di poter provare, così come è una terapia per fare pace con il passato, per tutte le volte che non è riuscita a tener fede ai sogni e alle promesse fatte a se stessa durante l’infanzia.
Alexa mette in dialogo un’immagine d’archivio con un pensiero scritto odierno, creando un cortocircuito necessario per chiedere scusa a sé stessa e prendersi cura della persona che è oggi, dando un nuovo significato a quelle immagini che acquisiscono così un ruolo terapeutico diverso dalla semplice funzione di ricordo (tipica della fotografia vernacolare) per cui erano state scattate.

I messaggi, a volte personali e legati alla biografia personale dell’autrice, altre relativi più alla sfera sociale e quindi a macro tematiche quali la misoginia, gli standard di bellezza o il femminismo, rendono “Lettere alla piccola me” una carezza universale, pronta a posarsi sul viso di chi voglia prendersi un attimo per riflettere sulla propria vita e fare un bilancio in dialogo aperto con il passato.

Alexa Sganzerla | Collater.al
Alexa Sganzerla | Collater.al
Alexa Sganzerla | Collater.al
Alexa Sganzerla | Collater.al
Alexa Sganzerla | Collater.al
“Lettere alla piccola me” per fare pace con il passato
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“Lettere alla piccola me” per fare pace con il passato
“Lettere alla piccola me” per fare pace con il passato
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Un astronauta sul pianeta sbagliato, le foto di Ken Hermann

Un astronauta sul pianeta sbagliato, le foto di Ken Hermann

Tommaso Berra · 1 mese fa · Photography

Immaginate una situazione come quella che vivono i protagonisti di Interstellar, film di Christopher Nolan ambientato prevalentemente nello spazio e in una Terra futura. Brevemente, una delle dinamiche che si crea nella pellicola con protagonisti Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain e Michael Caine è che gli astronauti dopo una spedizione tornano dallo spazio non avendo seguito il flusso del tempo solare quindi viaggiando in qualche modo nel tempo conservando il loro aspetto di partenza. Si crea un’affascinante racconto in cui è poetico il modo in cui gli astronauti interagiscono con ciò che avevano lasciato alla loro partenza.
Seguendo la stessa suggestione, il fotografo Ken Hermann ha pubblicato la sua serie fotografica “Crash Landed“, che racconta l’esperienza di un astronauta solo su un pianeta che non riconosce più.

La Terra raccontata da Ken Hermann è un paesaggio post-apocalittico, non c’è più traccia degli umani, se non nelle costruzioni e negli interni, vuoti ma rimasti immobili nel tempo.
Solo la natura in questo ipotetico futuro è riuscita a riprendere possesso degli spazi, un elemento importante per raccontare il significato della serie, che vuole appunto approfondire il ruolo dell’uomo e la sua responsabilità nei confronti dell’ambiente in cui vive. La solitudine è l’altro tema che spicca nella composizione delle inquadrature, alla figura dell’astronauta è tolta qualsiasi interazione umana, così come qualsiasi umanità. Il mondo non gli appartiene più, lui stesso è diverso e non umano, la tuta spaziale con il casco tondo e riflettente aiuta a restituire un senso di diversità.

Ken Hermann | Collater.al
Ken Hermann | Collater.al
Ken Hermann | Collater.al
Ken Hermann | Collater.al
Ken Hermann | Collater.al
Ken Hermann | Collater.al
Ken Hermann | Collater.al
Ken Hermann | Collater.al
Un astronauta sul pianeta sbagliato, le foto di Ken Hermann
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Un astronauta sul pianeta sbagliato, le foto di Ken Hermann
Un astronauta sul pianeta sbagliato, le foto di Ken Hermann
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Dialogica: La cancellazione del ricordo nella fotografia

Dialogica: La cancellazione del ricordo nella fotografia

Laura Tota · 1 mese fa · Photography

La cancellazione è una pratica assai diffusa nella fotografia e rappresenta uno dei modi in cui spesso questa assume il ruolo di strumento utile al superamento di un dolore o di una perdita. Cancellare una persona da una fotografia vuol dire relegarla alla damnatio memoriae, “vaporizzarla” (rubando un termine coniato a George Orwell nel suo romanzo 1984) ed eliminarne la presenza (per lo meno) dalla documentazione visiva della propria vita.
La cancellazione infatti si applica soprattutto alla fotografia vernacolare, proprio quella cui è affidato il compito di preservare il ricordo di attimi, luoghi e persone e che, in relazione a un evento traumatico, può trasformarsi in un’arma potentissima nel risvegliare dolori e sentimenti di nostalgia verso qualcosa/qualcuno che non esiste più nella propria vita.
Ma se l’atto di cancellare, deturpare, ritagliare o bruciare rappresenta in sé un processo di allontanamento, c’è chi ha trovato un modo per renderlo persino catartico.

The Unperson Project è il progetto creato dalle messicane Susana Moyaho e Andrea Tejeda K. mirato a una vera e propria realizzazione di un archivio dell’oblio. Le due artiste, attraverso un’open call, hanno invitato le persone a donare loro fotografie in cui avevano cancellato qualcuno dall’immagine: una volta ricevute, le foto vengono catalogate e hanno così la possibilità di essere ricontestualizzate diventando parte di un progetto di mostra.
Rendendo pubbliche le proprie foto, i partecipanti rinunciano al loro controllo su di esse e possono realmente prendere distanze dal soggetto vaporizzato. Non solo: la condivisione di esperienze spesso traumatiche o spiacevoli, può facilitare il loro superamento portando a una migliore comprensione ed elaborazione del dolore stesso: quanto più nello spazio fotografico il soggetto vaporizzato è assente, tanto più diventa rilevante la presenza di chi resta.
Eppure, allo stesso tempo, cancellare una presenza da una foto può voler dire anche dare forma a nuove speranze, visioni e storie. Ne è un riuscito e commovente esempio quello del progetto Jamais je ne t’oublierai, della fotografa marocchina Carolle Bénitah.

In possesso di pochissime fotografie sulla storia dei propri genitori prima del loro matrimonio, Carolle attinge a un patrimonio potenzialmente illimitato di materiale iconografico proveniente da foto recuperate in mercatini, spacci e robivecchi, trasformando le storie raccontate negli scatti in quelle della sua famiglia.
I “fantasmi” e le storie protagonisti di questi scatti, vengono nascosti sotto foglie d’oro per diventare parte del racconto della sua biografia personale: l’oro, simbolo di dimenticanza, ma anche colore per eccellenza legato alla dimensione divina, copre con delicatezza e dignità i volti per consentire a Carolle di rifuggire dall’oblio.
L’artista marocchina sceglie con cura le vecchie fotografie su cui intervenire: si tratta di scatti le cui pose e scene ricordano deja-vu familiari, momenti felici che non ricreano finzioni o menzogne, ma si ergono a simbolo universale di un passato mai posseduto.
Assenza e presenza, cancellazione ed enfasi dialogano nello stesso spazio iconografico, seppur con premesse diverse, al fine di raggiungere un unico obiettivo: la pacificazione con il passato.

Dialogica | Collater.al
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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“Jamais je ne t’oublierai” – Carolle Bénitah
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6Ei6 “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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Ada “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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Domi “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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El camello “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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KarmaComa “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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Los Hijos del sol “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
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SusieQ “The Unperson Project”- Susana Moyaho e Andrea Tejeda K.
Dialogica: La cancellazione del ricordo nella fotografia
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Dialogica: La cancellazione del ricordo nella fotografia
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5 copertine scattate da fotografi che hanno fatto la storia del rap

5 copertine scattate da fotografi che hanno fatto la storia del rap

Collater.al Contributors · 1 mese fa · Photography

Per lanciare i propri album, in molti casi diventati pietre miliari della storia della musica, i grandi artisti rap hanno collaborato con fotografi di alto livello, già famosi in alcuni casi o lanciati proprio da queste collaborazioni e dalla capacità di rappresentare un immaginario di luoghi e temi ben precisi.

Collater.al ha chiesto a ESSE Magazine di segnalare 5 tra i nomi più importanti capaci di racchiudere in uno scatto l’intero progetto di un album. Da Kendrick Lamar a Tupac, cinque copertine renderanno ancora più chiaro il talento e la visione di questi artisti e il legame che unisce l’obiettivo fotografico ad alcuni dei più brillanti prodotti discografici degli ultimi anni.

Michael Lavine – The Notorious B.I.G. “Life After Death”

Michael Lavine è il fotografo di tantissime superstar, dal pop al rap. A lui si deve lo scatto della cover di uno degli album rap più belli di sempre: “Life After Death”. Lavine ha raccontato di come sia stato difficile scattare la foto in un’intervista nel 2017: tutto è stato studiato nei minimi dettagli, dalla scelta del cimitero fino all’espressione di Biggie, né felice e né arrabbiato. La sua intenzione era proprio quella di mostrare lo stato d’animo di una personaggio complesso come Biggie. 

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Jonathan Mannion – Jay-Z, “Reasonable Doubt

Tutte le più grandi leggende del rap sono state fotografate da Jonathan Mannion, autore di oltre 300 cover per artisti come Dr. Dre, Nas e Nicki Minaj. A lui si deve lo scatto della cover del primo iconico album di Jigga. Si tratta di una fotografia capace di raccontare perfettamente quale era il rap e il suo immaginario nel periodo in cui Jay-Z ha rilasciato questo disco (1996), molto legato all’immaginario gangsta, soprattutto italiano.
Un primissimo piano su pochi dettagli chiari e definiti: un sigaro, il fedora, cappotto scuro e sciarpa bianca. Il contributo a uno dei più grandi successi di sempre.

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Danny Clinch – Kanye West, “808s & Heartbreak

Avere l’approvazione di Kanye in un periodo delicato come quello della morte della madre è un’impresa difficile. Danny Glinch ci è riuscito con un scatto minimalista, che coglie in pieno lo spirito dell’album e dell’artista: dai colori sgargianti di “Graduation” si passa ad un palloncino sgonfio a forma di cuore, a descrivere l’emotività di Kanye del periodo. 
Una capacità di sintesi e potenza visiva che Clinch ha appreso nei suoi anni da studente di Annie Leibovitz e David Hockney e poi passando come assistente di Steven Meisel.

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Chi Modu – Tupac, “Better Dayz”

Quando parliamo di Chi Modu, ci riferiamo ad una vera e propria leggenda nel mondo hip hop. A lui si devono gli scatti più iconici del panorama rap americano – tra i quali quelli di Biggie con il World Trade Center di spalle, per intenderci. Chi Modu è il fotografo che ha scattato la bellissima foto usata per “Better Dayz”, uno dei vari album postumi di Tupac. La foto, scattata ad Atlanta nel 1994 è ancora la prima nel suo portfolio sul web.

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Denis Rouvre – Kendrick Lamar “To pimp a butterfly”

In tanti hanno parlato del significato della copertina di uno dei più importanti album di Kendrick, così come sono tanti i dettagli (avevi notato che nello scatto c’è anche l’artista che tiene un bambino in braccio?) e i simboli messi in scena da un maestro della fotografia come Denis Rouvre.
Il fotografo francese specializzato in ritrattistica ha immortalato negli anni un gran numero di celebrità, i suoi reportage sono valsi premi e pubblicazioni internazionali, grazie alla potenza del suo punto di vista e all’energia che sono condensate anche nella cover del disco eletto “Best Rap Album” ai Grammy del 2016.

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