La bellezza universale negli scatti di Raimondo Rossi

La bellezza universale negli scatti di Raimondo Rossi

Giulia Guido · 2 anni fa · Photography

È difficile trovare una sola parola per definire Raimondo Rossi

Di origini Perugine, Raimondo, conosciuto anche come Ray Morrison, è seguito soprattutto per la sua versatilità artistica. 

Grazie al suo styling personale è stato più volte menzionato come personalità da seguire per la moda uomo, ha collaborato con diversi magazine lavorando sia come Fashion Editor sia come Art Director e, ultimo ma non per importanza, si è distinto come fotografo. 

Noi ci siamo voluti focalizzare su questo ultimo aspetto, catturati dai suoi ritratti che fondono la fotografia di moda con una fotografia più intima e profonda. Infatti, non pensate di trovarvi davanti a scatti classici, in cui il focus è quasi sempre sul prodotto e sullo styling, ma Raimondo Rossi riporta l’attenzione sulla persona, sull’individuo. 

Attraverso le sue fotografie e i suoi ritratti, riscopriamo la bellezza della diversità.

Noi abbiamo avuto l’occasione di fargli qualche domanda per conoscere al meglio il suo lavoro. Non perderti l’intervista qui sotto! 

Raccontaci qual è il tuo background, come ti sei avvicinato alla fotografia e se c’è un momento in particolare che ti ricordi?

Sono cresciuto in Umbria e durante le vacanze estive con la mia famiglia giravamo l’Europa in camper. Proprio in quelle occasioni mia madre si dilettava a scattare fotografie con la mitica Rolleiflex, una film-camera.
Ho sempre assistito al processo di creazione dei ricordi tramite fotografie e proprio alcuni anni fa ho deciso di iscrivermi a corsi specializzati.
Dopo la teoria ho iniziato a fare pratica realizzando reportage nei backstage delle fashion week.
Oggi la mia fotografia si è evoluta tanto che mi dedico di più a ritratti o a editoriali di moda. 

Anche dando una veloce occhiata al tuo lavoro si può subito capire che non ti poni nessun limite. Spazi dalla moda, al mondo del cinema, alla fotografia. Ma quale di questi ambiti senti più tuo?

Sono sincero. Non ho alcuna preferenza perché quando scatto mi concentro sulla persona che intendo ritrarre o sulla situazione che in quel momento voglio raccontare. Pertanto, o che la persona o che la situazione siano riferibili ad un evento di moda o cinematografico, non fa per me differenza perché vado a ritrarre un soggetto o a riscrivere un’atmosfera che mi colpisce in quel momento. Non mi limito a fare una cronistoria ma cerco di entrare in punta di piedi dietro le quinte delle storie, annusandole. Nonostante si tratti di tre settori tutti molto interessanti, ritengo di avere maggiore esperienza nella moda. 

Ultimamente hai realizzato degli scatti che rendono omaggio alla diversità, fotografando i volti di uomini e donne di diverse culture. Cosa vuoi raccontare con queste fotografie?

Discriminazioni e ingiustizie sono ormai all’ordine del giorno e noi artisti abbiamo il dovere di sensibilizzare e di trasmettere messaggi importanti. È quello che cerco di fare io con la mia fotografia. Nei miei scatti, ho raccontato spesso la discriminazione e la diversità per far capire che a prescindere dal colore della pelle siamo tutti uguali. Spero che determinati valori possano essere recepiti in maniera autentica dalla società, dalle istituzioni, dai giovani e dalle loro famiglie. Oggi purtroppo anche alcune riviste tendono a voler accendere dei riflettori su un determinato problema finendo per incorrere nell’errore opposto. 

Secondo te qual è la cosa da considerare più importante mentre si realizzano dei ritratti fotografici?

Ogni fotografo ha un suo stile e un suo modo di vivere la fotografia. Nel mio lavoro non perdo mai di vista il soggetto che ho davanti all’obiettivo. Alla fine del servizio, spiego sempre alla  persona ritratta che quello che vedrà è un’immagine filtrata dal mio sguardo e reinterpretata in una chiave artistica. Sarà la sua figura, ma anche la mia. 

Quali attrezzature utilizzi per scattare? Quali strumenti porti con te quando scatti e perché?

Solitamente uso una 3400, una macchina fotografica minimale e leggera che offre un buon compromesso tra qualità e trasportabilità. Mi sono dotato anche di un paio di luci LED con cui posso divertirmi a creare dei giochi d’ombre e immagini particolari dando risalto a ciò che colpisce il mio sguardo.

Ovviamente ho anche altre attrezzature, come i flash, che però sto man mano abbandonando perché nella ritrattistica non danno risultati soddisfacenti.

A quali artisti ti ispiri e che fotografi hanno influenzano il tuo lavoro?

Non ho artisti in particolare da cui posso dire di aver tratto maggiormente ispirazione. Apprezzo i fotografi di alcuni decenni fa, come la Arbus o Bresson, che avevano teorizzato una fotografia senza dubbio più autentica, reale e meno inquinata dalla tecnologia. Per esempio, “L’uomo con i bigodini” di Diane Arbus è per me la foto del secolo. Un vero capolavoro.

Ultima, ma doverosa domanda, soprattutto visto il tuo spaziare tra ambiti in cui l’estetica ha un ruolo fondamentale. Cos’è per te la bellezza?

Credo che la bellezza equivalga a indossare degli occhiali magici che permettono di stringere un rapporto speciale con le cose o le persone che ci circondano, senza invidie e gelosie. La bellezza è libertà. Seguendo quest’ottica potremmo rompere con i canoni estetici stabiliti nel corso degli anni e potremmo parlare di vere e proprie rivoluzioni. È quello che è successo di recente con le modelle curvy.

Un corpo plus size può essere valorizzato e diventare armonioso e lo stesso può succedere con un viso più spigoloso. L’estetica del David non si prospetta più come verità assoluta ma diventa una delle tante forme in cui il corpo si esprime. I canoni estetici hanno subito un’evoluzione da un po’ di tempo a questa parte e non senza polemiche. Basti pensare ad Armine, modella usata da Gucci a fini commerciali e vittima di body shaming attraverso insulti sui social. 

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Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi

Giorgia Massari · 3 ore fa · Photography

Perché sentiamo di appartenere ad alcuni luoghi e non ad altri? Si interroga la fotografa danese Lise Johansson (1985). Da questa riflessione parte la sua ricerca, basata sull’analisi del rapporto tra l’uomo e l’ambiente che abita. Molto spesso le nostre case rappresentano ciò che siamo, sono il riflesso della nostra anima e del nostro carattere. Minimal o barocche, total white o colorate, ricche di oggetti oppure asettiche; in ogni caso, costruiamo ambienti su misura per noi, in cui sentirci a nostro agio e che diano forma alla nostra persona. Ma quando usciamo fuori casa e ci troviamo a rapportarci con altri ambienti, come il luogo di lavoro, uno studio medico o la casa di un nostro amico, entrano in gioco fattori esterni che non possiamo controllare e con cui siamo costretti a interfacciarci. Lise Johansson ragiona su queste dinamiche inconsapevoli che regolano la psicologia inconscia.

Nella serie intitolata I’m not here, la fotografa realizza una serie di autoscatti all’interno di un ospedale abbandonato. L’ambiente è asettico e di una desolazione inquietante in cui il bianco domina inesorabile. La luce del giorno entra dalle finestre, talvolta in contrasto con quella artificiale, accentuando la potenza cromatica del bianco, evidenziato ancor di più dalla carnagione lattiginosa della fotografa e dal suo abito lungo candido, tipico dei pazienti ospedalieri.
Il rapporto tra il soggetto e l’ambiente non risulta essere rilassato. Si percepisce una tensione malinconica, tipica dei soggetti rinchiusi all’interno di un luogo. La figura sembra quasi vagare come uno spettro, il suo volto non è mai visibile a causa dell’inquadratura fotografica e, negli altri casi, è nascosto dentro o dietro un oggetto – come un lavandino o uno specchio. Questo particolare consente alla donna di essere presente nello spazio ma allo stesso tempo di non abitarlo, come se la sua mente provasse a evadere in altre direzioni, cercando una via di fuga. Così come il soggetto, anche l’ambiente è vulnerabile, fermo in un limbo e sottoposto a trasformazioni. Il luogo esiste, come la donna, ma sono entità dimenticate, senza status e completamente svuotati di un’anima.

Lise Johansson e la non-appartenenza ai luoghi
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Diego Dominici e il velo di Maya

Diego Dominici e il velo di Maya

Giorgia Massari · 4 giorni fa · Photography

Un velo delicato, quasi trasparente e impercettibile, fluttua davanti ai nostri occhi e filtra la realtà, che diventa soggettiva e mai assoluta. Il filosofo Schopenhauer lo chiamava “il velo di Maya”, quell’impedimento che vieta all’uomo di fare esperienza del reale, che ci illude di conoscere la Verità. Il fotografo Diego Dominici lo pone tra lo spettatore e i suoi soggetti, trasformandolo in effettivo protagonista delle serie Atman e Red Clouds. Le figure – uomini e donne – sono intrappolate nel velo, lottano con esso tentando di evadere, aggrappandosi con forza, cercando di penetrarlo, in altri casi invece lo accolgono, adagiandosi e uniformandosi alla sua morbidezza che persuade. Allo spettatore è permesso solo intravedere le forme dei loro corpi nudi e le loro ossa impresse sulla superficie, in una danza di luci e ombre che trasmettono sensualità e solitudine allo stesso tempo.


Diego Dominici tenta di rompere la bidimensionalità della fotografia, creando due piani di profondità: quello dettato dal tessuto e dalle sue increspature e quello in cui è posizionato il soggetto. L’occhio dello spettatore è portato a muoversi continuamente sulla superficie, cercando di superarla e raggiungere così il soggetto e le sue forme dunque, in altre parole, la Verità.
L’analogia con la psicologia umana è dichiarata dal fotografo che vuole “squarciare la bidimensionalità per indagare i grovigli dell’interiorità umana”. Come nei suoi scatti, l’uomo può scegliere di farsi cullare dal velo dell’illusione, farsi accarezzare da una fittizia realtà e rimanere fermo sul suo punto di vista, oppure può scegliere di romperla, raggiungendo così l’altro lato e guardare la realtà da un’altra prospettiva. Il tessuto, o meglio il velo, diventa l’emblema delle barriere relazionali, quegli ostacoli che si interpongono tra noi e gli altri, che ci impediscono di comprendere le ragioni altrui e che creano distanze incolmabili. Allo stesso tempo, il velo diventa parte di noi, una sorta di involucro che ci avvolge e ci plasma, impedendoci di andare oltre. Ma, come diceva Schopenhauer, il velo di Maya dev’essere abbattuto, squarciato come una tela di Fontana, l’uomo deve abbandonare l’involucro come un serpente che cambia la propria pelle, per potersi aprire all’altro. Del resto, cos’è l’amore se non “l’annullamento dell’ego, il crollo di ogni discriminazione cosciente e la rinuncia a ogni metodica scelta”? diceva Salvador Dalì ne La mia vita segreta. Le opere di Diego Dominici invitano quindi a una profonda riflessione intima ma, grazie alla sua estetica attentamente curata, possono anche semplicemente appagare la vista e apparire come opere sensuali, in cui il velo diventa un preludio al piacere intimo.

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Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Le foto di Cecilie Mengel sono un dialogo interiore

Tommaso Berra · 4 giorni fa · Photography

Basta ascoltare le conversazioni che nascono dentro la propria testa a Cecilie Mengel per immaginarsi come potrebbero essere rappresentate fotograficamente. L’artista danese e ora residente a New York realizza scatti che sono dialoghi interiori nati dagli stimoli che lei stessa riceve da ciò che la circonda e dalle persone con cui si trova a vivere momenti molto quotidiani.
Il risultato è una produzione artistica che è contraddistinta da una forte varietà nei soggetti e nelle ambientazioni, così come nello stile, una volta documentaristico, altre volte più vicino a una certa fotografia posata e teatrale. Si passa da scatti rubati in casa durante una conversazione a dettagli di una latta di salsa Heinz trovata nel porta oggetti di un taxi, tutto ricostruisce una storia comune e quotidiana.
Anche la tecnica di Cecilie Mengel rispecchia questa stessa idea di varietà. L’artista infatti combina fotografia digitale e analogica, in altri casi la post produzione aggiunge segni grafici alle immagini. Le luci talvolta sono naturali altre volte forzatamente create con il flash, creando un senso d’insieme magari meno omogeneo ma ricco di suggestioni e raconti personali.

Cecilie Mengel è stato recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Cecilie Mengel | Collater.al
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Isabella Ståhl è tornata a Nord

Isabella Ståhl è tornata a Nord

Tommaso Berra · 5 giorni fa · Photography

Isabella Ståhl è una fotografa svedese che si è trovata a riscoprire i paesaggi della propria infanzia dopo aver viaggiato in tutto il mondo, partendo da Stoccolma fino a New York, Parigi e Berlino. Il Nord rappresenta il punto cardinale dal quale si è spostata inizialmente, tornando poi una volta affinata la propria maturità artistica, che le ha permesso di guardare sotto una nuova luce i paesaggi rurali e malinconici della propria infanzia.
Nelle foto di Isabella Ståhl a dominare è la natura con i suoi vasti campi e gli animali selvatici e selvaggi avvolti nella nebbia, che nasconde anche tutto il resto del paesaggio come una coperta bianca. La straordinaria solitudine delle composizioni e la malinconia che entra dritta negli occhi degli spettatori sono due tra le caratteristiche principali del lavoro di Ståhl, fotografa affermata che nel corso della sua carriera artistica ha collaborato con alcuni dei più importanti brand ed editori internazionali. La sua capacità non è solamente quella di saper costruire una storia dietro ai momenti che sceglie di scattare, ma anche restituire come delle sensazioni fisiche di calore, freddezza, dei brividi che rendono protagonisti tutti coloro che si fermano a guardare le fotografie.

Isabella Ståhl è stata recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.

Isabella Ståhl | Collater.al
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